2018-12-16
Ci sono nove italiani trucidati dall’Isis dei quali lo Stato si è già dimenticato
Nel 2016 un commando di estremisti, in un ristorante di Dacca, torturò e sgozzò i nostri connazionali perché ignoravano il Corano. Da allora le indagini si sono impantanate e i parenti delle vittime si sentono abbandonati.Vogliamo chiamarle vittime del terrorismo di serie B, se non addirittura di terza categoria? Mentre l'Italia da venerdì giustamente piange per Antonio Megalizzi, il ventottenne morto dopo tre giorni d'agonia per le ferite subite nell'attentato di Strasburgo, chissà perché tutti dimenticano i nove italiani uccisi nella strage di Dacca del primo luglio 2016. Eppure fu una strage orribile, cruenta, spaventosa: i nove, cinque donne e quattro uomini che erano piccoli imprenditori o dipendenti di aziende locali, furono torturati e sgozzati uno dopo l'altro da un commando dell'Isis. I terroristi bengalesi erano penetrati armati di kalashnikov e di machete nell'Holey artisan bakery, un ristorante del centro molto frequentato da stranieri. L'eccidio durò ore, fino all'alba, anche mentre i militari circondavano il locale. Con i nove italiani morirono altri 11 clienti del locale, colpevoli soltanto di non saper recitare versetti del Corano. Furono cancellati. Dalla vita e poi dalla cronaca e dal ricordo, da tutto.Non è un caso se ieri mattina l'ex ministro Carlo Giovanardi ha segnalato l'omissione del sito del Corriere della Sera, che venerdì aveva dimenticato i nove uccisi di Dacca e fermato a 55 il computo dei morti italiani causati dal terrorismo islamico, arrestando a 32 il calcolo delle stragi a partire dall'attentato alle Torri gemelle dell'11 settembre 2001. Un errore che, nel pomeriggio, non era ancora stato corretto. Ha aggiunto Giovanardi: «Chiedo ai media e alle istituzioni italiane di dare alla ricerca della verità sui colpevoli dell'eccidio di Dacca almeno un po' dell'attenzione correttamente riservata alla morte in Egitto di Giulio Regeni». Giovanardi ha ragione: sulle vittime di Dacca la nostra giustizia sembra decisamente meno attiva che in altre occasioni. E nessuno appende cartelli gialli sui municipi, chiedendo «verità» per Nadia Benedetti, Claudio Cappelli, Vincenzo D'Allestro, Claudia Maria D'Antona, Simona Monti, Adele Puglisi, Maria Riboli, Cristian Rossi e Marco Tondat. Nessuno ne scrive sui giornali. Nessuno li ricorda più.È strano. Perché 28 mesi fa la Procura di Roma aveva aperto un'inchiesta. Alla sua guida, da allora, si sono già succeduti due magistrati inquirenti, ma delle loro indagini si sa ben poco. Il primo pubblico ministero, Francesco Scavo, aveva ordinato l'autopsia sui cadaveri, ottenendo la triste conferma che i nove erano morti di morte lenta e dolorosa, per ferite da taglio: sempre senza un colpo di grazia. Poi, è sceso il silenzio. Il suo successore, il sostituto procuratore Tiziana Cugini, non ha ancora ricevuto dal Bangaldesh gli atti d'indagine sulla strage, chiesti per rogatoria. Il problema è che con quel Paese non ci sono accordi giudiziari, tutto avviene soltanto su basi di volontaria cortesia. Il 28 novembre i parenti delle nove vittime sono stati finalmente informati che il 3 dicembre, al tribunale di Dacca, si sarebbe svolta la prima udienza del processo. A dare loro la notizia, però, non sono stati né la Procura di Roma, né il nostro ministero della Giustizia, né quello degli Esteri. A tutti è arrivata una gentile email scritta da Iqbal Ahmed, console generale del Bangladesh a Milano: «Il tribunale», vi si legge, «ha iniziato il procedimento che vede coinvolti otto sospettati, di cui sei in custodia cautelare e due non ancora ritrovati dalle forze dell'ordine». Seguono il nome del giudice e la promessa di ulteriori informazioni. Speriamo ne arrivino.«Sapevamo ci sarebbe stato un processo, ma in Italia nessuno ci ha informati», protesta sommessamente Cristina Rossi, la sorella di Cristian, imprenditore dell'abbigliamento di Feletto Umberto, in provincia di Udine. La signora è amareggiata: «Ci aspettavamo almeno una comunicazione ufficiale dalla Farnesina, o dal nostro ambasciatore in Bangladesh». Poi domanda: «Dove sono le istituzioni, i giornalisti? Perché questa continua a essere una strage dimenticata?».Viene proprio da chiedersi come mai alcune morti siano meno pesanti di altre. Tra le vittime «secondarie» del terrorismo islamico non ci sono soltanto i nove di Dacca: anche i quattro italiani uccisi dagli jiahdisti il 18 marzo 2015 mentre visitavano il museo del Bardo, a Tunisi, sono spesso dimenticati. Come fossero meno importanti. Meno significativi. Meno «nostri».Eppure la strage dei nove di Dacca, sgozzati in una folle notte di sangue a 9.000 chilometri di distanza da casa, resta un momento terribile per il nostro Paese. Nella storia recente, a parte l'orrore di Nassirya con i 19 soldati uccisi dal fuoco jihadista, non ci sono altre carneficine di violenza paragonabile. Soltanto su Dacca, però, è caduta una coltre di silenzio, inspiegabile e inaccettabile. Nove famiglie vivono senza notizie certe sull'inchiesta, senza percepire alcuna pressione delle nostre istituzioni sulle autorità bengalesi perché sia fatta luce sui loro morti. Forse soltanto perché non alzano abbastanza la voce. Ma non se ne può certo fare loro una colpa. E l'ingiustizia che subiscono è vergognosa, insopportabile.