2018-04-07
Parla Max Fedriga: «Chi vuole le ammucchiate si accomodi ma senza di noi»
Il candidato leghista in Friuli: «Con i 5 stelle accordo su cinque punti chiave o voto I governissimi li lasciamo ai dem. I sondaggi ci danno al 23%? Non abbiamo limiti».Durante la cena con il presidente armeno di giovedì Silvio Berlusconi chiama Matteo Salvini dopo i battibecchi del pomeriggio. Giancarlo Giorgetti va a palazzo Grazioli e ricompatta Lega, Forza Italia e Fratelli d'Italia A Montecitorio il governo Cinque Stelle -Partito Democratico avrebbe i numeri per andare avanti. L'aritmetica, però, fa a pugni con il realismo politico: gli elettori del Pd e quelli grillini come potrebbero accettare un governo con Luigi Di Maio a Palazzo Chigi, Maria Elena Boschi alle Riforme e Matteo Renzi agli Esteri?Lo speciale contiene quattro articoli.Onorevole Fedriga, mai una campagna per le elezioni in Friuli è stata tanto legata a quella nazionale.«Perché la Lega, a Roma e a Trieste, è protagonista di una ribellione al malgoverno del centrosinistra». Ha fatto un passo indietro per candidarsi. «Amo la mia terra». Lei è uno degli uomini più vicini a Salvini. Si fa questo governo centrodestra-M5s o no?«Mai per il potere a tutti i costi. O si fa un accordo su cinque punti cardine, o si vota». Quali punti?«Abrogazione della legge Fornero, primo passo verso la flat tax, pacchetto per l'emergenza giustizia, clandestini e sicurezza». Questo significa anche no a qualsiasi governissimo con il Pd in maggioranza? «È evidente». È vero che il nome del premier non è pregiudiziale?«Sì, anche su questo Salvini ha dimostrato di essere un vero leader nazionale».E il governo «di tutti»?«È un governissimo mascherato. Non con noi». Massimiliano Fedriga, giovanissimo ma leghista fin da bambino, corre per strappare il Friuli-Venezia Giulia al Pd. Per avere lui Salvini ha rinunciato a poltrone e incarichi istituzionali per la Lega. Vincere lì significherebbe colorare di blu tutto il centro-nordest. Fedriga, lei da dove viene?«Mio padre lavorava in banca, girava l'Italia. Sono nato a Verona, vivo a Trieste da quando avevo 5 anni. Mi sento triestino più che veronese».E se deve spiegare cos'è un triestino a un americano?«Uno con la testa molto aperta: nasciamo città mitteleuropea, austriaca, asburgica e italiana, ovviamente, ma anche ebraica, magiara, serbocroata e post-jugoslava».Da che famiglia viene?«I miei nonni materni sono cresciuti con noi. Il mio nonno paterno era lombardo. Da piccolo la Tribuna politica l'ho avuta in casa: un nonno missino, l'altro diceva d'esser comunista ma alla fine spiegava: “Non ce l'ho fatta, ho votato socialista!". Mia nonna era della Dc». Myrta Merlino dice che lei ha preso dalla nonna…«In realtà sono leghista integrale dall'età di 12 anni. Veniva Bossi a Trieste, per un comizio. Mio padre e mio fratello andarono a sentirlo e non mi portarono. Da lì, forse per ripicca, non mi perdevo una parola del Senatur in tv». Non è salito sul carro...«Tendenzialmente sono sempre stato con i perdenti, fin dai tempi degli indiani nei giochi da bambino». Quando si è iscritto?«Nel 1993. Tornavo dal comizio di Bossi. Era l'anno della vittoria di Illy e sostenevo - a proposito di battaglie controcorrente - Federica Seganti. Prendemmo l'1%, chiesi la tessera per celebrare. Nel 2003 eravamo all'1,3%, oggi al 27%».Primo lavoro serio?«All'università facevo servizio di portineria: 600 euro al mese. Poi, dopo aver inseguito diverse vocazioni, ho detto: “Sarò pubblicitario". Ho iniziato con le analisi di mercato per un'agenzia, e poi marketing di prodotti informatici».Primo attacchinaggio? «A 15 anni. Un mio compagno di classe, Giampaolo, mi aveva detto: “Ho lo zio che è iscritto alla Lega". Sono andato a fare il volantinaggio perché a Trieste veniva Bossi».Ogni venuta di Bossi ha pesato sulla sua vita. «Adesso sorriderà: quando in un consiglio federale del 2005 mi disse: “Ciao Fedriga!" tornai a casa felice». La prima volta che avete parlato davvero di politica?«Nel 2008: vene in Friuli per un'iniziativa su Fincantieri. Parlammo ore: dalle navi, passando per Marco Polo e i samurai, e finendo a fare un punto visionario ma lucido sulla crisi industriale. Se non conosci Bossi non puoi capire». E Salvini?«Me lo ricordo da ragazzo. Nel 2008 eravamo matricole, a Montecitorio, lui sopra di me in emiciclo. Aveva sempre una battuta pronta su qualsiasi tema, uno slogan. Dissi a Fulvio Folegot, mio padre spirituale leghista: “È un vulcano"». Salviniano ante-litteram?«Al contrario. Ero sempre leale ai diversi segretari federali. Quando mi scelse come capogruppo stupì tutti: “Non farò una scelta sulla fedeltà e sull'appartenenza alla cerchia del capo". Ne ero la prova». E il Salvini di oggi?«È cresciuto enormemente. Nessuno poteva immaginare una così grande capacità politica. Sa ascoltare e comprendere la gente: io credo derivi dalla sua esperienza in radio».Quanto vi sentite?«In questi giorni ho sentito più Matteo che mia moglie».Avevate già chiuso su Tondo, di Forza Italia. Poi? «Si è chiuso in sede con tutti i segretari del Friuli Venezia Giulia. È stato qui dalla mattina alla sera e ha parlato con tutti. Poi mi fa: “Per me il candidato devi essere tu"». Lei è convinto di vincere?«Basta che la gente vada a votare. La Serracchiani ha scelto un ponte, spendendo 5 milioni di euro, perché nel Pd credono che la loro base vada a votare sempre, e i nostri no». Fa campagna contro la Serracchiani?«È il Pd che la rinnega».Candida Sergio Bolzonello.«Bella faccia tosta. Era il vicepresidente di Debora, ha votato le cose più orribili. Adesso fa come se arrivasse da Marte. Nella sanità siamo passati dai primi posti agli ultimi. Hanno tagliato posti letto, e servizi, senza risparmiare». Critica da sinistra?«Dal buonsenso. Il Pd non ha difeso il servizio pubblico».Il problema più grande? «Limmigrazione clandestina pachistana e indiana. Sono persone espulse da Germania e Austria. Non è ideologia, è un problema grave. Sono stato alla Caserma Cavarzerani di Udine. Ho scoperto che sono tutti nati il primo gennaio! Non sappiamo nulla di loro».La Serracchiani ha chiuso i Cie. «Ci sono stato: c'erano 36 ospiti: 35 con precedenti penali per violenza carnale, spaccio di droga, furto».Un solo incensurato?«Boh. Del trentaseiesimo non si sapeva nulla». Sua moglie Elena che fa?«È una dipendente del Fai. Ho due maschietti, Giacomo e Giovanni, quattro anni uno e tre mesi l'altro».Perché il Pd perde?«Hanno girato la testa dall'altra parte. Nella roccaforte rossa di Monfalcone c'è una sindaca leghista. La gente perde il lavoro e si ritrova nella guerra tra poveri. Noi proviamo a cambiare». La Lega è data al 23%.«Sono convinto che non ci sia limite alla nostra capacità di espansione». Dicono siate estremisti. «Che vuol dire moderato?».Che non attacca l'Europa, per esempio. «Abbiamo idee diverse...».Siete populisti?«Se è perché difendiamo queste idee, e il popolo, lo siamo orgogliosamente».Maroni la preoccupa?«No. È critico ma è collaborativo. Lo rispetto».Bossi dice che dovete allearvi con il Pd.«Il Pd deve cambiare: hanno fatto male ai cittadini».Che hobby ha? «L'unico, il venerdì, è portare mio figlio in piscina. È una cosa sacra tra me e lui».Luca Telese<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/chi-vuole-le-ammucchiate-si-accomodi-ma-senza-di-noi-2556956461.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="m5s-dal-pd-per-mettere-fretta-alla-lega-ma-i-dem-sono-costretti-a-dire-di-no" data-post-id="2556956461" data-published-at="1757901406" data-use-pagination="False"> M5s dal Pd per mettere fretta alla Lega. Ma i dem sono costretti a dire di no Il «contratto di governo» offerto dal M5s al Pd somiglia molto a un testamento, e al di là delle divisioni interne ai democratici in pochissimi, al Nazareno e dintorni, pensano davvero alla possibilità di un'alleanza. Innanzitutto, perché si tratterebbe di un vero e proprio abbraccio mortale, che ridurrebbe il Pd al ruolo di maggiordomo di quel M5s che in questi anni ha fatto a pezzi, un giorno sì e l'altro pure, il Partito democratico. In secondo luogo, perché i numeri sarebbero risicatissimi, soprattutto a Palazzo Madama. Il M5s ha 109 senatori, il Pd 52. Il totale dei senatori, compresi quelli a vita, è 320. La maggioranza assoluta è a quota 161. Pd e M5s insieme hanno esattamente 161 senatori; aggiungendo i 4 di Leu e qualche altro voto sparso, l'eventuale governo Pd-M5s sarebbe sostenuto da una maggioranza thriller. Alla Camera, il M5s ha 222 deputati, il Pd 111, Leu 14. Il totale è 347, la maggioranza è a quota 315. A Montecitorio, quindi, in linea teorica e considerando l'aiuto degli inevitabili «responsabili», il governo Di Maio-Martina avrebbe i numeri per andare avanti. L'aritmetica, però, fa a pugni con il realismo politico: gli elettori del Pd e quelli grillini come potrebbero mai accettare un governo con Luigi Di Maio a Palazzo Chigi, Maria Elena Boschi alle Riforme e Matteo Renzi agli Esteri? Stando a un sondaggio di IndexResearch per Piazza Pulita (La7), secondo il 64,3% degli elettori Pd il proprio partito dovrebbe rifiutare l'accordo senza neanche discutere, mentre il 15,6% pensa che bisognerebbe decidere sulla base di un programma condiviso e il 5,4%, che si potrebbe accettare solo con un premier non pentastellato. In sostanza, la proposta del M5s al Pd sembra più una mossa tattica che una prospettiva seria. Serve a Luigi Di Maio per far «ingelosire» la Lega; per addolcire agli elettori del M5s la pillola di un eventuale governo Di Maio-Salvini-Berlusconi-Meloni, che verrebbe descritto come inevitabile, e per spaccare un altro po' il Partito democratico. Il M5s, infatti, ha capito che Matteo Salvini non si staccherà mai da Silvio Berlusconi e sta cercando disperatamente un'alternativa a un'alleanza - quella col centrodestra al gran completo - che gli elettori grillini considerano il male assoluto, preferendo di gran lunga un ritorno alle urne. Dall'interno del Movimento filtra perplessità: «Salvini deve scegliere fra il cambiamento e riportare indietro l'Italia, con Berlusconi». Ieri, a quanto risulta alla Verità, Giorgia Meloni ha sentito Salvini, che ha proposto al centrodestra di andare unito alle prossime consultazioni al Quirinale e gli ha ribadito che Fdi non seguirebbe la Lega nel caso di un accordo con il M5s al di fuori dal centrodestra. Qualunque sia il vero motivo di questo improvviso innamoramento dei grillini nei confronti di Matteo Renzi e (ex) compagni, ieri per l'intera giornata il capogruppo al Senato del M5s, Danilo Toninelli, esponente del cerchio magico di Di Maio, ha corteggiato il Pd, ricevendo una serie di porte in faccia da scoraggiare anche lo spasimante più focoso. Toninelli, ospite di Agorà su Rai3, ha rivolto il suo appello direttamente al segretario reggente dei dem, Maurizio Martina: «Con Martina», ha detto Toninelli, «abbiamo dialogato nella elezione dei presidenti di Camera e Senato e degli uffici di presidenza. A lui chiediamo un atto di responsabilità, perché è un'opportunità che gli stiamo dando». Una gentile concessione, quella di Toninelli a Martina, condita però da un attacco molto duro: «Il Pd ha la responsabilità del fallimento delle politiche degli ultimi cinque anni e di aver approvato una legge elettorale che ha portato a questo stato di caos». Guai ai vinti, in sostanza: Maurizio Martina non ha potuto fare altro che respingere al mittente la proposta. «Leggo», ha replicato Martina, «che il capogruppo al Senato del M5s ritiene il Pd responsabile del fallimento delle politiche di questi anni. È chiaro che queste parole dimostrano l'impossibilità di un confronto con noi. La finiscano con i tatticismi esasperati», ha aggiunto Martina, «con la logica ambigua dei due forni come se non contassero nulla i programmi e la coerenza ideale, e dicano chiaramente se sono in grado di assumersi una qualche responsabilità verso il Paese». Toninelli non si è arreso e ha rilanciato: «Il Pd non strumentalizzi il senso delle mie parole e non cerchi pretesti. Abbiamo idee differenti ed è evidente che la nostra visione critica sull'operato del governo del Pd in questi anni resta, ma per il bene del Paese il M5s chiede sinceramente al Pd di metterci intorno ad un tavolo». Niente da fare: anche un dialogante nel dna come il capogruppo dem alla Camera, Graziano Delrio, ha respinto al mittente l'offerta: «Quando Di Maio», ha detto Delrio a Radio Anch'io, «dice: "O voi o la Lega", sta dicendo che non ha un'idea di Paese. Cosa serve davvero all'Italia? Non c'è un problema personale. Di Maio fa la stessa offerta a noi e alla Lega. E a voi», ha aggiunto il capogruppo, «sembra che noi e la Lega abbiamo la stessa idea di Paese? Di Maio ha ricevuto un mandato dagli elettori che non era il mandato a governare con noi. Il M5s ci ha criticato per tutti questi anni. Noi vogliamo essere seri. Loro hanno idee diverse da noi. È una questione di serietà. Non vogliamo prescindere dal merito per arrivare al potere ad ogni costo». La linea del «mai con il M5s» targata Matteo Renzi regge, irrobustita da fattori oggettivi. Dentro al Pd sono gli antirenziani - guidati dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando - a dirsi disposti al dialogo coi grillini. Un po' perché ci credono davvero, un po' per contraddire l'ex segretario, in realtà più segretario ombra che ex.Carlo Tarallo <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/chi-vuole-le-ammucchiate-si-accomodi-ma-senza-di-noi-2556956461.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="la-telefonata-di-berlusconi-a-salvini-che-ha-riunito-il-centrodestra" data-post-id="2556956461" data-published-at="1757901406" data-use-pagination="False"> La telefonata di Berlusconi a Salvini che ha riunito il centrodestra Sono da poco passate le otto di sera di giovedì quando il cellulare del segretario della Lega Matteo Salvini incomincia a squillare. A chiamare è il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi. La scena si svolge a palazzo Doria Pamphili, nella capitale, in occasione della cena con il presidente armeno Serzh Sargsyan, a poche ore dalla fine delle consultazioni con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dopo la presunta rottura tra gli azzurri e i leghisti. Al tavolo d'onore, per celebrare la vicinanza dell'Italia alla comunità armena, sono seduti Salvini, la compagna Elisa Isoardi, il fidato vicesegretario Giancarlo Giorgetti e il tesoriere Giulio Centemero. Dopo la girandola di telefonate e di messaggi tra Salvini e Berlusconi toccherà proprio alla mente economica leghista alzarsi in anticipo, lasciare un piatto di spigola a metà e andare a palazzo Grazioli per affrontare la crisi con il Cavaliere. La distanza da percorrere è di appena 300 metri, quindi basteranno pochi minuti a Giorgetti per ricucire lo strappo del pomeriggio e impostare una linea comune per il giorno successivo: al secondo giro di consultazioni al Quirinale la coalizione di centrodestra andrà insieme da Mattarella. Ancora una volta i vertici della Lega la spuntano su Berlusconi, dopo lo schema che aveva portato Maria Elisabetta Casellati alla presidenza del Senato, perché l'idea di andare insieme al Colle era già stata avanzata da Salvini nelle scorse settimane in asse con la leader di Fratelli D'Italia Giorgia Meloni. Ma soprattutto lanciano un messaggio al leader del Movimento 5 stelle Luigi Di Maio, che dopo il colloquio nella sala della Vetrata aveva detto di non riconoscere la coalizione di centrodestra, ma solo Salvini. Invece l'accordo tra Lega, Forza Italia e Fratelli D'Italia tiene. È un'alleanza impossibile da scalfire, anche perché ben cementata nei governi a livello regionale e comunale. Del resto, durante l'incontro con Mattarella, sia Salvini che Giorgetti avevano presentato come unica ipotesi quella di un governo centrodestra unito-5 Stelle. Con dentro Berlusconi. Punto, quest'ultimo, su cui la stessa leader di Fratelli d'Italia non ha dubbi. E allora si ritorna al punto di partenza, ributtando la palla nel campo dei grillini. La strategia della Lega è chiara, al netto della mancanza di fiducia di alcuni consiglieri del Cavaliere, su tutti Gianni Letta. L'obiettivo dei leghisti è portare Di Maio a fare un passo indietro o andare a sbattere, lasciando il pallino del gioco nelle mani di Salvini. L'obiettivo è portare la Lega e tutto il centrodestra a essere forza trainante a livello di governo, con i grillini gregari. Per questo Giorgetti aveva attaccato Berlusconi nella sera di giovedì, prima dell'incontro di palazzo Grazioli, definendo sbagliata la strategia sui grillini. «Non so strategicamente, ma secondo me tatticamente Berlusconi ha sbagliato», le parole esatte. Del resto il Cavaliere, consigliato da Letta, avrebbe definito i 5 Stelle come dei «ragazzini matti» di fronte a Mattarella, di certo non una linea morbida di dialogo per formare un esecutivo. Ora invece la situazione si ricompattata. E anche Giovanni Toti, governatore ligure spiegava ieri che «l'accordo nel centrodestra reggerà, è nel reciproco interesse dei leader farlo reggere, soprattutto perché gli elettori hanno votato oltre 200 parlamentari scelti all'interno di una coalizione di cui facevano parte tutti e tre i partiti». La partita a scacchi quindi ricomincia. Ieri in tutta risposta alla ritrova unità nel centrodestra i grillini hanno fatto filtrare sulle agenzie di stampa un invito a Salvini, a scegliere tra «il cambiamento e Berlusconi». Ma la situazione è fluida. E la Lega continua a fare perno sul desiderio dei 5 Stelle di governare. Nella sede di via Bellerio ne sono convinti: Davide Casaleggio sta tracciando la linea e ha deciso che non è più tempo per l'opposizione. Il tema risuona da giorni nelle stanze del potere economico-politico, alle prese con il ricambio dei vertici di Cassa depositi e prestiti. C'è da segnalare che al momento la truppa pentastellata continua a ricevere porte in faccia da parte dell'establishment. L'unico che ha risposto a Stefano Buffagni - l'uomo di Di Maio che coordina il comitato sulle partecipate insieme con il presidente di Acea, Luca Lanzalone - è stato il presidente di fondazione Cariplo, Giuseppe Guzzetti. Gli altri, dai ministri agli amministratori delegati delle aziende statali, continuano a confrontarsi solo con Salvini e Giorgetti. La questione è rilevante perché vuole dire che a livello di «sistema» l'unico interlocutore in questo momento accreditato è la Lega, a quanto pare anche perché i grillini non sembrano muoversi molto bene in ambienti che bazzicano da appena un mese. La prossima settimana quindi, il segretario leghista riproporrà un leit motiv già rodato, quello del passo indietro. Tutti devono fare un passo indietro. Potrebbe farlo lui in primis, ma dovrà farlo anche Di Maio. A quel punto toccherà ai 5 Stelle decidere sul da farsi. Innanzitutto dovranno capire se l'abbraccio con Berlusconi potrebbe rivelarsi mortale e soprattutto quale potrà essere il loro ruolo in un esecutivo con il centrodestra. Ma soprattutto toccherà al leader pentastellato spiegare la sua posizione. Sono disponibili a un esecutivo con un presidente del Consiglio terzo? Appoggerebbero un governo Salvini? E uno a guida Giorgetti? Il nome della mente economica della Lega è risuonato molto nei colloqui dei partiti con Mattarella. Il bocconiano di Cazzago Brabbia, in provincia di Varese, è persona stimata negli ambienti del centrosinistra. Tanto che potrebbe essere un presidente del Consiglio gradito anche al Pd. Chissà che non possa essere proprio lui la chiave per sciogliere i nodi. Come con il Cavaliere, lasciando un piatto di spigola a metà. Alessandro Da Rold
Jose Mourinho (Getty Images)