Dal 5G ai pannelli solari fino alle terre rare, l'Impero di mezzo ha approfittato del Covid per dominare i settori chiave del presente e del futuro, lanciando la sfida al mondo libero.L'economista dell'Ispi Alessia Amighini: «Bruxelles si impegna per l'ambiente, ma compra dal governo comunista beni prodotti senza regole».Lo speciale contiene due articoli.Il filosofo Wang Fuzhi le chiamava «le trasformazioni silenziose». È la penetrazione tentacolare in tutti i settori nevralgici dell'economia effettuata senza clamori ma in modo costante e determinato. Il Covid avrebbe dovuto schiacciarla come ha fatto con il resto del mondo, in realtà ha reso la Cina ancora più forte. Le ha regalato un vantaggio competitivo inaspettato. Pechino ha dato una risposta immediata alla pandemia anche in virtù di un potere decisionale autoritario che ha consentito drastiche restrizioni e ha approfittato del crollo delle economie dei Paesi competitor. Così, mentre Europa e Usa erano stremati dalla pandemia, il Dragone attuava la sua più potente strategia di espansione economica. Se il mondo si leccava le ferite dal Covid, la Cina faceva incetta dei materiali fondamentali per la produzione industriale. Risultato: non appena le restrizioni sono state abolite per il regredire del virus e l'economia è ripartita, le aziende europee e americane si sono trovate senza scorte e a dover dipendere ancora di più da Pechino. Così i prezzi di rame, ferro, cobalto, nichel sono schizzati alle stelle e con essi i costi dell'energia.La Cina aveva già mostrato la capacità di rivolgere a proprio vantaggio una situazione penalizzante anche durante la presidenza Usa di Donald Trump, quando la Casa Bianca impose i dazi. Pechino rispose stimolando la domanda di consumi interna e intensificando la campagna acquisti di tecnologia. Questo ha determinato un maggior fabbisogno di materie prime e delle cosiddette terre rare, necessarie per i prodotti ad alta tecnologia. la guerra dei microchipGli Usa sono già molto dipendenti tecnologicamente dalla Cina. Un analista di Jefferies ha calcolato che Huawei è il secondo cliente al mondo di Sony per acquisto di sensori ottici (il primo è Apple): da solo il colosso cinese rappresenta oltre il 20% del fatturato di Sony nel settore. Alcuni produttori cinesi di hardware, per aggirare le barriere poste dagli Stati Uniti, hanno spostato fuori dalla Cina una parte della produzione. Come Quanta Computer, fornitrice di servizi per Google e Amazon, che ha delocalizzato la fabbricazione di server per il cloud computing a Taiwan, per continuare indisturbata a fare affari con gli Usa. Stesso discorso per Foxconn, il più grande fornitore di Apple. Nella tecnologia di nuova generazione sono fondamentali i microchip. Sono i «cervelli» di computer, server, telefonini, automobili, fotocamere, frigoriferi, radio, tv; sono il cuore del 5G e dell'intelligenza artificiale. Un settore che, secondo Bloomberg, vale oltre 500 miliardi di dollari. Nel 2018 l'Economist scriveva che «l'industria dei microprocessori è quella in cui la leadership industriale americana e le ambizioni da superpotenza cinesi si scontrano in modo più diretto». I circuiti elettronici fanno muovere gli eserciti e le attività della difesa, della sicurezza e dell'aerospazio. In Cina si produce il 26% dei chip mondiali. Gli Usa stanno cercando di riconquistare la leadership nel settore e di contrastare l'avanzata di Pechino. Il presidente Joe Biden ha stanziato 50 miliardi di dollari per rafforzare la capacità produttiva e la sorveglianza sull'uscita di tecnologia dagli Stati Uniti. La Cina ha intensificato anche la conquista di aziende ricche di know how. Il caso più recente è stato il tentativo della Shenzhen Investment di acquisire il 70% dell'italiana Lpe, produttore di reattori destinati ai semiconduttori. Un colpo andato a vuoto per l'intervento del premier Mario Draghi. Bruxelles ha destinato 145 miliardi di euro a progetti digitali, un quinto del fondo per la ripresa economica dalla pandemia.il controllo dei datiLo sviluppo della telefonia cellulare può indurre a pensare che le informazioni viaggino preferibilmente via etere tramite i satelliti; in realtà questi hanno una funzione marginale. Il 95% dei dati, come ha calcolato l'Information technology & innovation foundation, corre nelle profondità marine in una rete di oltre 400 cavi che si dirama per 1,2 milioni di chilometri tra tutti i continenti. La digitalizzazione dell'economia e lo sviluppo delle reti di quinta generazione (5G) produrranno sempre più dati che dipenderanno dai cavi per essere veicolati in modo veloce. Di qui l'interesse delle potenze mondiali. Il mercato dei cablaggi sottomarini dovrebbe raggiungere nel 2026 il valore di 30,8 miliardi di dollari a fronte dei 10,3 miliardi del 2017.La Cina con la supremazia nel 5G sta attuando una politica sempre più aggressiva nel settore e l'obiettivo è una nuova Via della seta digitale. La Huawei marine è uno dei protagonisti del Pakistan & East Africa connecting Europe, il progetto di cavo sottomarino che partendo dal Pakistan e passando in Kenya, Gibuti ed Egitto, tramite il Canale di Suez entrerebbe nel Mediterraneo per arrivare a Marsiglia.il business delle batterieLa tecnologia di nuova generazione si basa sulle terre rare di cui la Cina detiene il 60% della produzione e la cui destinazione è l'Europa addirittura per il 98%. Pechino ha un ruolo di preminenza pure nella lavorazione e raffinazione di tali materiali. Questa dipendenza ha all'origine le politiche green. La Ue ha rinunciato all'estrazione di minerali che pure sono essenziali per tutti i prodotti della transizione ecologica (dalle pale eoliche ai pannelli fotovoltaici, dalle batterie ai componenti per elettrodomestici a basso consumo fino ai computer) perché l'industria estrattiva è a elevato impatto ambientale. Ma non potendo farne a meno, ecco che si deve rivolgere a chi tali minerali li estrae, senza badare ai danni ambientali. la fregatura «verde»Pechino, che ha sempre respinto i vincoli ecologici, si sta avvantaggiando delle politiche green dell'Europa. «I cinesi hanno il 100% della capacità produttiva dei pannelli solari e il 50% delle pale eoliche e delle batterie. Guardano più avanti degli altri e usano politiche commerciali predatorie, per cui tengono i prezzi bassi eliminando così i concorrenti stranieri per poi dominare il mercato. Approfittano dell'incapacità dell'Europa di decidere in fretta e in modo unitario e dei vincoli industriali in nome del rispetto dell'ambiente», commenta Alberto Forchielli, imprenditore ed esperto di interscambio con Pechino.il dominio sui mariLa Cina ha dichiarato guerra al resto del mondo anche sul fronte dei trasporti marittimi. I cinesi producono quasi la totalità dei container del mondo e stanno operando al 100% della loro capacità produttiva nel settore. In questo modo tengono in mano la catena di approvvigionamento delle merci sull'intero pianeta. Oggi la Cina ha 8 dei 17 maggiori porti del mondo come volumi di spedizione. Quando il Covid ha bloccato questo meccanismo, i costi dei trasporti sono schizzati. Ma passata la fase acuta del virus, la speculazione è continuata, favorita dalla ripresa dell'economia e dall'esplosione della domanda. Da inizio 2020 i noli marittimi sono rincarati del 600%. «L'Europa deve decidere da che parte stare, se essere filoatlantica o filocinese», afferma Antonio Selvatici, autore del saggio L'invasione cinese. «La Germania è filocinese perché è l'unica ad avere una bilancia dei pagamenti con Pechino in attivo, esporta più di quanto importa, soprattutto nel settore auto. Questo non aiuta nella compattezza delle strategie economiche che l'Europa dovrebbe darsi: troppi interessi contrastanti».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/cina-covid-occidente-2655174475.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="le-politiche-green-dellunione-europea-fanno-ricco-il-regime" data-post-id="2655174475" data-published-at="1632688285" data-use-pagination="False"> «Le politiche “green” dell’Unione europea fanno ricco il regime» «Il Covid è stato sfruttato da Pechino per conquistare un vantaggio competitivo rispetto al resto del mondo. La Cina ha combattuto con prontezza il virus ed è rimasta chiusa per poco tempo. Poi ha ripreso a marciare approfittando dello sbandamento dei suoi competitor. Ma questa è solo l'ultima tappa di un'avanzata economica che si è avvalsa soprattutto dell'ingenuità dei Paesi che hanno dismesso e delocalizzato produzioni ritenute non più strategiche o inquinanti. La transizione ecologica avviata in Europa e Stati Uniti è per i cinesi una grande opportunità di rafforzarsi in settori con alto impatto ambientale ma fondamentali nell'evoluzione green». Alessia Amighini, economista dell'Ispi e dell'Università del Piemonte orientale va dritta al nocciolo del tema. «L'Europa si lava la coscienza abbandonando produzioni inquinanti ed estrazioni di minerali con tecniche nocive all'ambiente ma poi acquista gli stessi prodotti dalla Cina che si fa ben pagare». La sterzata verso l'economia green sta favorendo la Cina? «Esattamente. L'Europa da una parte dichiara guerra alle plastiche ma dall'altra continua ad approvvigionarsi dalla Cina, con la motivazione che i prodotti costano poco e facendo finta di non sapere che se i prezzi sono contenuti è perché vengono usati sistemi di produzione fuori da qualsiasi regola di compatibilità ambientale. Pechino ha approfittato immediatamente del vantaggio offerto dai divieti imposti alle aziende europee dalla transizione ecologica. È quasi impossibile risalire all'intera filiera dei fornitori di componenti industriali di cui si servono le imprese europee». Non c'è trasparenza sulle produzioni cinesi? «No, e nessuno si pone il problema, salvo poi stupirsi che la sede di alcuni fornitori fosse nei campi di reclusione. Solleviamo il tema dei diritti umani solo quando ci fa comodo. E i cinesi sono abili e veloci ad approfittarsene». Quali settori interessano di più? «Soprattutto la robotica, i macchinari tecnologicamente avanzati, l'elettronica di consumo e la tecnologia spaziale, poi i settori dell'industria manifatturiera pesante. La Cina produce il 20% dei microprocessori che utilizza. L'obiettivo primario è acquisire le competenze altrui per rendersi autonomi dalla tecnologia estera». Si servono dello spionaggio industriale, di partnership o acquisizioni? «L'ingresso nell'azionariato di un'azienda interessa poco. Le partnership le impongono quando un'industria va a produrre sul loro territorio e puntano ad acquisire know how. Quando invece operano all'estero preferiscono acquisire completamente un'azienda e sono molto veloci e abili ad approfittare della debolezza istituzionale di un Paese. I cinesi si sono impossessati della Lfoundry, prima azienda della provincia dell'Aquila e seconda di tutto l'Abruzzo che opera nel settore della microelettronica e produce sensori d'immagine, usati prevalentemente sulle nuove auto. La golden power introdotta dal premier Draghi dovrebbe rendere vita difficile alle acquisizioni cinesi, ma di sicuro Pechino non getta la spugna. Talvolta le acquisizioni avvengono in modo mascherato». Che intende? «Di recente la Guardia di finanza ha scoperto che dietro l'acquisizione di un'azienda in provincia di Pordenone specializzata nella costruzione di droni militari, c'erano due società controllate dal governo cinese. L'operazione risultava confezionata con modalità definite opache e con comunicazioni tardive alla presidenza del Consiglio e al ministero della Difesa. Inoltre sarebbe emerso che l'acquisto del 75% della società italiana non aveva scopi speculativi o di investimento ma, esclusivamente, l'acquisizione del suo know how tecnologico e produttivo, anche militare, che sarebbe stato trasferito in Cina. Tutta l'operazione era avvenuta in violazione, secondo i finanzieri, della legge che disciplina il settore dei materiali di armamento». L'Europa come può difendersi dalle mire predatorie cinesi? «Occorre rafforzare il monitoraggio. Pechino ha approfittato anche delle varie missioni di Paesi che cercavano investitori. La collaborazione tra diversi sistemi imprenditoriali è molto difficile. I cinesi hanno modelli produttivi inconciliabili con quelli occidentali».
Jose Mourinho (Getty Images)