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2021-04-06
La Cina alza il tiro e boicotta i marchi critici sullo sfruttamento degli uiguri
Xi Jinping (Ansa)
Pechino ha messo nel mirino le compagnie d'abbigliamento occidentali. Tutto è cominciato dopo che, a fine marzo, Stati Uniti e Unione europea hanno imposto delle sanzioni a quattro funzionari cinesi per gli abusi che si verificano nello Xinjiang contro gli uiguri: minoranza costretta al lavoro forzato e sottoposta a pervasive misure di sorveglianza. Si è trattato di un passo significativo, visto che gli europei non comminavano alla Cina provvedimenti simili dai tempi di Piazza Tienanmen. La reazione del Dragone non si è fatta comunque attendere.
Non solo la Repubblica popolare ha a sua volta imposto delle sanzioni contro alcuni parlamentari europei e accademici. Ma ha anche adottato delle misure ritorsive verso quelle aziende occidentali che - come Adidas, Converse, Burberry, Nike e H&M - avevano espresso preoccupazione per quanto accade nello Xinjiang (un'area che produce circa l'80% del cotone cinese) aderendo - in alcuni casi - alla Better cotton initiative: un'organizzazione che, secondo la Bbc, ha da alcuni mesi «sospeso le attività nello Xinjiang e la concessione di licenze per il cotone della regione, citando accuse e “rischi crescenti" di lavoro forzato». È quindi in questo complicato quadro che, nelle ultime due settimane, è scattata la rappresaglia del Dragone.
I prodotti di H&M sono per esempio stati ritirati dai principali siti di e-commerce in Cina (come Alibaba, JD.com e Baidu), mentre alcuni suoi punti vendita in loco avrebbero chiuso. Il Financial Times ha tra l'altro riportato come, dieci giorni fa, i media statali cinesi abbiano diffuso un vecchio comunicato della Nike dedicato ai diritti umani degli uiguri, scatenando così durissime proteste sui social network. In tal senso, la popstar cinese e brand ambassador della stessa Nike, Wang Yibo, ha dichiarato di voler tagliare i ponti con l'azienda statunitense, mentre il cantante Eason Chan ha annunciato l'interruzione dei suoi legami con Adidas. Altre celebrità, come Zhang Yixing, Ouyang Nana e Bai Jingting hanno invece reso noto di aver rescisso i contratti di sponsorizzazione con Converse. Pechino punta a esercitare pressione sulle aziende occidentali e vuole mandare un monito contro eventuali intenzioni di boicottaggio delle Olimpiadi invernali del 2022. Tra i gruppi più esposti in questa situazione figurano quelli del lusso (come Burberry) e Nike (di cui la Cina costituisce il terzo mercato principale). D'altronde, la Repubblica popolare non è nuova a queste forme di ritorsione. Si pensi a quando intralciò di fatto le attività del gruppo immobiliare sudcoreano Lotte, «reo» di aver messo a disposizione nel 2017 alcuni terreni fuori Seul per dispiegare il sistema missilistico statunitense Thaad.
Se alcune delle società coinvolte nella bufera stanno cercando di gettare parzialmente acqua sul fuoco, altre hanno invece di fatto ceduto alla pressione. Secondo il Financial Times, è per esempio il caso della statunitense VF Corporation, che ha rimosso un comunicato sul lavoro forzato degli uiguri. In questo clima teso, Pechino non solo ha continuato a negare violazioni dei diritti umani, ma ha fatto anche appello a sentimenti nazionalistici, esortando i cittadini cinesi a «sostenere il cotone dello Xinjiang». Tra l'altro, nel caso di H&M, l'azienda svedese sta affrontando anche un'ulteriore crisi in Vietnam, dopo che, sul suo sito, aveva raffigurato le isole del Mar cinese meridionale come territorio cinese: un affronto per Hanoi, fortemente contraria alle rivendicazioni di Pechino su quelle aree.
È chiaro che i boicottaggi cinesi esacerberanno le tensioni politiche già in atto tra la Repubblica popolare e l'Occidente. Il segretario di Stato americano, Tony Blinken, ha parlato di «genocidio» ai danni degli uiguri, mentre - sul fronte europeo - si fa ora più probabile un naufragio del trattato sugli investimenti, siglato a dicembre tra Bruxelles e Pechino: un trattato che lasciava aperta la porta a forti apprensioni proprio sulla questione del lavoro forzato nello Xinjiang. D'altronde, il recente scambio di sanzioni ha peggiorato i rapporti tra Pechino e Bruxelles, creando turbolenze diplomatiche con vari Stati europei (tra cui l'Italia). A fine marzo, la Farnesina ha mostrato la sua irritazione convocando l'ambasciatore cinese a Roma: ambasciatore contro cui i deputati della Lega hanno protestato, abbandonando l'aula durante una sua audizione alla Camera. Sempre il Carroccio sta presentando inoltre una risoluzione per denunciare le «misure di carattere genocidario di cui sarebbero vittima le minoranze turchiche residenti nello Xinjiang».
Biden riapre all’Iran sul nucleare
L'amministrazione Biden tira dritto sull'Iran. La Casa Bianca ha confermato che inizieranno oggi colloqui indiretti a Vienna per cercare di rilanciare l'accordo sul nucleare: accordo siglato da Barack Obama nel 2015 e da cui Donald Trump si era ritirato nel 2018. Per quanto la strada non sia in discesa (Teheran ha posto come condizione l'eliminazione completa delle sanzioni americane), è chiaro che la nuova amministrazione statunitense punti molto sul rilancio dell'intesa: un elemento su cui del resto lo stesso Joe Biden aveva ripetutamente battuto in campagna elettorale. Il punto è che la ricerca di questa distensione sembra incorrere in alcuni paradossi.
In primis, il neo presidente americano ha sempre detto di voler impostare la propria politica estera sul tema dei diritti umani. È del resto in tal senso che ha di recente giustificato la sua linea dura contro Russia e Arabia Saudita. Senza dimenticare i (fondati) rimproveri alla Cina su questioni come Hong Kong e lo Xinjiang. Partendo da simili premesse, è difficile spiegare il tentativo di distensione con l'Iran khomeinista, che di certo non è un regime particolarmente in armonia con gli standard delle democrazie liberali. Qualcuno potrebbe ribattere, sottolineando la necessità di approcci pragmatici. Ciononostante non si può invocare il pragmatismo a fasi alterne. Soprattutto quando, come detto, si afferma di voler basare la propria politica estera sulla difesa dei diritti umani. Il pericolo infatti è altrimenti quello dell'incoerenza. Quell'incoerenza che, sul fronte internazionale, rischia di comportare mancanza di credibilità.
In secondo luogo, anche in un'ottica realista questa distensione è problematica. La mossa di Biden rischia infatti di riportare il Medio Oriente nel caos (come ai tempi di Obama). Trump aveva infatti parzialmente stabilizzato l'area seguendo due linee complementari: da una parte aveva favorito una convergenza tra Israele e il mondo sunnita; dall'altra aveva al contempo messo pesantemente sotto pressione l'Iran a suon di sanzioni. Obiettivo dell'allora presidente repubblicano non era quello di arrivare a un regime change a Teheran (come auspicato da qualche neoconservatore) quanto quello di costringere gli ayatollah a una radicale rinegoziazione proprio del trattato del 2015: una rinegoziazione che avrebbe visto gli iraniani in una posizione contrattuale debole, rispetto al blocco relativamente compatto di Stati Uniti, Israele e Paesi sunniti. Biden sta adesso compromettendo quella situazione favorevole. L'approccio immediatamente durissimo da lui riservato a Riad ha reso rapidamente Teheran più baldanzosa e sicura di sé. Una Teheran che si trova ora in una posizione negoziale più forte rispetto all'era Trump, proprio perché i sauditi sono sotto schiaffo e gli israeliani si sentono isolati. «Se questa è la politica americana, siamo preoccupati», ha non a caso riferito ieri un alto funzionario israeliano al Jerusalem Post.
Infine, la distensione con Teheran manda, da parte americana, segnali scoraggianti anche sul fronte cinese. Era lo scorso 27 marzo, quando Iran e Cina hanno siglato un accordo di cooperazione strategica della durata di 25 anni (la prima volta che la Repubblica islamica firma un'intesa che prevede impegni per un arco di tempo così lungo). Il New York Times aveva parlato di 400 miliardi di dollari di investimenti cinesi in Iran: una cifra tuttavia contestata dal Washington Post. Come che sia, si tratta di un accordo che Teheran potrebbe usare per cercare di alleviare il peso delle sanzioni americane. Il che renderebbe, sì, l'Iran più dipendente dalla Cina, ma gli garantirebbe anche più libertà di manovra nei negoziati con Washington. Insomma, Biden rilancia il dialogo con Teheran nel momento in cui il potere contrattuale iraniano si rafforza. Non solo: la Repubblica islamica si lega strettamente a uno Stato, la Cina, che la Casa Bianca sta criticando sui diritti umani e cercando di contenere in aree come l'Indo-pacifico. Probabilmente saremo limitati. Ma facciamo fatica a capire il senso di questa strategia.
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Riduci
Nel mirino di Pechino H&M, Nike, Adidas, Converse e Burberry. I colossi avevano espresso preoccupazione per gli abusi sulla minoranza musulmana dello Xinjiang, dove viene prodotto l'80% del cotone del Dragone.Al via i colloqui per l'accordo interrotto da Donald Trump. Il dem cerca l'intesa con Teheran, alleata di Xi. A rischio la stabilità in Medio Oriente e le relazioni con lo Stato ebraico.Lo speciale contiene due articoli.Pechino ha messo nel mirino le compagnie d'abbigliamento occidentali. Tutto è cominciato dopo che, a fine marzo, Stati Uniti e Unione europea hanno imposto delle sanzioni a quattro funzionari cinesi per gli abusi che si verificano nello Xinjiang contro gli uiguri: minoranza costretta al lavoro forzato e sottoposta a pervasive misure di sorveglianza. Si è trattato di un passo significativo, visto che gli europei non comminavano alla Cina provvedimenti simili dai tempi di Piazza Tienanmen. La reazione del Dragone non si è fatta comunque attendere. Non solo la Repubblica popolare ha a sua volta imposto delle sanzioni contro alcuni parlamentari europei e accademici. Ma ha anche adottato delle misure ritorsive verso quelle aziende occidentali che - come Adidas, Converse, Burberry, Nike e H&M - avevano espresso preoccupazione per quanto accade nello Xinjiang (un'area che produce circa l'80% del cotone cinese) aderendo - in alcuni casi - alla Better cotton initiative: un'organizzazione che, secondo la Bbc, ha da alcuni mesi «sospeso le attività nello Xinjiang e la concessione di licenze per il cotone della regione, citando accuse e “rischi crescenti" di lavoro forzato». È quindi in questo complicato quadro che, nelle ultime due settimane, è scattata la rappresaglia del Dragone. I prodotti di H&M sono per esempio stati ritirati dai principali siti di e-commerce in Cina (come Alibaba, JD.com e Baidu), mentre alcuni suoi punti vendita in loco avrebbero chiuso. Il Financial Times ha tra l'altro riportato come, dieci giorni fa, i media statali cinesi abbiano diffuso un vecchio comunicato della Nike dedicato ai diritti umani degli uiguri, scatenando così durissime proteste sui social network. In tal senso, la popstar cinese e brand ambassador della stessa Nike, Wang Yibo, ha dichiarato di voler tagliare i ponti con l'azienda statunitense, mentre il cantante Eason Chan ha annunciato l'interruzione dei suoi legami con Adidas. Altre celebrità, come Zhang Yixing, Ouyang Nana e Bai Jingting hanno invece reso noto di aver rescisso i contratti di sponsorizzazione con Converse. Pechino punta a esercitare pressione sulle aziende occidentali e vuole mandare un monito contro eventuali intenzioni di boicottaggio delle Olimpiadi invernali del 2022. Tra i gruppi più esposti in questa situazione figurano quelli del lusso (come Burberry) e Nike (di cui la Cina costituisce il terzo mercato principale). D'altronde, la Repubblica popolare non è nuova a queste forme di ritorsione. Si pensi a quando intralciò di fatto le attività del gruppo immobiliare sudcoreano Lotte, «reo» di aver messo a disposizione nel 2017 alcuni terreni fuori Seul per dispiegare il sistema missilistico statunitense Thaad. Se alcune delle società coinvolte nella bufera stanno cercando di gettare parzialmente acqua sul fuoco, altre hanno invece di fatto ceduto alla pressione. Secondo il Financial Times, è per esempio il caso della statunitense VF Corporation, che ha rimosso un comunicato sul lavoro forzato degli uiguri. In questo clima teso, Pechino non solo ha continuato a negare violazioni dei diritti umani, ma ha fatto anche appello a sentimenti nazionalistici, esortando i cittadini cinesi a «sostenere il cotone dello Xinjiang». Tra l'altro, nel caso di H&M, l'azienda svedese sta affrontando anche un'ulteriore crisi in Vietnam, dopo che, sul suo sito, aveva raffigurato le isole del Mar cinese meridionale come territorio cinese: un affronto per Hanoi, fortemente contraria alle rivendicazioni di Pechino su quelle aree. È chiaro che i boicottaggi cinesi esacerberanno le tensioni politiche già in atto tra la Repubblica popolare e l'Occidente. Il segretario di Stato americano, Tony Blinken, ha parlato di «genocidio» ai danni degli uiguri, mentre - sul fronte europeo - si fa ora più probabile un naufragio del trattato sugli investimenti, siglato a dicembre tra Bruxelles e Pechino: un trattato che lasciava aperta la porta a forti apprensioni proprio sulla questione del lavoro forzato nello Xinjiang. D'altronde, il recente scambio di sanzioni ha peggiorato i rapporti tra Pechino e Bruxelles, creando turbolenze diplomatiche con vari Stati europei (tra cui l'Italia). A fine marzo, la Farnesina ha mostrato la sua irritazione convocando l'ambasciatore cinese a Roma: ambasciatore contro cui i deputati della Lega hanno protestato, abbandonando l'aula durante una sua audizione alla Camera. Sempre il Carroccio sta presentando inoltre una risoluzione per denunciare le «misure di carattere genocidario di cui sarebbero vittima le minoranze turchiche residenti nello Xinjiang». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/cina-boicotta-marchi-sfruttamento-uiguri-2651372265.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="biden-riapre-alliran-sul-nucleare" data-post-id="2651372265" data-published-at="1617659070" data-use-pagination="False"> Biden riapre all’Iran sul nucleare L'amministrazione Biden tira dritto sull'Iran. La Casa Bianca ha confermato che inizieranno oggi colloqui indiretti a Vienna per cercare di rilanciare l'accordo sul nucleare: accordo siglato da Barack Obama nel 2015 e da cui Donald Trump si era ritirato nel 2018. Per quanto la strada non sia in discesa (Teheran ha posto come condizione l'eliminazione completa delle sanzioni americane), è chiaro che la nuova amministrazione statunitense punti molto sul rilancio dell'intesa: un elemento su cui del resto lo stesso Joe Biden aveva ripetutamente battuto in campagna elettorale. Il punto è che la ricerca di questa distensione sembra incorrere in alcuni paradossi. In primis, il neo presidente americano ha sempre detto di voler impostare la propria politica estera sul tema dei diritti umani. È del resto in tal senso che ha di recente giustificato la sua linea dura contro Russia e Arabia Saudita. Senza dimenticare i (fondati) rimproveri alla Cina su questioni come Hong Kong e lo Xinjiang. Partendo da simili premesse, è difficile spiegare il tentativo di distensione con l'Iran khomeinista, che di certo non è un regime particolarmente in armonia con gli standard delle democrazie liberali. Qualcuno potrebbe ribattere, sottolineando la necessità di approcci pragmatici. Ciononostante non si può invocare il pragmatismo a fasi alterne. Soprattutto quando, come detto, si afferma di voler basare la propria politica estera sulla difesa dei diritti umani. Il pericolo infatti è altrimenti quello dell'incoerenza. Quell'incoerenza che, sul fronte internazionale, rischia di comportare mancanza di credibilità. In secondo luogo, anche in un'ottica realista questa distensione è problematica. La mossa di Biden rischia infatti di riportare il Medio Oriente nel caos (come ai tempi di Obama). Trump aveva infatti parzialmente stabilizzato l'area seguendo due linee complementari: da una parte aveva favorito una convergenza tra Israele e il mondo sunnita; dall'altra aveva al contempo messo pesantemente sotto pressione l'Iran a suon di sanzioni. Obiettivo dell'allora presidente repubblicano non era quello di arrivare a un regime change a Teheran (come auspicato da qualche neoconservatore) quanto quello di costringere gli ayatollah a una radicale rinegoziazione proprio del trattato del 2015: una rinegoziazione che avrebbe visto gli iraniani in una posizione contrattuale debole, rispetto al blocco relativamente compatto di Stati Uniti, Israele e Paesi sunniti. Biden sta adesso compromettendo quella situazione favorevole. L'approccio immediatamente durissimo da lui riservato a Riad ha reso rapidamente Teheran più baldanzosa e sicura di sé. Una Teheran che si trova ora in una posizione negoziale più forte rispetto all'era Trump, proprio perché i sauditi sono sotto schiaffo e gli israeliani si sentono isolati. «Se questa è la politica americana, siamo preoccupati», ha non a caso riferito ieri un alto funzionario israeliano al Jerusalem Post. Infine, la distensione con Teheran manda, da parte americana, segnali scoraggianti anche sul fronte cinese. Era lo scorso 27 marzo, quando Iran e Cina hanno siglato un accordo di cooperazione strategica della durata di 25 anni (la prima volta che la Repubblica islamica firma un'intesa che prevede impegni per un arco di tempo così lungo). Il New York Times aveva parlato di 400 miliardi di dollari di investimenti cinesi in Iran: una cifra tuttavia contestata dal Washington Post. Come che sia, si tratta di un accordo che Teheran potrebbe usare per cercare di alleviare il peso delle sanzioni americane. Il che renderebbe, sì, l'Iran più dipendente dalla Cina, ma gli garantirebbe anche più libertà di manovra nei negoziati con Washington. Insomma, Biden rilancia il dialogo con Teheran nel momento in cui il potere contrattuale iraniano si rafforza. Non solo: la Repubblica islamica si lega strettamente a uno Stato, la Cina, che la Casa Bianca sta criticando sui diritti umani e cercando di contenere in aree come l'Indo-pacifico. Probabilmente saremo limitati. Ma facciamo fatica a capire il senso di questa strategia.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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