2021-04-06
La Cina alza il tiro e boicotta i marchi critici sullo sfruttamento degli uiguri
Nel mirino di Pechino H&M, Nike, Adidas, Converse e Burberry. I colossi avevano espresso preoccupazione per gli abusi sulla minoranza musulmana dello Xinjiang, dove viene prodotto l'80% del cotone del Dragone.Al via i colloqui per l'accordo interrotto da Donald Trump. Il dem cerca l'intesa con Teheran, alleata di Xi. A rischio la stabilità in Medio Oriente e le relazioni con lo Stato ebraico.Lo speciale contiene due articoli.Pechino ha messo nel mirino le compagnie d'abbigliamento occidentali. Tutto è cominciato dopo che, a fine marzo, Stati Uniti e Unione europea hanno imposto delle sanzioni a quattro funzionari cinesi per gli abusi che si verificano nello Xinjiang contro gli uiguri: minoranza costretta al lavoro forzato e sottoposta a pervasive misure di sorveglianza. Si è trattato di un passo significativo, visto che gli europei non comminavano alla Cina provvedimenti simili dai tempi di Piazza Tienanmen. La reazione del Dragone non si è fatta comunque attendere. Non solo la Repubblica popolare ha a sua volta imposto delle sanzioni contro alcuni parlamentari europei e accademici. Ma ha anche adottato delle misure ritorsive verso quelle aziende occidentali che - come Adidas, Converse, Burberry, Nike e H&M - avevano espresso preoccupazione per quanto accade nello Xinjiang (un'area che produce circa l'80% del cotone cinese) aderendo - in alcuni casi - alla Better cotton initiative: un'organizzazione che, secondo la Bbc, ha da alcuni mesi «sospeso le attività nello Xinjiang e la concessione di licenze per il cotone della regione, citando accuse e “rischi crescenti" di lavoro forzato». È quindi in questo complicato quadro che, nelle ultime due settimane, è scattata la rappresaglia del Dragone. I prodotti di H&M sono per esempio stati ritirati dai principali siti di e-commerce in Cina (come Alibaba, JD.com e Baidu), mentre alcuni suoi punti vendita in loco avrebbero chiuso. Il Financial Times ha tra l'altro riportato come, dieci giorni fa, i media statali cinesi abbiano diffuso un vecchio comunicato della Nike dedicato ai diritti umani degli uiguri, scatenando così durissime proteste sui social network. In tal senso, la popstar cinese e brand ambassador della stessa Nike, Wang Yibo, ha dichiarato di voler tagliare i ponti con l'azienda statunitense, mentre il cantante Eason Chan ha annunciato l'interruzione dei suoi legami con Adidas. Altre celebrità, come Zhang Yixing, Ouyang Nana e Bai Jingting hanno invece reso noto di aver rescisso i contratti di sponsorizzazione con Converse. Pechino punta a esercitare pressione sulle aziende occidentali e vuole mandare un monito contro eventuali intenzioni di boicottaggio delle Olimpiadi invernali del 2022. Tra i gruppi più esposti in questa situazione figurano quelli del lusso (come Burberry) e Nike (di cui la Cina costituisce il terzo mercato principale). D'altronde, la Repubblica popolare non è nuova a queste forme di ritorsione. Si pensi a quando intralciò di fatto le attività del gruppo immobiliare sudcoreano Lotte, «reo» di aver messo a disposizione nel 2017 alcuni terreni fuori Seul per dispiegare il sistema missilistico statunitense Thaad. Se alcune delle società coinvolte nella bufera stanno cercando di gettare parzialmente acqua sul fuoco, altre hanno invece di fatto ceduto alla pressione. Secondo il Financial Times, è per esempio il caso della statunitense VF Corporation, che ha rimosso un comunicato sul lavoro forzato degli uiguri. In questo clima teso, Pechino non solo ha continuato a negare violazioni dei diritti umani, ma ha fatto anche appello a sentimenti nazionalistici, esortando i cittadini cinesi a «sostenere il cotone dello Xinjiang». Tra l'altro, nel caso di H&M, l'azienda svedese sta affrontando anche un'ulteriore crisi in Vietnam, dopo che, sul suo sito, aveva raffigurato le isole del Mar cinese meridionale come territorio cinese: un affronto per Hanoi, fortemente contraria alle rivendicazioni di Pechino su quelle aree. È chiaro che i boicottaggi cinesi esacerberanno le tensioni politiche già in atto tra la Repubblica popolare e l'Occidente. Il segretario di Stato americano, Tony Blinken, ha parlato di «genocidio» ai danni degli uiguri, mentre - sul fronte europeo - si fa ora più probabile un naufragio del trattato sugli investimenti, siglato a dicembre tra Bruxelles e Pechino: un trattato che lasciava aperta la porta a forti apprensioni proprio sulla questione del lavoro forzato nello Xinjiang. D'altronde, il recente scambio di sanzioni ha peggiorato i rapporti tra Pechino e Bruxelles, creando turbolenze diplomatiche con vari Stati europei (tra cui l'Italia). A fine marzo, la Farnesina ha mostrato la sua irritazione convocando l'ambasciatore cinese a Roma: ambasciatore contro cui i deputati della Lega hanno protestato, abbandonando l'aula durante una sua audizione alla Camera. Sempre il Carroccio sta presentando inoltre una risoluzione per denunciare le «misure di carattere genocidario di cui sarebbero vittima le minoranze turchiche residenti nello Xinjiang». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/cina-boicotta-marchi-sfruttamento-uiguri-2651372265.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="biden-riapre-alliran-sul-nucleare" data-post-id="2651372265" data-published-at="1617659070" data-use-pagination="False"> Biden riapre all’Iran sul nucleare L'amministrazione Biden tira dritto sull'Iran. La Casa Bianca ha confermato che inizieranno oggi colloqui indiretti a Vienna per cercare di rilanciare l'accordo sul nucleare: accordo siglato da Barack Obama nel 2015 e da cui Donald Trump si era ritirato nel 2018. Per quanto la strada non sia in discesa (Teheran ha posto come condizione l'eliminazione completa delle sanzioni americane), è chiaro che la nuova amministrazione statunitense punti molto sul rilancio dell'intesa: un elemento su cui del resto lo stesso Joe Biden aveva ripetutamente battuto in campagna elettorale. Il punto è che la ricerca di questa distensione sembra incorrere in alcuni paradossi. In primis, il neo presidente americano ha sempre detto di voler impostare la propria politica estera sul tema dei diritti umani. È del resto in tal senso che ha di recente giustificato la sua linea dura contro Russia e Arabia Saudita. Senza dimenticare i (fondati) rimproveri alla Cina su questioni come Hong Kong e lo Xinjiang. Partendo da simili premesse, è difficile spiegare il tentativo di distensione con l'Iran khomeinista, che di certo non è un regime particolarmente in armonia con gli standard delle democrazie liberali. Qualcuno potrebbe ribattere, sottolineando la necessità di approcci pragmatici. Ciononostante non si può invocare il pragmatismo a fasi alterne. Soprattutto quando, come detto, si afferma di voler basare la propria politica estera sulla difesa dei diritti umani. Il pericolo infatti è altrimenti quello dell'incoerenza. Quell'incoerenza che, sul fronte internazionale, rischia di comportare mancanza di credibilità. In secondo luogo, anche in un'ottica realista questa distensione è problematica. La mossa di Biden rischia infatti di riportare il Medio Oriente nel caos (come ai tempi di Obama). Trump aveva infatti parzialmente stabilizzato l'area seguendo due linee complementari: da una parte aveva favorito una convergenza tra Israele e il mondo sunnita; dall'altra aveva al contempo messo pesantemente sotto pressione l'Iran a suon di sanzioni. Obiettivo dell'allora presidente repubblicano non era quello di arrivare a un regime change a Teheran (come auspicato da qualche neoconservatore) quanto quello di costringere gli ayatollah a una radicale rinegoziazione proprio del trattato del 2015: una rinegoziazione che avrebbe visto gli iraniani in una posizione contrattuale debole, rispetto al blocco relativamente compatto di Stati Uniti, Israele e Paesi sunniti. Biden sta adesso compromettendo quella situazione favorevole. L'approccio immediatamente durissimo da lui riservato a Riad ha reso rapidamente Teheran più baldanzosa e sicura di sé. Una Teheran che si trova ora in una posizione negoziale più forte rispetto all'era Trump, proprio perché i sauditi sono sotto schiaffo e gli israeliani si sentono isolati. «Se questa è la politica americana, siamo preoccupati», ha non a caso riferito ieri un alto funzionario israeliano al Jerusalem Post. Infine, la distensione con Teheran manda, da parte americana, segnali scoraggianti anche sul fronte cinese. Era lo scorso 27 marzo, quando Iran e Cina hanno siglato un accordo di cooperazione strategica della durata di 25 anni (la prima volta che la Repubblica islamica firma un'intesa che prevede impegni per un arco di tempo così lungo). Il New York Times aveva parlato di 400 miliardi di dollari di investimenti cinesi in Iran: una cifra tuttavia contestata dal Washington Post. Come che sia, si tratta di un accordo che Teheran potrebbe usare per cercare di alleviare il peso delle sanzioni americane. Il che renderebbe, sì, l'Iran più dipendente dalla Cina, ma gli garantirebbe anche più libertà di manovra nei negoziati con Washington. Insomma, Biden rilancia il dialogo con Teheran nel momento in cui il potere contrattuale iraniano si rafforza. Non solo: la Repubblica islamica si lega strettamente a uno Stato, la Cina, che la Casa Bianca sta criticando sui diritti umani e cercando di contenere in aree come l'Indo-pacifico. Probabilmente saremo limitati. Ma facciamo fatica a capire il senso di questa strategia.