2021-11-22
Cesare Mirabelli: «Lockdown per non vaccinati? È un lazzaretto domestico»
Cesare Mirabelli (Ansa-IStock)
L'ex presidente della Corte costituzionale: «Stop allo stato di emergenza. Due anni sono sufficienti. È ora di tornare a strumenti ordinari pure in situazioni straordinarie».«Basta emergenza: rischiamo di abituarci all'eccezionalità. E questo, in futuro, potrebbe essere un pericolo per tutti». Cesare Mirabelli, ex presidente della Corte costituzionale e docente universitario di diritto ecclesiastico, è uno dei giuristi più apprezzati (e ascoltati) del panorama italiano. Il lockdown per non vaccinati? Mirabelli lo respinge, arrivando a definirlo un «lazzaretto domestico». E riconosce che certe consuetudini di governo potrebbero, a lungo andare, produrre effetti nefasti. In un'epoca in cui la Costituzione è stata stirata forse più del dovuto, urge sapere fin dove ci si può spingere, nella limitazione delle libertà fondamentali. Partiamo dalla «ricetta austriaca». Vienna reintroduce il lockdown, e in futuro prevede restrizioni solo per i non vaccinati. In Italia ministri e governatori spingono per prendere l'Austria a modello, immaginando l'ennesimo giro di vite. Pensa che il pugno duro asburgico possa essere importato in Italia senza colpo ferire?«Un lockdown solo per i non vaccinati risulterebbe una misura discriminatoria. Tenere chi non si vaccina fuori dalla vita sociale e lavorativa non sarebbe una soluzione accettabile. Diverso è il discorso se parliamo di singole misure isolate, per evitare eccessivo affollamento di persone: ma sarebbe comunque una scelta di difficile applicazione. E in ogni caso ogni provvedimento deve essere temporaneo e proporzionato rispetto al fine che vuole raggiungere». Misura discriminatoria? Significa che i non vaccinati chiusi in casa potrebbero fare ipoteticamente ricorso e vincerlo? «La tutela giudiziaria è sempre possibile. Anche se finora a livello giudiziario si è ritenuto che i provvedimenti del governo fossero sempre giustificati per ragioni superiori di salute pubblica». E il suo parere personale? «I governi utilizzano diversi strumenti per fronteggiate un'emergenza sanitaria di dimensioni mai viste. Ma se la soluzione è il lockdown selettivo, a questo punto mi chiedo se non sia preferibile introdurre un vero obbligo vaccinale». Obbligo? Come promettono di fare gli austriaci da febbraio del prossimo anno? «Ci sono gli estremi per introdurlo, ma dovrebbe ovviamente essere varato con una legge. Inoltre dovrebbero essere previsti indennizzi in caso di danni da vaccino. E questo principio in realtà non dovrebbe valere solo in caso di obbligatorietà vaccinale, ma anche laddove la scelta sia “indotta", come avviene nella situazione attuale». Gli austriaci parlano di grave urgenza, ma prevedono l'obbligo solo da febbraio. Un po' come il nostro green pass nei luoghi di lavoro, la cui entrata in vigore non è stata immediata. Se l'emergenza si impone, perché certi provvedimenti vengono dilazionati nel tempo? Forse per esercitare una pressione psicologica?«Dipende tutto dalla gravità delle condizioni epidemiologiche. Una dilazione potrebbe essere giustificata dalle previsioni dell'andamento della pandemia. Ma la chiave sta sempre nel concetto di “ragionevole giustificazione"». Ecco, le sembra ragionevole prolungare ulteriormente lo stato d'emergenza? «Questo può essere davvero un problema. Lo stato d'emergenza è una situazione realmente straordinaria, è pensato per durare un anno con possibile proroga di un altro anno. Consente di attribuire poteri straordinari al governo, nominare commissari con poteri eccezionali, ed è modulato sulla base dell'esperienza delle calamità naturali: terremoti, inondazioni, eventi che solitamente si esauriscono nel breve periodo». E oggi?«Del tutto nuova l'esperienza di un'epidemia universale, che di fatto rischia di essere permanente finché non è completamente debellata. E mi chiedo se non sia il caso di tornare agli strumenti ordinari anche per affrontare situazioni straordinarie». Pensa dunque che i poteri emergenziali non siano più indispensabili? «Occorre ricondurre all'uso di strumenti ordinari il modo di fronteggiare il problema. Prolungare indefinitamente una situazione eccezionale rischia di presentare elementi di criticità». Criticità? Intende dire che l'emergenza che diventa normalità può corrodere le fondamenta democratiche? «Il rischio è che si instauri una consuetudine di strumenti eccezionali e di limitazioni profonde alle libertà della persona. Limitazioni alle relazioni, alla partecipazione, alla comunicazione e al movimento». E a cosa condurrebbe questa «consuetudine» di strumenti eccezionali?«Voglio essere chiaro: oggi non vedo pericoli per lo stato democratico. Il godimento dei diritti di libertà è forte, come del resto le garanzie giurisdizionali».Tuttavia? «Tuttavia, se in futuro dovesse manifestarsi un qualche spirito autoritario, questa abitudine a sopportare limitazioni alla libertà potrebbe costituire un rischio utilizzabile in quella prospettiva. Il rischio di trovarsi di fronte a uno stato di “polizia sanitaria"». Molti osservatori, come Massimo Cacciari, lamentano che da dieci anni non facciamo che passare da un'emergenza all'altra: economica, terroristica, sanitaria. Viviamo in una democrazia «in apnea»?«Ripeto, sul piano giuridico mi piacerebbe tornare all'ordinarietà. Avverto un bisogno di normalità. L'esperienza della pandemia, peraltro, potrebbe costituire l'occasione per mettere a punto una migliore legislazione di sistema in ambito sanitario. Per il resto, mi azzardo a dire che la democrazia non viene difesa dalle norme, ma in primo luogo dalle persone e dalla consapevolezza collettiva». Dunque? «Dunque Cacciari fa benissimo a richiamare l'attenzione su questi temi. Chiunque inviti a riflettere sullo stato di salute della democrazia, compie un'opera meritoria». Mi pare che giriamo sempre intorno allo stesso concetto: obbligo vaccinale, durata dei tamponi, lockdown, stato d'emergenza. Tutto ruota intorno al principio di «ragionevolezza». Ma la ragionevolezza si basa sui dati che abbiamo sul tavolo. Oggi disponiamo di una corretta informazione sui dati di contagi e ricoveri? «Alla base della correttezza delle scelte c'è effettivamente la bontà della valutazione dei dati, che pure può ammettere qualche margine d'errore. Ma è nell'interesse delle stesse istituzioni e del buon rapporto con i cittadini saper offrire una conoscenza dei dati esaustiva e non allarmistica». Esaustiva, e magari anche più comprensibile? «Qui parlo da cittadino e non da giurista. Devo ammettere che siamo inondati da valutazioni contraddittorie da tecnici e scienziati. Non voglio limitare la libertà di espressione di nessuno, ma forse una maggiore attenzione nelle analisi e nella comunicazione delle informazioni aiuterebbe a incentivare comportamenti corretti». Lei ha dichiarato che i dati diffusi sono spesso numeri aggregati, cioè sintetici, mentre avremmo bisogno di informazioni più complete. Da questo punto di vista il Parlamento, con i suoi poteri ispettivi, dovrebbe tornare protagonista?«Il Parlamento deve essere protagonista in ogni senso. Potrebbe discutere in maniera più stringente i provvedimenti governativi. Piccoli progressi dall'inizio della crisi ce ne sono stati: i primi provvedimenti emergenziali non venivano neanche comunicati alle Camere. Ma forse il lavoro delle commissioni parlamentari potrebbe essere più incisivo. Forse sarebbe opportuno costituire una commissione parlamentare congiunta, tra Camera e Senato, con il compito di seguire appositamente le mosse del governo, per una attenta e immediata lettura dei suoi provvedimenti». E i rapporti Stato-Regioni, come sono cambiati? «Se si osserva l'evoluzione degli eventi, si è passati da una conflittualità molto forte, con una fuga in avanti delle Regioni, a una condizione di maggiore serenità. E questo dopo che la Consulta ha deciso che le misure sanitarie sono di competenza statale». Fino all'introduzione dell'obbligo, formalmente esiste libertà di scelta sul vaccino. Che ne pensa di chi vorrebbe negare le cure ospedaliere ai non vaccinati?«Negare le cure a talune categorie è certamente contrario alla Costituzione. Sarebbe come non curare i fumatori perché scelgono di rovinarsi i polmoni». Resta il fatto che chi sceglie di rifiutare il green pass, o ripiega sul tampone, viene colpito da una condanna morale: è accettabile? «Oggi la vaccinazione non è obbligatoria: è un dovere di tipo morale, nonché un onere per lo svolgimento di una serie di attività. Ma detto questo, ogni scelta va rispettata».
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Dopo l'apertura dei lavori affidata a Maurizio Belpietro, il clou del programma vedrà il direttore del quotidiano intervistare il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, chiamato a chiarire quali regole l’Italia intende adottare per affrontare i prossimi anni, tra il ruolo degli idrocarburi, il contributo del nucleare e la sostenibilità economica degli obiettivi ambientali. A seguire, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, offrirà la prospettiva di un territorio chiave per la competitività del Paese.
La transizione non è più un percorso scontato: l’impasse europea sull’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni al 2040, le divisioni tra i Paesi membri, i costi elevati per le imprese e i nuovi equilibri geopolitici stanno mettendo in discussione strategie che fino a poco tempo fa sembravano intoccabili. Domande cruciali come «quale energia useremo?», «chi sosterrà gli investimenti?» e «che ruolo avranno gas e nucleare?» saranno al centro del dibattito.
Dopo l’apertura istituzionale, spazio alle testimonianze di aziende e manager. Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, dialogherà con Belpietro sulle opportunità di sviluppo del settore energetico italiano. Seguiranno gli interventi di Maria Rosaria Guarniere (Terna), Maria Cristina Papetti (Enel) e Riccardo Toto (Renexia), che porteranno la loro esperienza su reti, rinnovabili e nuova «frontiera blu» dell’offshore.
Non mancheranno case history di realtà produttive che stanno affrontando la sfida sul campo: Nicola Perizzolo (Barilla), Leonardo Meoli (Generali) e Marzia Ravanelli (Bf spa) racconteranno come coniugare sostenibilità ambientale e competitività. Infine, Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente alla Bocconi, analizzerà il ruolo decisivo della finanza in un percorso che richiede investimenti globali stimati in oltre 1.700 miliardi di dollari l’anno.
Un confronto a più voci, dunque, per capire se la transizione energetica potrà davvero essere la leva per un futuro più sostenibile senza sacrificare crescita e lavoro.
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