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2023-02-20
Cibo italiano sotto attacco
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Dal campo (altrui) alla tavola; si chiama Farm to Fork. È la strategia europea per la nuova agricoltura che deve essere assolutamente verde. Ursula von der Leyen, che è andata il 26 ottobre a rendere omaggio a Bill Gates - primo latifondista americano: coltiva su oltre duecentomila ettari anche l’insalata e gli spinaci con incorporati i vaccini, primo sponsor delle bistecche finte e secondo finanziatore dell’Oms -, l’ha affidata al suo vice Frans Timmermans, olandese, amicissimo delle multinazionali della chimica e della nutrizione. L’ordine è: chiudiamo le stalle, via i pesticidi, almeno un quarto di superficie a biologico. Se si smette di coltivare trionfa la natura e così le multinazionali del cibo - sono imparentate con la chimica e con Big pharma - ci sfamano con i prodotti Frankenstein creati in laboratorio, con la zuppa di vermi, con gli integratori. Vogliono impedirci di produrre vino, formaggi e salumi imponendo lo Stato dietetico. O forse c’è un’altra verità che sta nei numeri? Con appena lo 0,4% di superfice coltivabile l’Italia produce un valore aggiunto agricolo di oltre 60 miliardi, ha il record di Dop e Igp (valgono 19 miliardi), un’industria agroalimentare che vale 170 miliardi, ha un export di oltre 60 miliardi che cresce in doppia cifra (17% anno su anno). Sono 4 milioni di occupati, centomila giovani - la stima è di Coldiretti - che possono trovare lavoro nei campi domattina, 55 mila imprese condotte da under 35, di cui uno su 5 è laureato. Divulga ha rilevato che nell’ultimo anno sono nate 17 nuove imprese agricole giovani al giorno: hanno una superficie superiore di oltre il 54% alla media, un fatturato più elevato del 75% e il 50% di occupati in più. Forse disturba che la cucina italiana sia stata proclamata la migliore del mondo, che 8 formaggi sui primi dieci al mondo sono italiani, che nel vino stiamo per sorpassare i francesi (loro 11 miliardi di export, noi 8) acquisendo il primato assoluto. Forse disturba che oltre al Farm to fork un altro mondo è possibile.
Scordamaglia: «I piani dell’Europa favoriscono la Cina e le multinazionali»
«Siamo in una fase critica, se riusciamo a resistere per due o tre mesi a questa deriva ideologica alcuni pericoli li scongiuriamo proponendo le nostre soluzioni. Per esempio l’agricoltura di precisione e la difesa della qualità e della ruralità». Luigi Scordamaglia - consigliere delegato di Filiera Italia, che significa tenere insieme le produzioni agricole e quelle agroalimentari d’eccellenza in un’unica rappresentanza - è appena uscito da un vertice con il Commissario europeo all’agricoltura Janusz Wojciechowski. «Siamo costretti a fare i pendolari con Bruxelles perché da questa Commissione non sai mai cosa aspettarti. Soprattutto dal vicepresidente Frans Timmermans: pare animato da una volontà liquidatoria dell’agricoltura. Ora con la presidenza svedese vuole almeno il suo traguardo minimo: assimilare le piccole stalle alle grandi industrie per il pagamento e i livelli di emissione di Co2. È la fine della zootecnia».
In cosa consiste la deriva ideologica?
«Vogliono abbattere i fitofarmaci fino all’80%, ma non hanno uno studio d’impatto. Non sanno cosa succederà. Questa Commissione ha poco tempo davanti e vuole in tutti i modi forzare la mano sul green anche se le misure non stanno in piedi. Come per il packaging. L’Italia è leader nella plastica riciclata. Ma loro hanno scelto il riuso. Obbligano per esempio chi fa street food a ritirare i contenitori, lavarli, usarli di nuovo anche a rischio di patologie e con sprechi enormi».
Penalizzano l’Italia?
«Abbiamo risultati eccellenti nell’export nonostante la mancata tutela dei nostri prodotti. Potremmo crescere del 20% all’anno arrivando a 120 miliardi di export. Il nostro è un modello virtuoso che per loro deve essere fermato in ogni modo. L’Italia con l’agricoltura di precisione, con l’abilità dei produttori ha gli impatti più bassi e la maggiore valorizzazione delle risorse nel mondo. È pericoloso per chi come la Cina vuole produrre senza vincoli e per le multinazionali che vogliono omologare con i sintetici. Si veda cosa stanno facendo in Africa: o “rubano” la terra come i cinesi o li vogliono nutrire con i cibi chimici. Se passa il modello italiano per loro è finita».
Dunque c’è una volontà precisa?
«È evidente. Non c’è mai stata una coincidenza, e in così poco tempo, di proposte legislative mirate a smantellare la produzione agroalimentare europea e in particolare la zootecnia che significa anche latte e formaggi. In contemporanea si propongono la carne sintetica, i grilli, le proteine alternative. Delle due l’una: o sono poco attenti, o sono in mala fede».
Per il presidente di Coldiretti Ettore Prandini in confronto alle lobby agroalimentari il Qatargate sparisce.
«La McKinsey dice che chi produce carne sintetica ha da mettere sul piatto 25 miliardi di dollari in 5 anni per riuscire nell’impresa d’imporla».
Cosa si dovrebbe fare invece?
«Siamo nel mezzo di una crisi gravissima. Sento finalmente parlare di un fondo di sovranità europea. Bisogna produrre di più e meglio; il modello virtuoso c’è: quello italiano. Al contrario il rischio è che in Europa passi il concetto che si possono delocalizzare le produzioni per risultare virtuosi. Poi per soddisfare i bisogni si fanno entrare dei prodotti che non hanno i nostri standard. Si va verso un periodo di insicurezza alimentare. Ci sono 120 giorni di stock alimentari complessivi, di questi 100 sono già allocati in Cina. Vogliamo continuare col Farm to fork?».
Contro il bicchiere di rosso un’offensiva promossa dai Paesi del Nord
Provano a difendersi col marketing e così Bottega ha scritto sulle bottiglie di Prosecco: non più di due calici. Antonella Viola, la virostar in astinenza catodica, applaude: bravi! Ma come? Ma non è lei a dire che i medici che difendono l’alcol sono come i no vax perché l’alcol fa comunque male? Allora anche due bicchieri.
L’offensiva contro il vino – per noi sono 14 miliardi di fatturato, 1,5 milioni di occupati, 8 miliardi dall’export – parte dai paesi del Nord dove non si beve vino, ma superalcolici, dove non c’è la cultura del bicchiere a pasto, ma solo quella dello sballo. Ci sono migliaia di pareri medici che dicono che il vino assunto in modeste quantità è anzi salutare. Eppure l’Irlanda ha avuto il via libera dalla Commissione europea a scrivere sulle etichette: non lo bevete, fa venire il cancro. Come con le sigarette.
Nonostante il Parlamento europeo avesse esplicitamente respinto questa possibilità. Italia, Francia, Spagna e altri sei Paesi hanno chiesto alla Commissione di fermare Dublino, nessuna risposta. Anzi l’Irlanda ha già depositato il regolamento delle etichette anti-alcol al Wto. Ed è lì che ora bisogna battersi cercando magari alleanze con gli Stati Uniti che sono il nostro primo cliente (importano 1,5 miliardi di bottiglie italiane).
Singolare che mentre si demonizzano le nostre etichette nessuno si preoccupi del decadimento della dieta mediterranea (dove il vino è centrale). Il regime alimentare più sano al mondo è passato di moda e in Europa ci sono 950 mila decessi all’anno legati a diete malsane. Dice Alessandro Miani, presidente della Società Italiana di Medicina Ambientale, che «grazie alla dieta mediterranea l’Italia ha il record di longevità in Europa, ma il primato è minacciato dall’abbandono da parte di almeno il 40% della popolazione». E poi danno la colpa al vino.
Il trattato con il Canada? Pacchia per i contraffattori
La cosiddetta Dop Economy vale 19 miliardi di cui 10,5 fatturati oltreconfine. Ebbene soltanto considerando la contraffazione o imitazione delle nostre 4 Dop più importanti per fatturato (Grana padano, Parmigiano Reggiano, Prosciutto di Parma, Aceto tradizionale di Modena e Reggio) quei miliardi potrebbero diventare trenta. Ad arginare il cosiddetto italian sounding (l’imitazione dei prodotti italiani) ci pensano solo i Consorzi di tutela, l’Europa che pure certifica i marchi non fa nulla. Addirittura nell’accordo col Canada, il Ceta, la Commissione ha sacrificato proprio Grana padano e Parmigiano Reggiano. Dal 2018 al 2019 la produzione in Canada di falsi formaggi italiani è aumentata di 484 tonnellate (più 49%) e l’export è crollato di un terzo.
Secondo Ettore Prandini, presidente di Coldiretti - da sempre «insegue» le frodi - il business del falso vale 120 miliardi. I formaggi sono i più colpiti - dalla Fontina al Pecorino Romano e Toscano, dal Provolone alla Mozzarella che in quantità è il formaggio più esportato - ma in classifica ci sono i prosciutti di Parma e San Daniele, la mortadella Bologna, l’olio extravergine di oliva, le conserve di pomodoro San Marzano e i vini; il Prosecco è il più copiato, segue il Chianti. Il ministro della sovranità alimentare Francesco Lollobrigida (Fdi) ha posto il tema sia in Europa che alla cosiddetta cabina del governo per l’internazionalizzazione. «Il tema dell’Italian sounding», ha detto, «va affrontato anche attraverso il piano diplomatico per sensibilizzare i governi degli altri Paesi a garantire i loro cittadini. Certificare i prodotti italiani non è solo interesse delle nostre imprese ma anche dei consumatori. E in Europa ci batteremo per questo».
La Commissione facilita l’import delle bottiglie della Tunisia. E i nostri marchi vanno a picco
Con 12 litri all’anno a testa siamo i più forti consumatori di olio di oliva ed eravamo anche i primi produttori. Ora l’olivicoltura italiana è in una crisi verticale. Uno studio di Nomisma condotto da Denis Pantini in occasione dell’accordo di filiera Confagricoltura - presieduta da Massimiliano Giansanti - con Carapelli mette in rilievo che siamo ormai di fronte a un settore hobbistico: solo il 2,5% delle nostre aziende ha più di 50 ettari e la produzione è crollata da 500 mila a 270 mila tonnellate. Ne esportiamo quasi la metà, per il nostro fabbisogno siamo quasi totalmente dipendenti dall’estero. Siamo esposti a una concorrenza ferocissima anche perché l’Ue usa l’olio come «prodotto diplomatico» favorendo l’import dalla Tunisia che vende sotto i 2 euro al litro, mentre da noi il costo di produzione è superiore agli 8 euro. Tra il 2011 e il 2021, l’export della Turchia è aumentato del 16,4%, quello del Portogallo del 14,8%, della Tunisia del 9,8%, del Cile del 9,7%, della Francia dell’8,2%. La Spagna è leader del mercato (oltre 1,3 milioni di tonnellate) ed è venuta in Italia ormai da anni a fare shopping dei marchi più prestigiosi. Tutti i Paesi aumentano le superfici coltivate (del 41,6% in Cile, del 39,5% in Argentina, del 22,6% in Marocco, dell’11,4% in Turchia, del 10,9% in Portogallo, del 5,4% in Spagna, dello 0,4% in Francia) tranne noi che abbiamo perso un altro 3,5% di olivete.
Invasi dai prodotti asiatici trattati con sostanze vietate
Siamo il Paese leader sia nell’ortofrutta che nella produzione di riso eppure a successi commerciali importanti si affiancano segnali di crisi derivanti dall’importazione selvaggia spesso non contrasta, e nel caso del riso favorita, dall’Unione europea.
Quest’anno l’ortofrutta italiana ha sfondato il muro dei dieci miliardi di fatturato estero (più 8%). Le pere cinesi Nashi però c’invadono senza che quelle italiane possono andare in Cina. Nonostante l’accordo Ceta tra Ue e Canada, non possiamo esportare i pomodorini perché i canadesi vorrebbero che fossero trattati con il bromuro di metile che da noi è vietato. Niente kiwi - siamo il primo produttore al mondo - in Giappone nonostante l’accordo di libero scambio Jeta. In più - col benestare dell’Ue - il 20% dei prodotti che s’ importano in Europa e ci fanno concorrenza sleale non è a norma: le nocciole dalla Turchia, su cui pende l’accusa di sfruttamento del lavoro delle minoranze curde, l’uva e l’aglio dell’Argentina e le banane del Brasile coltivate con lavoro minorile ma protette dall’accordo Mercosur.
Paradossale è la situazione del riso: siamo il Paese leader in Europa con una produzione di 1,5 milioni di tonnellate. In compenso l’Ue autorizza l’importazione di riso da Cambogia, Myanmar, Vietnam, India e Pakistan ancorché trattato con il Triciclazolo vietato in Europa dal 2016. È prodotto dalla multinazionale DuPont che ha perorato la causa subito accolta a Bruxelles. L ’Efsa - la stessa che liberalizza i vermi nel piatto - ha dato una «franchigia» per i residui di Triciclazolo. Così l’import dal Myanmar è aumentato di trecento volte.
Miliardi a chi alleva insetti, per togliere polli e manzi dai piatti
Chi si occupa di sociologia conosce bene la finestra di Overton: significa con la persuasione o con la paura (vedi Covid e vaccini) convincere le masse che è buono ciò che fino a ieri era inaccettabile. Affacciato a questa finestra c’è un grillo. A Milano già si offrono hamburger d’insetti. Il panino è verde e la polpetta indistinta, ma i media allineati titolano: «Lo abbiamo provato, i clienti lo promuovono».
Perché mangiare insetti? Perché sono sostenibili, mentre maiali, manzo, pollame no. Perché sono una grande riserva proteica. Perché fanno bene a noi e al pianeta! Sicuro? Non ci sono studi sulle possibili zoonosi tra uomo e insetti, non c’è modo di controllare quante proteine si assumono, la stessa Efsa (l’ente europeo che valuta la salubrità) avverte: non dare le larve ai minorenni. Eppure l’Europa ha dato il via libera e ora tutti parlano della farina di insetti. È contro la legge, la farina si fa solo dai cereali, quella delle tarme è polvere. Ma vuoi mettere? Farina fa più fine. Entro l’anno arriverà anche la finta carne da replicazione clonale di cellule staminali.
Ancora una volta servono i numeri. Da qui al 2025 ci saranno circa 3 miliardi di stanziamenti per la promozione e l’incentivazione della produzione d’insetti. Il mercato degli insetti arriverà a 750 milioni di dollari il prossimo anno. In Europa si passerà da 6.000 tonnellate a 3 milioni di tonnellate tra cinque anni. Un chilo di polvere d’insetti costa 100 euro, un chilo di manzo 15. E quanto alla carne sintetica si stima potrebbe toccare i 460 miliardi di dollari nel 2040. Il giro d’affari della carne prodotta in laboratorio potrebbe arrivare a 450 miliardi di dollari nel 2040, cioè il 20% del mercato mondiale della carne. Va detto che la zootecnia italiana è la più sostenibile al mondo (le emissioni di Co2 stanno sotto al 5%), che dalle nostre stalle dipende anche il formaggio (siamo leader con 4 miliardi nell’export) e che da noi stalle, pollai (stop alle uova se spariscono le galline) e porcilaie (senza i maiali addio salumi) muovono oltre 30 miliardi di fatturato. Ma ora c’è un grillo alla finestra.
Ci costringono a ridurre del 4% la coltivazione di mais
Il problema è molto serio. Ed è l’ennesimo braccio di ferro con Bruxelles che insiste perché si mettano terre a riposo. In occasione della crisi ucraina erano stati sbloccati 200.000 ettari per seminativi. Ma la deroga valeva solo per un anno. La guerra però continua e il problema dei cereali diventa esiziale per l’Italia che ha riconvertito una quota rilevante di terra a coltivazione di grano duro per sostenere l’industria della pasta che produce circa 3,3 milioni di tonnellate di spaghetti & Co.
Per il ministro della sovranità alimentare Francesco Lollobrigida c’è almeno un milione di ettari da sbloccare e mettere a coltura. La Commissione vuole che l’Italia riduca del 4% la superficie coltivata (circa 7 milioni di ettari su 30 milioni totali). Ma la crisi ucraina continua e la produzione crolla. A noi interessa il mais per i mangimi degli allevamenti. E che l’Italia debba e possa produrre di più è confermato dai dati dell’import.
Nel 2022 sono in forte aumento gli acquisti di granturco (+1,6 milioni di tonnellate, per un controvalore di 940 milioni di euro di aumento). Abbiamo aumentato anche l’importazione di grano tenero (108.000 tonnellate pari a 3,5 miliardi). Va meglio per il grano duro; ne abbiamo comprate “solo” 555.000 tonnellate (2,3 miliardi di euro): più grano comunitario (217.000 tonnellate) e meno extra Ue (772.000 tonnellate). Col via libera alle larve della farina come alimento si pone un problema: migliaia di tonnellate di grano ammalorato che dovrebbero essere smaltite saranno utilizzate come mangime delle larve ed è possibile che una parte torni sul mercato come sfarinato.
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Con solo lo 0,4% di terre coltivabili, abbiamo un export di 60 miliardi e il record di marchi di qualità. Un modello che la Ue vuole demolire.Lo speciale comprende sette articoli.Dal campo (altrui) alla tavola; si chiama Farm to Fork. È la strategia europea per la nuova agricoltura che deve essere assolutamente verde. Ursula von der Leyen, che è andata il 26 ottobre a rendere omaggio a Bill Gates - primo latifondista americano: coltiva su oltre duecentomila ettari anche l’insalata e gli spinaci con incorporati i vaccini, primo sponsor delle bistecche finte e secondo finanziatore dell’Oms -, l’ha affidata al suo vice Frans Timmermans, olandese, amicissimo delle multinazionali della chimica e della nutrizione. L’ordine è: chiudiamo le stalle, via i pesticidi, almeno un quarto di superficie a biologico. Se si smette di coltivare trionfa la natura e così le multinazionali del cibo - sono imparentate con la chimica e con Big pharma - ci sfamano con i prodotti Frankenstein creati in laboratorio, con la zuppa di vermi, con gli integratori. Vogliono impedirci di produrre vino, formaggi e salumi imponendo lo Stato dietetico. O forse c’è un’altra verità che sta nei numeri? Con appena lo 0,4% di superfice coltivabile l’Italia produce un valore aggiunto agricolo di oltre 60 miliardi, ha il record di Dop e Igp (valgono 19 miliardi), un’industria agroalimentare che vale 170 miliardi, ha un export di oltre 60 miliardi che cresce in doppia cifra (17% anno su anno). Sono 4 milioni di occupati, centomila giovani - la stima è di Coldiretti - che possono trovare lavoro nei campi domattina, 55 mila imprese condotte da under 35, di cui uno su 5 è laureato. Divulga ha rilevato che nell’ultimo anno sono nate 17 nuove imprese agricole giovani al giorno: hanno una superficie superiore di oltre il 54% alla media, un fatturato più elevato del 75% e il 50% di occupati in più. Forse disturba che la cucina italiana sia stata proclamata la migliore del mondo, che 8 formaggi sui primi dieci al mondo sono italiani, che nel vino stiamo per sorpassare i francesi (loro 11 miliardi di export, noi 8) acquisendo il primato assoluto. 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Luigi Scordamaglia - consigliere delegato di Filiera Italia, che significa tenere insieme le produzioni agricole e quelle agroalimentari d’eccellenza in un’unica rappresentanza - è appena uscito da un vertice con il Commissario europeo all’agricoltura Janusz Wojciechowski. «Siamo costretti a fare i pendolari con Bruxelles perché da questa Commissione non sai mai cosa aspettarti. Soprattutto dal vicepresidente Frans Timmermans: pare animato da una volontà liquidatoria dell’agricoltura. Ora con la presidenza svedese vuole almeno il suo traguardo minimo: assimilare le piccole stalle alle grandi industrie per il pagamento e i livelli di emissione di Co2. È la fine della zootecnia». In cosa consiste la deriva ideologica? «Vogliono abbattere i fitofarmaci fino all’80%, ma non hanno uno studio d’impatto. Non sanno cosa succederà. Questa Commissione ha poco tempo davanti e vuole in tutti i modi forzare la mano sul green anche se le misure non stanno in piedi. Come per il packaging. L’Italia è leader nella plastica riciclata. Ma loro hanno scelto il riuso. Obbligano per esempio chi fa street food a ritirare i contenitori, lavarli, usarli di nuovo anche a rischio di patologie e con sprechi enormi». Penalizzano l’Italia? «Abbiamo risultati eccellenti nell’export nonostante la mancata tutela dei nostri prodotti. Potremmo crescere del 20% all’anno arrivando a 120 miliardi di export. Il nostro è un modello virtuoso che per loro deve essere fermato in ogni modo. L’Italia con l’agricoltura di precisione, con l’abilità dei produttori ha gli impatti più bassi e la maggiore valorizzazione delle risorse nel mondo. È pericoloso per chi come la Cina vuole produrre senza vincoli e per le multinazionali che vogliono omologare con i sintetici. Si veda cosa stanno facendo in Africa: o “rubano” la terra come i cinesi o li vogliono nutrire con i cibi chimici. Se passa il modello italiano per loro è finita». Dunque c’è una volontà precisa? «È evidente. Non c’è mai stata una coincidenza, e in così poco tempo, di proposte legislative mirate a smantellare la produzione agroalimentare europea e in particolare la zootecnia che significa anche latte e formaggi. In contemporanea si propongono la carne sintetica, i grilli, le proteine alternative. Delle due l’una: o sono poco attenti, o sono in mala fede». Per il presidente di Coldiretti Ettore Prandini in confronto alle lobby agroalimentari il Qatargate sparisce. «La McKinsey dice che chi produce carne sintetica ha da mettere sul piatto 25 miliardi di dollari in 5 anni per riuscire nell’impresa d’imporla». Cosa si dovrebbe fare invece? «Siamo nel mezzo di una crisi gravissima. Sento finalmente parlare di un fondo di sovranità europea. Bisogna produrre di più e meglio; il modello virtuoso c’è: quello italiano. Al contrario il rischio è che in Europa passi il concetto che si possono delocalizzare le produzioni per risultare virtuosi. Poi per soddisfare i bisogni si fanno entrare dei prodotti che non hanno i nostri standard. Si va verso un periodo di insicurezza alimentare. Ci sono 120 giorni di stock alimentari complessivi, di questi 100 sono già allocati in Cina. Vogliamo continuare col Farm to fork?». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem6" data-id="6" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/cibo-italiano-sotto-attacco-2659439558.html?rebelltitem=6#rebelltitem6" data-basename="contro-il-bicchiere-di-rosso-unoffensiva-promossa-dai-paesi-del-nord" data-post-id="2659439558" data-published-at="1676850719" data-use-pagination="False"> Contro il bicchiere di rosso un’offensiva promossa dai Paesi del Nord Provano a difendersi col marketing e così Bottega ha scritto sulle bottiglie di Prosecco: non più di due calici. Antonella Viola, la virostar in astinenza catodica, applaude: bravi! Ma come? Ma non è lei a dire che i medici che difendono l’alcol sono come i no vax perché l’alcol fa comunque male? Allora anche due bicchieri. L’offensiva contro il vino – per noi sono 14 miliardi di fatturato, 1,5 milioni di occupati, 8 miliardi dall’export – parte dai paesi del Nord dove non si beve vino, ma superalcolici, dove non c’è la cultura del bicchiere a pasto, ma solo quella dello sballo. Ci sono migliaia di pareri medici che dicono che il vino assunto in modeste quantità è anzi salutare. Eppure l’Irlanda ha avuto il via libera dalla Commissione europea a scrivere sulle etichette: non lo bevete, fa venire il cancro. Come con le sigarette. Nonostante il Parlamento europeo avesse esplicitamente respinto questa possibilità. Italia, Francia, Spagna e altri sei Paesi hanno chiesto alla Commissione di fermare Dublino, nessuna risposta. Anzi l’Irlanda ha già depositato il regolamento delle etichette anti-alcol al Wto. Ed è lì che ora bisogna battersi cercando magari alleanze con gli Stati Uniti che sono il nostro primo cliente (importano 1,5 miliardi di bottiglie italiane). Singolare che mentre si demonizzano le nostre etichette nessuno si preoccupi del decadimento della dieta mediterranea (dove il vino è centrale). Il regime alimentare più sano al mondo è passato di moda e in Europa ci sono 950 mila decessi all’anno legati a diete malsane. Dice Alessandro Miani, presidente della Società Italiana di Medicina Ambientale, che «grazie alla dieta mediterranea l’Italia ha il record di longevità in Europa, ma il primato è minacciato dall’abbandono da parte di almeno il 40% della popolazione». 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Addirittura nell’accordo col Canada, il Ceta, la Commissione ha sacrificato proprio Grana padano e Parmigiano Reggiano. Dal 2018 al 2019 la produzione in Canada di falsi formaggi italiani è aumentata di 484 tonnellate (più 49%) e l’export è crollato di un terzo. Secondo Ettore Prandini, presidente di Coldiretti - da sempre «insegue» le frodi - il business del falso vale 120 miliardi. I formaggi sono i più colpiti - dalla Fontina al Pecorino Romano e Toscano, dal Provolone alla Mozzarella che in quantità è il formaggio più esportato - ma in classifica ci sono i prosciutti di Parma e San Daniele, la mortadella Bologna, l’olio extravergine di oliva, le conserve di pomodoro San Marzano e i vini; il Prosecco è il più copiato, segue il Chianti. Il ministro della sovranità alimentare Francesco Lollobrigida (Fdi) ha posto il tema sia in Europa che alla cosiddetta cabina del governo per l’internazionalizzazione. «Il tema dell’Italian sounding», ha detto, «va affrontato anche attraverso il piano diplomatico per sensibilizzare i governi degli altri Paesi a garantire i loro cittadini. Certificare i prodotti italiani non è solo interesse delle nostre imprese ma anche dei consumatori. E in Europa ci batteremo per questo». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem4" data-id="4" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/cibo-italiano-sotto-attacco-2659439558.html?rebelltitem=4#rebelltitem4" data-basename="la-commissione-facilita-limport-delle-bottiglie-della-tunisia-e-i-nostri-marchi-vanno-a-picco" data-post-id="2659439558" data-published-at="1676850719" data-use-pagination="False"> La Commissione facilita l’import delle bottiglie della Tunisia. E i nostri marchi vanno a picco Con 12 litri all’anno a testa siamo i più forti consumatori di olio di oliva ed eravamo anche i primi produttori. Ora l’olivicoltura italiana è in una crisi verticale. Uno studio di Nomisma condotto da Denis Pantini in occasione dell’accordo di filiera Confagricoltura - presieduta da Massimiliano Giansanti - con Carapelli mette in rilievo che siamo ormai di fronte a un settore hobbistico: solo il 2,5% delle nostre aziende ha più di 50 ettari e la produzione è crollata da 500 mila a 270 mila tonnellate. Ne esportiamo quasi la metà, per il nostro fabbisogno siamo quasi totalmente dipendenti dall’estero. Siamo esposti a una concorrenza ferocissima anche perché l’Ue usa l’olio come «prodotto diplomatico» favorendo l’import dalla Tunisia che vende sotto i 2 euro al litro, mentre da noi il costo di produzione è superiore agli 8 euro. Tra il 2011 e il 2021, l’export della Turchia è aumentato del 16,4%, quello del Portogallo del 14,8%, della Tunisia del 9,8%, del Cile del 9,7%, della Francia dell’8,2%. La Spagna è leader del mercato (oltre 1,3 milioni di tonnellate) ed è venuta in Italia ormai da anni a fare shopping dei marchi più prestigiosi. Tutti i Paesi aumentano le superfici coltivate (del 41,6% in Cile, del 39,5% in Argentina, del 22,6% in Marocco, dell’11,4% in Turchia, del 10,9% in Portogallo, del 5,4% in Spagna, dello 0,4% in Francia) tranne noi che abbiamo perso un altro 3,5% di olivete. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/cibo-italiano-sotto-attacco-2659439558.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="invasi-dai-prodotti-asiatici-trattati-con-sostanze-vietate" data-post-id="2659439558" data-published-at="1676850719" data-use-pagination="False"> Invasi dai prodotti asiatici trattati con sostanze vietate Siamo il Paese leader sia nell’ortofrutta che nella produzione di riso eppure a successi commerciali importanti si affiancano segnali di crisi derivanti dall’importazione selvaggia spesso non contrasta, e nel caso del riso favorita, dall’Unione europea. Quest’anno l’ortofrutta italiana ha sfondato il muro dei dieci miliardi di fatturato estero (più 8%). Le pere cinesi Nashi però c’invadono senza che quelle italiane possono andare in Cina. Nonostante l’accordo Ceta tra Ue e Canada, non possiamo esportare i pomodorini perché i canadesi vorrebbero che fossero trattati con il bromuro di metile che da noi è vietato. Niente kiwi - siamo il primo produttore al mondo - in Giappone nonostante l’accordo di libero scambio Jeta. In più - col benestare dell’Ue - il 20% dei prodotti che s’ importano in Europa e ci fanno concorrenza sleale non è a norma: le nocciole dalla Turchia, su cui pende l’accusa di sfruttamento del lavoro delle minoranze curde, l’uva e l’aglio dell’Argentina e le banane del Brasile coltivate con lavoro minorile ma protette dall’accordo Mercosur. Paradossale è la situazione del riso: siamo il Paese leader in Europa con una produzione di 1,5 milioni di tonnellate. In compenso l’Ue autorizza l’importazione di riso da Cambogia, Myanmar, Vietnam, India e Pakistan ancorché trattato con il Triciclazolo vietato in Europa dal 2016. È prodotto dalla multinazionale DuPont che ha perorato la causa subito accolta a Bruxelles. L ’Efsa - la stessa che liberalizza i vermi nel piatto - ha dato una «franchigia» per i residui di Triciclazolo. Così l’import dal Myanmar è aumentato di trecento volte. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/cibo-italiano-sotto-attacco-2659439558.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="miliardi-a-chi-alleva-insetti-per-togliere-polli-e-manzi-dai-piatti" data-post-id="2659439558" data-published-at="1676850719" data-use-pagination="False"> Miliardi a chi alleva insetti, per togliere polli e manzi dai piatti Chi si occupa di sociologia conosce bene la finestra di Overton: significa con la persuasione o con la paura (vedi Covid e vaccini) convincere le masse che è buono ciò che fino a ieri era inaccettabile. Affacciato a questa finestra c’è un grillo. A Milano già si offrono hamburger d’insetti. Il panino è verde e la polpetta indistinta, ma i media allineati titolano: «Lo abbiamo provato, i clienti lo promuovono». Perché mangiare insetti? Perché sono sostenibili, mentre maiali, manzo, pollame no. Perché sono una grande riserva proteica. Perché fanno bene a noi e al pianeta! Sicuro? Non ci sono studi sulle possibili zoonosi tra uomo e insetti, non c’è modo di controllare quante proteine si assumono, la stessa Efsa (l’ente europeo che valuta la salubrità) avverte: non dare le larve ai minorenni. Eppure l’Europa ha dato il via libera e ora tutti parlano della farina di insetti. È contro la legge, la farina si fa solo dai cereali, quella delle tarme è polvere. Ma vuoi mettere? Farina fa più fine. Entro l’anno arriverà anche la finta carne da replicazione clonale di cellule staminali. Ancora una volta servono i numeri. Da qui al 2025 ci saranno circa 3 miliardi di stanziamenti per la promozione e l’incentivazione della produzione d’insetti. Il mercato degli insetti arriverà a 750 milioni di dollari il prossimo anno. In Europa si passerà da 6.000 tonnellate a 3 milioni di tonnellate tra cinque anni. Un chilo di polvere d’insetti costa 100 euro, un chilo di manzo 15. E quanto alla carne sintetica si stima potrebbe toccare i 460 miliardi di dollari nel 2040. Il giro d’affari della carne prodotta in laboratorio potrebbe arrivare a 450 miliardi di dollari nel 2040, cioè il 20% del mercato mondiale della carne. Va detto che la zootecnia italiana è la più sostenibile al mondo (le emissioni di Co2 stanno sotto al 5%), che dalle nostre stalle dipende anche il formaggio (siamo leader con 4 miliardi nell’export) e che da noi stalle, pollai (stop alle uova se spariscono le galline) e porcilaie (senza i maiali addio salumi) muovono oltre 30 miliardi di fatturato. Ma ora c’è un grillo alla finestra. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/cibo-italiano-sotto-attacco-2659439558.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ci-costringono-a-ridurre-del-4-la-coltivazione-di-mais" data-post-id="2659439558" data-published-at="1676850719" data-use-pagination="False"> Ci costringono a ridurre del 4% la coltivazione di mais Il problema è molto serio. Ed è l’ennesimo braccio di ferro con Bruxelles che insiste perché si mettano terre a riposo. In occasione della crisi ucraina erano stati sbloccati 200.000 ettari per seminativi. Ma la deroga valeva solo per un anno. La guerra però continua e il problema dei cereali diventa esiziale per l’Italia che ha riconvertito una quota rilevante di terra a coltivazione di grano duro per sostenere l’industria della pasta che produce circa 3,3 milioni di tonnellate di spaghetti & Co. Per il ministro della sovranità alimentare Francesco Lollobrigida c’è almeno un milione di ettari da sbloccare e mettere a coltura. La Commissione vuole che l’Italia riduca del 4% la superficie coltivata (circa 7 milioni di ettari su 30 milioni totali). Ma la crisi ucraina continua e la produzione crolla. A noi interessa il mais per i mangimi degli allevamenti. E che l’Italia debba e possa produrre di più è confermato dai dati dell’import. Nel 2022 sono in forte aumento gli acquisti di granturco (+1,6 milioni di tonnellate, per un controvalore di 940 milioni di euro di aumento). Abbiamo aumentato anche l’importazione di grano tenero (108.000 tonnellate pari a 3,5 miliardi). Va meglio per il grano duro; ne abbiamo comprate “solo” 555.000 tonnellate (2,3 miliardi di euro): più grano comunitario (217.000 tonnellate) e meno extra Ue (772.000 tonnellate). Col via libera alle larve della farina come alimento si pone un problema: migliaia di tonnellate di grano ammalorato che dovrebbero essere smaltite saranno utilizzate come mangime delle larve ed è possibile che una parte torni sul mercato come sfarinato.
Zerocalcare e il presidente dell’Associazione italiana editori Innocenzo Cipolletta (Ansa)
«Abbiamo preso posizione molto forte quando c’è stata la censura di Scurati alla Rai. Abbiamo preso posizione quando il commissario italiano per la fiera di Francoforte ha dichiarato di aver censurato Saviano», ci dice Cipolletta. «Abbiamo preso posizione contro la censura, anzi l’arresto di uno scrittore come Boualem Sansal in Algeria. Siamo contro le censure. Ora che c’è una proposta di censura nei confronti di una casa editrice, anche se non condividiamo nulla del pensiero che porta avanti, non possiamo essere a favore di questa censura. Perché se censuriamo qualcuno di cui non condividiamo l’opinione, poi alla fine dovremo anche ammettere la censura nei confronti di quelli di cui condividiamo le opinioni. Quindi assolutamente siamo contro le censure». Cristallino. E Cipolletta rincara pure la dose: «Quando si comincia con la censura non si sa più bene dove si finisce. Oggi magari si censura qualcosa che non ci piace, ma domani si cominceranno a censurare anche opinioni che invece condividiamo, e rischiamo di prendere una china molto pericolosa. Se gli editori commettono reati, devono essere denunciati alla Procura. Noi non censuriamo».
Mentre il presidente dell’Aie dà lezioni di liberalismo, a sinistra si scatena lo psicodramma consueto. Zerocalcare ha mollato il colpo e non andrà alla fiera perché, sostiene, ha i suoi paletti. Lo scrittore Christian Raimo invece i paletti vorrebbe piantarli nel cuore dei fascisti e rivendica il tentativo di censura, spiegando che la sua pratica è «sedersi accanto ai nazisti e dire “voi vi alzate io resto qui”». Qualcuno forse dovrebbe dire a Raimo che i nazisti li vede solo lui, e non se ne andranno perché sono voci nella sua testa, amici immaginari che gli fanno compagnia così che si senta anche lui un coraggioso militante pronto al sacrificio per l’idea.
C’è poi chi non rimane a combattere ma se ne va, tipo la casa editrice Orecchio Acerbo, che ha comunicato la sua fuoriuscita dall’Aie «in assoluto e totale disaccordo» con la decisione «di accogliere tra gli espositori di “Più libri più liberi” l’editore Passaggio al Bosco, il catalogo del quale è un’esaltazione di concetti e valori in aperto contrasto con quelli espressi dalla Costituzione antifascista del nostro Paese. Abbiamo deciso», scrivono da Orecchio Acerbo, «di uscire dall’associazione. Decisione presa a malincuore, ma consolidata dopo la davvero risibile argomentazione del presidente Cipolletta: l’Aie non sceglie chi sì e chi no».
Cipolletta risponde con chiarezza: «Ci dispiace, ma ripeto, come associazione di editori cerchiamo di non censurare nessuno e penso che gli editori potrebbero apprezzare, dopodiché se qualcuno non apprezza...». Se qualcuno non apprezza vada per la sua strada: sacrosanto.
In tutto questo bailamme figurarsi se poteva mancare il sindacato.
Slc Cgil e Strade (sezione dei traduttori editoriali) ci hanno tenuto a esprimere «ferma condanna e profonda preoccupazione» per la presenza dell’editore di destra alla kermesse romana. «Consentire la diffusione di narrazioni che celebrano ideologie discriminatorie rappresenta una minaccia per il patrimonio comune di libertà e pluralismo», dice la Cgil. «La libertà di espressione non deve diventare un veicolo per l’apologia del fascismo. Questo non è un semplice dibattito culturale, ma una questione cruciale che misura la capacità della società di respingere ogni tentativo di riabilitazione dell’ideologia fascista. La cultura non può essere un terreno per il travestimento del fascismo come opinione legittima».
In buona sostanza, la Cgil chiede di bandire una casa editrice indipendente tenuta in piedi da ragazzi che lavorano guadagnando poco e faticando molto, che non sono nazisti né fascisti e che hanno regolarmente chiesto e ottenuto uno spazio espositivo. Dunque il sindacato - invece di occuparsi dei diritti di chi lavora - opera per danneggiare persone oneste che fanno il loro mestiere. Il tutto allo scopo di obbedire ai diktat di un gruppetto di autori che masticano amaro perché costretti a riconoscere l’esistenza di una cultura alternativa alla loro. Il succo della storia è tutto qui: non vogliono concedere «spazi ai fascisti» semplicemente perché temono di perdere i propri. Si atteggiano a comunisti ma difendono con i denti la proprietà privata della cultura che vorrebbero dominare con piglio padronale. Stavolta però gli è andata male, perché persino l’associazione degli editori ha capito il giochino e si tira indietro.
I padroncini dell’intelletto vedono sfumare la loro autoattribuita primazia e allora scalciano e strepitano, povere bestie.
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Ecco #Edicolaverità, la rassegna stampa podcast del 5 dicembre con Carlo Cambi
Andrea Sempio (Ansa)
Un attacco frontale. Ribadito anche commentando i risultati dell’incidente probatorio genetico-forense depositati dalla perita genetista Denise Albani: «L’ennesimo buco nell’acqua a spese del contribuente, ho perso il conto, tutto per alimentare un linciaggio mediatico di innocenti, sbattuti da mesi in prima pagina».
Il punto è che queste parole, pronunciate per demolire l’impianto accusatorio delle nuove indagini, finiscono per sbattere contro un dettaglio che l’avvocato Aiello (che aveva chiesto di trasferire il fascicolo da Pavia a Brescia «per connessione» ottenendo un rigetto) tiene da parte: fu proprio Venditti, nel 2016, a iscrivere il fascicolo (poi archiviato) su Andrea Sempio sulla base quasi degli stessi presupposti che anche all’epoca sembravano non tenere conto dell’intangibilità del giudicato, ovvero la sentenza definitiva di condanna a 16 anni per Stasi. Tant’è che furono richieste (proprio da Venditti e dalla collega Giulia Pezzino) e poi disposte dal gip perfino intercettazioni di utenze e, in ambientale, di automobili (attività che, proprio come quelle odierne, non sono gratuite). Anche la critica sulla prova genetica nasce zoppa. La genetista Albani, incaricata nell’incidente probatorio, ha depositato una relazione di 94 pagine che evidenzia gli stessi limiti già noti all’epoca: «L’analisi del cromosoma Y non consente di addivenire a un esito di identificazione di un singolo soggetto». Ma, nonostante le criticità, i calcoli mostrano una corrispondenza «moderatamente forte/forte e moderato» tra le tracce di Dna sulle unghie di Chiara Poggi e l’aplotipo Y della linea paterna di Sempio. La conclusione è matematica: per la traccia «Y428 – MDX5», la contribuzione di Sempio è «da 476 a 2153 volte più probabile». Per la «Y429 – MSX1» è «approssimativamente da 17 a 51 volte più probabile». Non un’assoluzione, non una condanna, ma un dato: Sempio, o un soggetto imparentato in linea paterna con lui, ha contribuito a quelle tracce biologiche. La genetista avverte: «L’analisi del cromosoma Y non consente di addivenire a un esito di identificazione di un singolo soggetto». Ricorda però un passaggio importante: che la mancata replica (in genetica forense un risultato è considerato affidabile solo se può essere riprodotto più volte) è dovuta a «strategie analitiche adottate nel 2014» dal perito Francesco De Stefano, che «hanno di fatto condizionato le successive valutazioni perché non hanno consentito di ottenere esiti replicati». Ovvero: non è colpa delle nuove indagini se i dati sono lacunosi, ma degli errori di allora.
La relazione (di 94 pagine) sostanzialmente non si discosta da quella già effettuata in passato dal professor Carlo Previderé, che nulla aggiunge su come e quando quelle tracce del profilo «Y» sino finite sulle unghie di Chiara. «Nel caso di specie», scrive infatti la genetista, «si tratta di aplotipi misti parziali per i quali non è possibile stabilire con rigore scientifico se provengano da fonti del Dna depositate sotto o sopra le unghie della vittima e, nell’ambito della stessa mano, da quale dito provengano; quali siano state le modalità di deposizione del materiale biologico originario; perché ciò si sia verificato (per contaminazione, per trasferimento avventizio diretto o mediato); quando sia avvenuta la deposizione del materiale biologico».
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Nel riquadro Nathan Trevallion, il papà della cosiddetta famiglia nel bosco, firma il contratto della nuova casa (Ansa)
I documenti sono stati depositati nell’udienza di ieri pomeriggio, dove avrebbero dovuto essere ascoltati Catherine Birmingham e Nathan Trevallion. Si tratta della coppia anglo-australiana che viveva con i tre figli minori, nella casa nel bosco, ma la coppia non era presente in aula. I genitori stanno combattendo per riottenere i bambini, lontani dalla casa nel bosco ormai da 14 giorni. Le importanti relazioni esaminate in aula sono una della casa-famiglia in cui i minorenni sono ospitati dal 20 novembre e l’altra dei servizi sociali. I ragazzi, dall’inizio della loro permanenza nella casa-famiglia in cui sono ospitati, sarebbero tranquilli e non avrebbero subito traumi, incontrano spesso la madre che viene considerata punto di riferimento dei piccoli e che sarebbe anche molto empatica. E anche il padre, pur vivendo ancora nella casa nel bosco, si prende cura dei figli.
Secondo la relazione, i bambini Trevallion hanno mostrato sorpresa davanti ai comfort moderni che trovano nella casa famiglia come l’acqua corrente sempre disponibile, il riscaldamento, gli elettrodomestici. Tutte cose che per i coetanei sono la normalità, ma per loro rappresentano una scoperta. All’udienza di comparizione, iniziata ieri verso le 15.30, erano presenti i due avvocati della famiglia, Marco Femminella e Danila Solinas. Sono loro che hanno chiesto un ricongiungimento urgente al tribunale minorile per la famiglia, presentando delle nuove argomentazioni alla luce di nuovi elementi che non erano conosciuti al tempo dell’ordinanza che ha separato genitori e figli. Anche i minori hanno un loro avvocato, Marica Bolognese. Maria Luisa Palladino è la tutrice provvisoria dei tre bambini.
I genitori hanno anche presentato ricorso, sulla decisione di allontanare i figli minori, alla Corte d’appello che dovrà decidere il 16 dicembre. Intanto, ieri si è iniziato a valutare l’impegno della coppia per garantire quanto disposto dal magistrato in termini di adeguatezza dell’ambiente domestico. La coppia ha deciso di cambiare abitazione per tre mesi, gli è stata messa a disposizione una casa colonica, sempre a Palmoli, immersa nel verde, dove resterà il tempo necessario per sistemare il casolare in cui abitava. A quanto sembra, però, si attende ancora un progetto di ristrutturazione della vecchia abitazione e in Comune a Palmoli non è stata ancora avviata alcuna procedura in merito. «Abbiamo fiducia nella magistratura, speriamo nel ricongiungimento, forniremo altri elementi utili, ma per ora non possiamo dire nulla», ha spiegato l’avvocato Solinas, assediata dai cronisti, all’ingresso del Tribunale per i minorenni dell’Aquila. «Stiamo lavorando bene», ha detto rispondendo alle domande dei giornalisti riferite alla strategia difensiva da attuare in udienza.
E anche all’uscita, i toni della Solinas e di Femminella erano distesi: «È stato un momento di colloquio, di confronto, di chiarimento e quindi di condivisione di un percorso. La decisione spetta al tribunale. L’udienza è il luogo deputato all’interlocuzione, al confronto è stata un’udienza assolutamente proficua, lunga. Si prospetta una proficua collaborazione». «Tra gli elementi che sono valutati in maniera positiva dal tribunale c’è sicuramente la disponibilità dei genitori in questi giorni», hanno aggiunto i due legali, che però non hanno potuto nemmeno ipotizzare quando i giudici scioglieranno la riserva. «Le tempistiche non le posso prevedere», ha risposto la Solinas ai cronisti. Non è chiaro, quindi, se la decisione del Tribunale dei minori arriverà prima o dopo quella della Corte d’appello.
Nelle due ore di udienza sono stati valutati su richiesta degli avvocati dei Trevallion i nuovi aspetti non conosciuti al momento dell’ordinanza di allontanamento del 20 novembre, questo per ottenere l’accoglimento della richiesta di ricongiungimento urgente per la famiglia, che sarà decisa nei prossimi giorni.
Intanto ieri il portavoce di Pro vita & famiglia, Jacopo Coghe, ha consegnato oltre 50.000 firme al ministero della Giustizia, raccolte dalla onlus con una petizione popolare rivolta al ministro Carlo Nordio per chiedere l’immediato ricongiungimento della famiglia Trevallion. «Il caso è diventato il simbolo di una deriva pericolosa, ovvero quando lo Stato, invece di sostenere i genitori, si sostituisce a loro. Così facendo calpesta il diritto dei minori a crescere con il proprio padre e la propria madre e lede il primato educativo che spetta alla famiglia», ha spiegato Coghe.
«In attesa di novità, speriamo positive, dall’udienza al Tribunale dei minori dell’Aquila di oggi pomeriggio (ieri, ndr)», aggiunge Coghe, «chiediamo al ministro Nordio di fare tutto quanto in suo potere affinché questa famiglia venga riunita e simili casi non si ripetano più. Non esiste tutela dei bambini senza rispetto dei loro genitori».
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