2023-11-13
Chi vuol male ai bambini?
Nell’Europa della natalità zero e dei tassi di interruzione di gravidanza altissimi, la nuova frontiera è ormai l’uccisione dei bimbi malati. Il caso Indi è l’ultimo di una lunga serie ed è figlio dell’eclissi del cristianesimo.Warren Buffett nel solo 2014 investì un miliardo. In Italia 12 miliardi di costi per i contribuenti.Lo speciale contiene due articoliChi ha paura dei bambini? Nell’Europa a natalità zero un simile interrogativo non dovrebbe aver spazio. Invece è il contrario: le culle sono vuote ovunque, perfino negli osannati Paesi nordici. Se il tasso di sostituzione - decisivo per la sopravvivenza di una comunità - ammonta difatti a 2,1 figli per donna, nel 2022 in Svezia è stato di 1,5, in Norvegia di 1,4 mentre in Finlandia di 1,3, il dato più basso dal 1776. «Sono cali forti e inaspettati, perché quei Paesi sono sempre stati visti come pionieri nelle politiche di conciliazione tra lavoro e vita privata», ha commentato Tomáš Sobotka, vicedirettore del Vienna Institute for Demography. Eppure, in un Vecchio Continente sempre più vecchio, dove neppure il welfare d’eccellenza contrasta più la denatalità, i bimbi vengono eliminati. Come? Anzitutto con l’aborto volontario, che curiosamente è diffusissimo proprio nei Paesi che più hanno investito sulla contraccezione. Da un articolo uscito lo scorso anno su The European Journal of Contraception & Reproductive Health Care apprendiamo che il tasso di aborti ogni 1.000 donne tra i 15 e 49 anni di età, se nell’Italia descritta spesso come arretrata e patriarcale è di 6.5, in Finlandia è dell’8.2, in Norvegia del 10.6, in Danimarca del 12.3, in Francia del 14.8, nel Regno Unito del 17.0, in Svezia addirittura del 19.7. Ma se la pratica abortiva è legale da decenni, più recente – e più sconvolgente – è la nuova frontiera della pedofobia europea: quella che vede lasciati morire i bambini malati. Da questo punto di vista, la vicenda di Indi Gregory – seguita da tutti col fiato sospeso in questi giorni – rappresenta solamente la punta dell’iceberg. Anche perché ci sono stati almeno tre illustri precedenti: quelli di Charlie Gard, di Isaiah Haastrup e di Alfie Evans. Tre destini accomunati dal medesimo, triste epilogo: la morte per distacco del ventilatore indicata in diversi gradi dalla magistratura inglese e dalla Cedu quale, come si diceva poc’anzi, «child’s best interest». Il primo e forse più emblematico caso fu quello di Gard, nato il 4 agosto 2016 e morto il 28 luglio 2017, poco prima del suo primo anno di vita. Il piccolo aveva una rarissima patologia genetica, la sindrome da deplezione del Dna mitocondriale, che causa progressivi danni cerebrali e muscolari. Da notare come i genitori del bimbo non solo volevano tenerlo in vita, ma avevano pronto, ottenuto con una raccolta fondi, oltre un milione di sterline per trasferire il figlio in una clinica di New York. Disponibilità all’assistenza del piccolo fu offerta anche da capi di Stato come Donald Trump e lo stesso Papa Francesco, eppure per il piccolo Gard non ci fu scampo.Venendo a tempi più recenti, un altro caso che ha diviso l’opinione pubblica inglese è stato quello del dodicenne Archie Battersbee, morto nell’agosto dello scorso anno. Il giovane versava in condizioni gravi dopo che la madre lo aveva scoperto con una corda al collo, probabilmente utilizzata per una sfida telematica tra coetanei a un gioco estremo a chi si avvicinava di più al punto di non ritorno. Contro il parere dei genitori, anche a Battersbee è stata tolta la ventilazione portandolo alla morte: sempre per il «suo bene», a quanto pare. D’accordo, ma come si è arrivati a simili derive? Lo sdoganamento dell’eutanasia infantile e neonatale è di solito attribuito al dottor Eduard Verhagen, che nel 2005 aveva pubblicato un documento, noto con il nome di Protocollo di Groningen, nel quale vengono indicate le procedure da rispettare qualora si volesse praticare una eutanasia su un paziente bambino o neonatoNon pare superfluo rilevare che Verhagen sia olandese e che i Paesi Bassi siano stati il primo Paese al mondo, nel 2000, a legalizzare l’eutanasia. Dunque la deliberata uccisione di neonati e bambini malati altro non è che figlia di quella verso malati che giovanissimi non era più; una volta, cioè, sdoganato il principio che ci siano vite «indegne di essere vissute» ecco che l’età diventa semplicemente una variabile. Fatto sta, comunque, che Verhagen si è limitato a proporre la formalizzazione di una procedura che già veniva effettuata, anche prima del 2005. Parola della pediatra Kate Costeloe che, in un articolo sul British Medical Journal nel 2007, aveva scritto: «Nei Paesi Bassi si registrano annualmente circa 200.000 nati vivi; di questi, si ritiene che 10-20 bambini, per lo più con gravi malformazioni congenite, siano stati uccisi attivamente, ma tra il 1997 e il 2004 solo 22 di questi decessi sono stati segnalati alle autorità».Se questa era la situazione di partenza, per così dire, il Protocollo di Groningen ha poi fatto il resto, aprendo un dibattito sull’eutanasia dei bambini che in Olanda non si è più richiuso, anzi si è anagraficamente ampliato. Basti pensare quanto accaduto nell’estate dello scorso anno, quando è stato dato l’ok all’eutanasia per i bambini da uno a 12 anni da parte del ministro della Salute, Ernst Kuipers. Se si è arrivati a questo punto è però anche grazie, va detto, al supporto della classe medica: un’indagine del 2019, condotta su 72 medici, aveva infatti già messo in luce come la stragrande maggioranza di costoro ritenga accettabile «porre attivamente fine alla vita dei bambini di età inferiore ai 12 anni che accusino gravi sofferenze». Guai però a pensar l’eutanasia dei bimbi un tema solo inglese o olandese, dato che riguarda anche quello che nel 2002 divenne il secondo Paese al mondo a legalizzare l’eutanasia: il Belgio. Come per l’Olanda, anche lì dopo alcuni anni la possibilità di morire per gli adulti è diventata quella dei bambini, con tanto di sconvolgente norma ad hoc. E il 14 febbraio 2014 toccò ad un quotidiano italiano certo non conservatore, La Repubblica, titolare: «La legge choc del Belgio: eutanasia per i bambini». Grazie a quella norma, anche in Belgio è divenuto possibile lasciar morire i più piccoli quando l’équipe medica valuti che non vi sia «nessuna speranza di un futuro sopportabile». Secondo un lavo ro uscito su Archives of disease in childhood - fetal and neonatal edition, solo tra settembre 2016 e dicembre 2017 nelle Fiandre vi sono già stati 24 casi di neonati di età compresa tra 0 e 1 anno venuti a mancare sulla base d’una decisione medica. 24 casi vuole dire il 10% di tutti le morti entro il primo anno di vita; la percentuale, oltre ad essere assai elevata, certifica un aumento dato che in rilevazioni effettuate tra il 1999 e il 2000, essa risultava essere del 7%; ma in futuro sarà sempre peggio, e non solo in Belgio. Uno studio sull’eutanasia infantile uscito nel 2020 sul Journal of medical ethics and history of medicine a cura degli studiosi iraniani Madjid Soltani Gerdfaramarzi e Shabnam Bazmi, realizzato considerando l’evoluzione della situazione «in diversi Paesi europei come Svizzera, Germania, Italia, Regno Unito, Francia, Paesi Bassi, Svezia e Spagna», ha inoltre trovato che «i neonatologi hanno riferito che la sospensione delle terapie intensive, la sospensione della ventilazione meccanica o dei farmaci salvavita e il coinvolgimento dei genitori nei processi decisionali sono diventati più accettabili con il passare del tempo, indicativi di un cambiamento di tendenza». L’Europa era nata plasmata da quella cultura cristiana che aveva proprio nella condanna nell’infanticidio e nella difesa della vita nascente il suo tratto distintivo, rispetto al mondo antico. Oggi però il Vecchio Continente si sta secolarizzando e lo spettro di civiltà remote, che eliminavano i neonati deformi o non abbastanza sani, bussa di nuovo alle sue porte.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/chi-vuol-male-ai-bambini-2666237893.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="laborto-in-america-e-un-business-che-vale-fino-a-500-milioni-lanno" data-post-id="2666237893" data-published-at="1699782734" data-use-pagination="False"> L’aborto in America è un business che vale fino a 500 milioni l’anno Tra i motivi che oggi rendono intoccabile l’aborto procurato non c’è solo l’autodeterminazione della donna. Quello è l’argomento più utilizzato e senza dubbio più efficace; ma dietro c’è dell’altro. Che cosa? Un colossale giro d’affari. L’esempio più lampante è quello degli Stati Uniti. Ogni anno l’America spende circa 260 milioni di dollari in fondi del Titolo X per la pianificazione familiare per persone a basso reddito, e Planned Parenthood (Pp) – il colosso che gestisce innumerevoli cliniche per gli aborti - è enorme beneficiario di quei fondi, dato che ne intasca una parte che oscilla tra i 50 ed i 60 milioni. C’è inoltre da tenere presente come da quelle parti, a differenza che in Italia, l’aborto non sia rimborsato dallo Stato. Quindi abortire costa. Quanto? Mediamente tra i 200 e i 500 dollari. Ora, se consideriamo che ogni anno gli aborti negli Usa sono oltre 1 milione e che la sola Pp ne è responsabile per oltre 330.000 all’anno, facendo un rapido calcolo possiamo dire che il business dell’aborto vale negli Usa tra i 200 e i 500 milioni di dollari (quindi potenzialmente mezzo miliardo); di cui per la sola Pp tra i 65 e i 165 milioni di dollari. Il punto è che, per quanto impressionanti, questi sono e restano comunque numeri al ribasso. Basti pensare che, solo nel 2014, Warren Buffett, tra i più ricchi d’America e del mondo, aveva destinato oltre un miliardo di dollari all’industria dell’aborto. Sempre dai dati riferiti a quell’anno del Guttmacher Institute - ovvero il braccio di ricerca di Pp - sommando gli introiti degli aborti del primo trimestre con quelli del secondo e terzo, viene fuori che ogni anno negli Stati Uniti l’industria dell’aborto porta circa 900 milioni di dollari alle cliniche. Non è finita. Si debbono considerare pure i circa 337 milioni di dollari che, complessivamente, Pp riceve ogni anno in contributi pubblici. Dunque l’importo annuo del sistema abortivo americano, alla fine, supera di molto il miliardo di dollari. Certo, la sentenza Dobbs contro Jackson Women’s Health Organization con cui la Corte Suprema, il 24 giugno 2022, ha negato il rango costituzionale del diritto di abortire ha inflitto una seria batosta al business dell’aborto – che però resta indubitabilmente florido. E in Italia? Da noi, lo sappiamo, l’intervento abortivo è interamente a carico dello Stato. Le gestanti cioè non lo pagano: i contribuenti però sì, e pure bene. Con quali costi? Una stima plausibile l’ha elaborata Benedetto Rocchi, presidente dell’Osservatorio permanente sull’aborto (Opa) e docente dell’università di Firenze, predisponendo il Rapporto sui costi e sugli effetti sulla salute della legge 194, che prevede l’aborto effettuato con metodo chirurgico, o con metodo farmacologico, entro i primi 90 giorni di gestazione per motivi di salute. Secondo Rocchi, che ha presentato il suo report lo scorso giugno, «se capitalizziamo tutti i soldi che lo Stato italiano ha speso nei 42 anni di implementazione della legge in un’unica cifra, in totale abbiamo speso circa 12 miliardi di euro». Solo nel 2020 la spesa è stata di 60 milioni di euro. «La cifra spesa in un anno può sembrare non importante rispetto al budget della sanità», ha evidenziato al riguardo il docente, «ma consideriamo questo: quei 60 milioni di euro sarebbero bastati a colmare la povertà sanitaria di 100.000 persone sotto la soglia di povertà rispetto alla media nazionale, quindi, in realtà, è una cifra importante». Decisamente.
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Margherita Agnelli (Ansa)