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2022-06-28
Cercava di smentire «La Verità». L’Iss finisce per smentire sé stesso
Sono ben 27 i funzionari che ogni settimana lavorano al Bollettino epidemiologico dell’Istituto superiore di sanità (Iss), che da oltre due anni informa i cittadini sull’andamento della pandemia. La scorsa settimana li abbiamo tenuti impegnati dedicando due articoli all’«efficacia negativa» dei vaccini, stranamente non raccontata con chiarezza dal bollettino, ma evidente leggendo i semplici dati, sia sulle terze dosi per quasi tutte le fasce di età che sulla vaccinazione nei bambini tra i 5 e gli 11 anni. Il giorno dopo, l’Iss ha pubblicato un’interessante nota, collocata nella sezione «Fake news», nella quale riprende il tema dell’efficacia negativa sollevato dalla Verità affrontandola con un lapidario: «Falso».
«Il fatto che siano presenti alcuni dati apparentemente incongruenti è da attribuire ad alcuni limiti intrinseci dell’analisi», ammette subito l’Iss. Dunque il problema è nel metodo usato dall’Iss? L’Istituto sostiene che i valori riportati dalla Verità non sono corretti perché non tengono conto di fattori di bias quali la diversa composizione dei gruppi confrontati rispetto a parametri come la precedente infezione asintomatica (leggi: guariti), o la mancata notifica di positività (gente che per paura della quarantena non dichiara di essere positiva). Ma sono i limiti della loro stessa analisi, che l’Iss usa da oltre un anno e mezzo. La Verità, infatti, non ha fatto altro che affiancare dati, non «rielaborati» ma riportati dallo stesso Iss con la metodologia contestata dall’Istituto medesimo. Abbiamo infatti riportato i dati all’interno della categoria dei vaccinati (tridosati rispetto a vaccinati con due dosi da più di 120 giorni) anziché compararli con i non vaccinati, comparazione attraverso la quale l’Istituto ha spinto alla vaccinazione. Il debunking dell’Iss, dunque, appare più un autogol contro il suo stesso metodo.
Quella dell’efficacia è una formula statistica, non medica, di cui deve tener conto qualsiasi produttore di farmaci. Del fatto che ci fosse un’efficacia negativa se ne parlava da tempo: è un valore che si calcola con una formula. Se vogliamo ad esempio usare il metodo Iss per stimare l’efficacia del booster sulla fascia 12-39 anni rispetto alla vaccinazione con due dosi da più di 120 giorni senza booster, basta fare due conti banali. Si tratta di un’equazione di primo grado (sulla base della formula 1 meno il rapporto tra i rischi, quindi rischio con due dosi da più di 120 giorni rispetto a rischio booster). Il risultato dà, per il contagio, un’efficacia dell’1,5%, e per la malattia severa un misero 12,6%. Un valore ben inferiore a quel 50% richiesto da Fda come soglia minima per considerare un vaccino clinicamente rilevante e di conseguenza raccomandarne l’approvazione.
Maurizio Rainisio, statistico che ha lavorato nella ricerca clinica e nell’epidemiologia per molte grandi industrie farmaceutiche tra cui Novartis e Roche, spiega: «L’Istituto superiore di sanità usa un certo metodo per calcolare l’efficacia del vaccino rispetto al non vaccino. Perché la stessa formula usata per dimostrare che il vaccino “funziona” rispetto ai non vaccinati non dovrebbe essere valida per paragonare i vaccinati con booster rispetto ai vaccinati da più di 120 giorni?». Non solo: «L’Iss non usa una media mobile», spiega Rainisio, «e dunque mette nello stesso calderone i dati di gennaio con quelli di adesso. Avrebbe più senso considerare una media mobile su un periodo più breve, per esempio 4 settimane». Molte lacune, insomma, riscontrabili anche nei calcoli fatti a mano (a volte il mese è preceduto dallo zero, a volte no). «Ciò che colpisce», rileva lo statistico, «sono i bias di calcolo. La metodologia criticata dall’Iss nella nota del 22 giugno è la stessa utilizzata dal medesimo Istituto per poter affermare che “in Italia grazie ai vaccini sono stati evitati 8 milioni di casi e 150.000 morti”: sconfessare il proprio metodo significa sconfessare tutto ciò che lo stesso Iss ha dichiarato finora».
Ad esempio, le evidenze sulla vaccinazione ai bambini tra i 5 e gli 11 anni: l’Iss non le commenta scrivendo che per questa fascia di età «ancora non è possibile fornire la stima del rischio relativo, dato che la vaccinazione di questo gruppo di età è iniziata il 16 dicembre». Eppure, dal 16 dicembre sono passati ben 6 mesi e i dati che risultano usando il metodo Iss forse non piacciono, ma sono disponibili. Basta leggere la tabella 4 dell’ultimo bollettino per calcolare l’efficacia del vaccino completo da meno di 120 giorni rispetto al non-vaccino in un clamoroso -30,8%. Qui non si parla più di booster rispetto alle «sole» due dosi, ma di efficacia tout court del vaccino sui bambini, e risulta sottozero.
Se la situazione è questa, come faremo ad affrontare l’autunno senza temere che siano adottate decisioni non adeguate? Secondo Rainisio, «l’Istituto dovrebbe fare un’analisi più accurata, tenendo conto dei fattori concomitanti di cui loro stessi parlano. Nell’elaborazione della tabella 6, calcolata su un modello corretto, ma troppo semplice, dovrebbero inserire ad esempio i guariti (vaccinati e non) e il livello di rischio (in base alle patologie concomitanti)». Di sicuro, La Verità è riuscita a strappare la promessa di un approccio auspicabilmente più credibile per tutte le stime sull’efficacia del vaccino: «È in corso una revisione della modalità di analisi dei dati di efficacia», ha scritto l’Iss a conclusione della sua nota. Finalmente ci siamo arrivati.
«Più miocarditi mescolando le dosi»
Nuovi dati sul rischio di mio e pericarditi in seguito alla somministrazione di vaccini anti Covid a mRna, oltre a confermare che è più elevato nei giovani uomini, segnalano almeno due questioni da non sottovalutare.
La probabilità di infiammazione cardiaca si riduce drasticamente se, in questa popolazione, si aumenta l’intervallo di tempo tra le dosi ma, soprattutto - a differenza di quanto finora indicato - il rischio si abbassa ulteriormente se si evita la somministrazione di vaccini diversi (eterologa). Sono i risultati di uno studio canadese realizzato in Ontario su 14,7 milioni di persone e appena pubblicato sul Journal of american medical association (Jama). In linea con quanto già noto, dei 297 casi in cui si è manifestata la miocardite, 228 (76,8%) erano maschi di età tra 18 e 24 anni e in 207 (69,7%) il problema si è presentato dopo la seconda dose di vaccino a mRna. In particolare, nel caso di due dosi di Moderna (Spikevax), i casi sono stati 299,5 per milione: cinque volte di più dei 59,2 di Comirnaty (Pfizer). Nei ragazzi tra i 12 e 17 anni il tasso era più elevato, ma si riferisce solo al prodotto Pfizer: quello di Moderna, durante lo studio, non era autorizzato in Canada in questa popolazione. La maggior parte dei pazienti (97,6%) si è rivolto al pronto soccorso, il 70,7% ha avuto bisogno del ricovero in ospedale e 14 sono andati in terapia intensiva (4,7%). La cosa interessante è che, nel gruppo di uomini dell’Ontario, se l’intervallo tra le due dosi passava da quattro a otto settimane, il rischio quasi si dimezzava (132,5 per milione di seconde dosi con Moderna), ma era notevolmente ridotto a 11,1 casi con Comirnaty. Questo andamento si è confermato, con tassi inferioiri, anche nella popolazione generale.
Lo studio canadese mette in discussione anche l’utilità di cambiare vaccino tra le dosi, cosa avvenuta in Italia soprattutto tra seconda e terza inoculazione - in coincidenza con l’arrivo massiccio del vaccino Moderna, dopo che le prime erano state fatte con Pfizer e Astrazeneca in over 70 - e motivata con un aumento di efficacia (effetto noto, con i vaccini tradizionali). Nel caso dei prodotti a mRna, i ricercatori del Canada, hanno notato che la scelta di usare il prodotto di Pfizer per la prima dose e quello di Moderna per la seconda aumentava il tasso di miocardite rispetto alle due dosi del solo prodotto di Moderna.
Sul maggior rischio di miocardite nei giovani uomini vaccinati con Moderna concorda anche una ricerca francese appena pubblicata su Nature e amplia l’età anche al di sopra dei 30 anni, ma questo studio considerava solo i pazienti ricoverati (nello studio canadese era solo il 30%). A tal proposito, si ricorda che un lavoro scandinavo su 23 milioni di soggetti e pubblicato ad aprile su Jama, arrivava alle stesse conclusioni per i ragazzi tra 16 e 24 anni, ma in questi, il rischio di miocardite non solo è risultato solo più elevato, in seguito alla somministrazione di un vaccino Moderna rispetto a un vaccino Pfizer; per la prima volta, era maggiore di quello associato all’infezione da Sars-Cov2: cinque volte più alto per Pfizer e 15 per Moderna, rispetto ai non vaccinati.
Tutti gli autori degli studi chiedono ulteriori dati e invitano le istituzioni a valutare attentamente i rischi di miocardite, anche se rari, dovuti alla vaccinazione rispetto a quelli attesi dall’infezione Covid, in base al tipo di prodotto, all’età - vista l’autorizzazione anche nei neonati - al sesso e allo stato di salute. Al ministero però, attualmente, sembrano più impegnati a smaltire le dosi stoccate e pagate.
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Senza citarci, l’ente replica a un articolo sull’efficacia negativa dei vaccini. Ma per farlo, spiega che sono i suoi stessi dati ad avere «limiti intrinseci». Peccato che su quella base abbia sponsorizzato le iniezioni.Uno studio canadese mostra un aumento di reazioni in chi ha ricevuto gli «shot» con Pfizer e poi con Moderna. Che secondo «Nature» crea più problemi cardiaciLo speciale contiene due articoliSono ben 27 i funzionari che ogni settimana lavorano al Bollettino epidemiologico dell’Istituto superiore di sanità (Iss), che da oltre due anni informa i cittadini sull’andamento della pandemia. La scorsa settimana li abbiamo tenuti impegnati dedicando due articoli all’«efficacia negativa» dei vaccini, stranamente non raccontata con chiarezza dal bollettino, ma evidente leggendo i semplici dati, sia sulle terze dosi per quasi tutte le fasce di età che sulla vaccinazione nei bambini tra i 5 e gli 11 anni. Il giorno dopo, l’Iss ha pubblicato un’interessante nota, collocata nella sezione «Fake news», nella quale riprende il tema dell’efficacia negativa sollevato dalla Verità affrontandola con un lapidario: «Falso».«Il fatto che siano presenti alcuni dati apparentemente incongruenti è da attribuire ad alcuni limiti intrinseci dell’analisi», ammette subito l’Iss. Dunque il problema è nel metodo usato dall’Iss? L’Istituto sostiene che i valori riportati dalla Verità non sono corretti perché non tengono conto di fattori di bias quali la diversa composizione dei gruppi confrontati rispetto a parametri come la precedente infezione asintomatica (leggi: guariti), o la mancata notifica di positività (gente che per paura della quarantena non dichiara di essere positiva). Ma sono i limiti della loro stessa analisi, che l’Iss usa da oltre un anno e mezzo. La Verità, infatti, non ha fatto altro che affiancare dati, non «rielaborati» ma riportati dallo stesso Iss con la metodologia contestata dall’Istituto medesimo. Abbiamo infatti riportato i dati all’interno della categoria dei vaccinati (tridosati rispetto a vaccinati con due dosi da più di 120 giorni) anziché compararli con i non vaccinati, comparazione attraverso la quale l’Istituto ha spinto alla vaccinazione. Il debunking dell’Iss, dunque, appare più un autogol contro il suo stesso metodo.Quella dell’efficacia è una formula statistica, non medica, di cui deve tener conto qualsiasi produttore di farmaci. Del fatto che ci fosse un’efficacia negativa se ne parlava da tempo: è un valore che si calcola con una formula. Se vogliamo ad esempio usare il metodo Iss per stimare l’efficacia del booster sulla fascia 12-39 anni rispetto alla vaccinazione con due dosi da più di 120 giorni senza booster, basta fare due conti banali. Si tratta di un’equazione di primo grado (sulla base della formula 1 meno il rapporto tra i rischi, quindi rischio con due dosi da più di 120 giorni rispetto a rischio booster). Il risultato dà, per il contagio, un’efficacia dell’1,5%, e per la malattia severa un misero 12,6%. Un valore ben inferiore a quel 50% richiesto da Fda come soglia minima per considerare un vaccino clinicamente rilevante e di conseguenza raccomandarne l’approvazione. Maurizio Rainisio, statistico che ha lavorato nella ricerca clinica e nell’epidemiologia per molte grandi industrie farmaceutiche tra cui Novartis e Roche, spiega: «L’Istituto superiore di sanità usa un certo metodo per calcolare l’efficacia del vaccino rispetto al non vaccino. Perché la stessa formula usata per dimostrare che il vaccino “funziona” rispetto ai non vaccinati non dovrebbe essere valida per paragonare i vaccinati con booster rispetto ai vaccinati da più di 120 giorni?». Non solo: «L’Iss non usa una media mobile», spiega Rainisio, «e dunque mette nello stesso calderone i dati di gennaio con quelli di adesso. Avrebbe più senso considerare una media mobile su un periodo più breve, per esempio 4 settimane». Molte lacune, insomma, riscontrabili anche nei calcoli fatti a mano (a volte il mese è preceduto dallo zero, a volte no). «Ciò che colpisce», rileva lo statistico, «sono i bias di calcolo. La metodologia criticata dall’Iss nella nota del 22 giugno è la stessa utilizzata dal medesimo Istituto per poter affermare che “in Italia grazie ai vaccini sono stati evitati 8 milioni di casi e 150.000 morti”: sconfessare il proprio metodo significa sconfessare tutto ciò che lo stesso Iss ha dichiarato finora». Ad esempio, le evidenze sulla vaccinazione ai bambini tra i 5 e gli 11 anni: l’Iss non le commenta scrivendo che per questa fascia di età «ancora non è possibile fornire la stima del rischio relativo, dato che la vaccinazione di questo gruppo di età è iniziata il 16 dicembre». Eppure, dal 16 dicembre sono passati ben 6 mesi e i dati che risultano usando il metodo Iss forse non piacciono, ma sono disponibili. Basta leggere la tabella 4 dell’ultimo bollettino per calcolare l’efficacia del vaccino completo da meno di 120 giorni rispetto al non-vaccino in un clamoroso -30,8%. Qui non si parla più di booster rispetto alle «sole» due dosi, ma di efficacia tout court del vaccino sui bambini, e risulta sottozero.Se la situazione è questa, come faremo ad affrontare l’autunno senza temere che siano adottate decisioni non adeguate? Secondo Rainisio, «l’Istituto dovrebbe fare un’analisi più accurata, tenendo conto dei fattori concomitanti di cui loro stessi parlano. Nell’elaborazione della tabella 6, calcolata su un modello corretto, ma troppo semplice, dovrebbero inserire ad esempio i guariti (vaccinati e non) e il livello di rischio (in base alle patologie concomitanti)». Di sicuro, La Verità è riuscita a strappare la promessa di un approccio auspicabilmente più credibile per tutte le stime sull’efficacia del vaccino: «È in corso una revisione della modalità di analisi dei dati di efficacia», ha scritto l’Iss a conclusione della sua nota. 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Sono i risultati di uno studio canadese realizzato in Ontario su 14,7 milioni di persone e appena pubblicato sul Journal of american medical association (Jama). In linea con quanto già noto, dei 297 casi in cui si è manifestata la miocardite, 228 (76,8%) erano maschi di età tra 18 e 24 anni e in 207 (69,7%) il problema si è presentato dopo la seconda dose di vaccino a mRna. In particolare, nel caso di due dosi di Moderna (Spikevax), i casi sono stati 299,5 per milione: cinque volte di più dei 59,2 di Comirnaty (Pfizer). Nei ragazzi tra i 12 e 17 anni il tasso era più elevato, ma si riferisce solo al prodotto Pfizer: quello di Moderna, durante lo studio, non era autorizzato in Canada in questa popolazione. La maggior parte dei pazienti (97,6%) si è rivolto al pronto soccorso, il 70,7% ha avuto bisogno del ricovero in ospedale e 14 sono andati in terapia intensiva (4,7%). La cosa interessante è che, nel gruppo di uomini dell’Ontario, se l’intervallo tra le due dosi passava da quattro a otto settimane, il rischio quasi si dimezzava (132,5 per milione di seconde dosi con Moderna), ma era notevolmente ridotto a 11,1 casi con Comirnaty. Questo andamento si è confermato, con tassi inferioiri, anche nella popolazione generale. Lo studio canadese mette in discussione anche l’utilità di cambiare vaccino tra le dosi, cosa avvenuta in Italia soprattutto tra seconda e terza inoculazione - in coincidenza con l’arrivo massiccio del vaccino Moderna, dopo che le prime erano state fatte con Pfizer e Astrazeneca in over 70 - e motivata con un aumento di efficacia (effetto noto, con i vaccini tradizionali). Nel caso dei prodotti a mRna, i ricercatori del Canada, hanno notato che la scelta di usare il prodotto di Pfizer per la prima dose e quello di Moderna per la seconda aumentava il tasso di miocardite rispetto alle due dosi del solo prodotto di Moderna. Sul maggior rischio di miocardite nei giovani uomini vaccinati con Moderna concorda anche una ricerca francese appena pubblicata su Nature e amplia l’età anche al di sopra dei 30 anni, ma questo studio considerava solo i pazienti ricoverati (nello studio canadese era solo il 30%). A tal proposito, si ricorda che un lavoro scandinavo su 23 milioni di soggetti e pubblicato ad aprile su Jama, arrivava alle stesse conclusioni per i ragazzi tra 16 e 24 anni, ma in questi, il rischio di miocardite non solo è risultato solo più elevato, in seguito alla somministrazione di un vaccino Moderna rispetto a un vaccino Pfizer; per la prima volta, era maggiore di quello associato all’infezione da Sars-Cov2: cinque volte più alto per Pfizer e 15 per Moderna, rispetto ai non vaccinati. Tutti gli autori degli studi chiedono ulteriori dati e invitano le istituzioni a valutare attentamente i rischi di miocardite, anche se rari, dovuti alla vaccinazione rispetto a quelli attesi dall’infezione Covid, in base al tipo di prodotto, all’età - vista l’autorizzazione anche nei neonati - al sesso e allo stato di salute. Al ministero però, attualmente, sembrano più impegnati a smaltire le dosi stoccate e pagate.
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Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
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Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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