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2022-08-29
La vera Mission impossible: trovare un medico
AAA Cercasi dottore disperatamente. La salute non va in vacanza ma mai come in questa estate ammalarsi è un problema. La mancanza di medici non è una novità ma ora si sono sommati i buchi creati dai pensionamenti e dalle assenze per smaltire le ferie accumulate durante l’emergenza pandemica. Un corto circuito innescato dal ritorno in massa dei pazienti dopo due anni di cure con il contagocce. E si è arrivati al paradosso di importare medici dall’estero. Dall’Ucraina ne sono arrivati 250 e altri 100 dall’Albania. Ma il caso più eclatante è il reclutamento, deciso dal presidente della regione Calabria, Roberto Occhiuto, di 500 camici bianchi provenienti da Cuba. Il governatore di centrodestra ha spiegato che diversi bandi di concorso a tempo indeterminato sono andati deserti, tesi però smentita da associazioni sindacali e personale medico che non avrebbero mai saputo di esami per il reclutamento.
Come mai, appena si sono aperte le porte del pensionamento, tanti medici hanno colto la palla al balzo per andarsene? Come mai un posto in ospedale, specie al Sud, è precipitato nelle aspirazioni di un giovane laureato? E quanto ha inciso la selvaggia «spending review» degli ultimi dieci anni che ha tagliato i posti nelle specializzazioni? L’Anaao Assomed, il sindacato dei medici ospedalieri, ha calcolato che tra ospedali, pronto soccorso e medici di famiglia, mancano circa 18.500 camici bianchi. La situazione più critica, è quella dei pronto soccorso dove, alle emergenze quotidiane, si aggiunge l’esercito dei malati che non potendo rinviare ancora le cure, dopo lo stop del Covid, bussano agli ospedali per essere assistiti. E non possono permettersi uno specialista privato.
Gli ospedali sono entrati in affanno e il sovraffollamento ha coinciso con l’esodo dei medici. Secondo Anaao Assomed, ne mancano circa 4.500. Ma l’allarme riguarda in generale gli ospedali: sono 10.000 i posti vacanti. Gli organici ridotti all’osso costringono a turni massacranti, ad accumulare ferie che prima o poi andranno smaltite creando ulteriori vuoti. In sofferenza anche il servizio delle ambulanze dove i camici bianchi si sono ridotti del 50% negli ultimi dieci anni. La legge di bilancio ha stanziato 90 milioni per una indennità accessoria, ma è come una goccia nel deserto.
Si è anche assottigliato il numero dei medici di famiglia, il primo snodo di assistenza del servizio sanitario, che fino a qualche anno fa era un vanto della sanità italiana rispetto al resto d’Europa. Si contano circa 4.000 sedi vacanti su una categoria che ne conta complessivamente 40.000. Il fabbisogno riguarda sia piccoli centri montani e delle campagne, ma anche grandi città come Milano e Firenze. In alcune regioni, specie nel Nord, sono stati richiamati in servizio i pensionati. Per tamponare la situazione, i pazienti sono dirottati in studi che hanno raggiunto il massimo della capienza consentita per legge, cioè 1.500 assistiti.
Il problema non è la carenza di laureati in medicina: nei prossimi 10 anni, le università ne sforneranno circa 100.000, un numero più che sufficiente per le esigenze di turn over. Mancano invece gli specialisti, quelli che lavorano negli ospedali e in molte strutture del territorio. Una ricerca Eurostat dell’agosto 2020 evidenzia che l’Italia è il secondo Paese con più medici nella Ue: circa 240.000 su 1,7 milioni registrati nella Ue, dietro solo alla Germania che ne ha 357.000, il 21,1% del totale, e davanti alla Francia con 212.000. Ci sono 3,1 medici ogni 1.000 abitanti secondo l’Istat, il che ci colloca nella media europea.
Tuttavia, il numero di medici disponibili non si riflette negli organici della sanità pubblica. Gli ultimi dati del ministero della Salute (2017) sui camici bianchi nel Servizio sanitario nazionale indicano 1,7 medici ogni 1.000 abitanti. Essi scarseggiano perché, a partire dal governo Monti, la sanità ha subito pesanti tagli che hanno colpito in particolare le borse di specializzazione. Va considerato anche che, come stima l’Anaao, solo il 66% degli specialisti sceglie il servizio pubblico, i restanti lavorano nella sanità privata o scelgono la libera professione. Un’opzione che consente di esercitare sia negli ospedali sia nelle cliniche, senza vincoli di esclusiva.Altro elemento è che alcune specializzazioni come la medicina d’urgenza non esercitano grande appeal sui laureati che preferiscono settori meno stressanti e più remunerativi.
Qualcosa è stato fatto per colmare i buchi negli organici ospedalieri. I contratti di formazione sono stati portati da 4.500 a 15.000, però produrranno effetti a lungo andare. Formare uno specialista richiede 4-5 anni e occorre quindi scontare un periodo in cui le strutture continueranno a essere in emergenza. Secondo Anaao, i circa 10.000 medici che oggi mancano all’appello negli ospedali saranno verosimilmente recuperati tra il 2024 e il 2028, quando entreranno nel sistema sanitario coloro che quest’anno iniziano la specializzazione.
Oltre a pensionamenti, turni stressanti e remunerazione considerata bassa in relazione all’impegno, recentemente è emerso un ultimo fattore che rende meno attrattivo il lavoro in ospedale: l’aumento delle aggressioni. Nella città metropolitana di Milano, da gennaio a maggio, sono stati denunciati 116 casi di attacchi al personale a fronte di 122 in tutto il 2021. Minacce e intimidazioni sono più che raddoppiate: da 22 casi lo scorso anno a 45 nei primi cinque mesi del 2022. Il fenomeno è generalizzato. Secondo la Fnopi (la federazione degli infermieri), le aggressioni fisiche colpiscono in media in un anno un terzo degli infermieri: circa 130.000 casi con un sommerso non denunciato all’Inail stimato in circa 125.000 casi l’anno.
«Schiacciati dalla burocrazia»
Anche per i medici di famiglia il Covid ha portato un sovraccarico di incombenze spesso burocratiche che ostacolano il funzionamento del sistema: lo dice Pier Luigi Bartoletti, vicesegretario nazionale della Fimmg, la federazione dei medici di famiglia.
La situazione dei medici di base è meno dura rispetto a quelli delle emergenze, eppure l’esodo c’è stato lo stesso. Come lo spiega?
«Le uscite erano attese, bastava guardare i dati anagrafici dei pensionamenti. Inattesi invece i prepensionamenti. La categoria è stata messa a dura prova dalla pandemia. Sui medici di famiglia si è scaricato il peso enorme della gestione del Covid. Sono stati in trincea per oltre due anni, dovendo affrontare una situazione di caos. Ora gli studi sono intasati da coloro che hanno ritardato o sospeso le cure durante la pandemia. E si parla di coinvolgere i medici di base per la quarta dose vaccinale. Molti colleghi, superata l’emergenza, hanno preferito anticipare il pensionamento nonostante le penalizzazioni economiche: anche perdendo un po’ di soldi, non hanno esitato e se ne sono andati. Nel Lazio pensavamo che nel 2022 saremmo rimasti in 4.000 da 4.800 che eravamo, con il pensionamento standard dei settantenni, invece siamo scesi a 3.800 unità. Ci sono stati casi di medici che se ne sono andati a 63 anni. Mi dicevano: non ce la faccio più. Il lavoro si è complicato».
Complicato in che senso?
«Siamo afflitti da una serie di passaggi burocratici che rallentano il lavoro».
Un esempio?
«Le priorità per le prescrizioni sulle ricette. Se indico che un paziente deve fare un accertamento entro una certa data ma questa non viene rispettata perché i tempi di attesa sono lunghi, il paziente finisce per dare la colpa a me. Il medico di base è al centro di un sistema che non funziona e diventa il terminale della rabbia dei cittadini. Se un paziente anziano ha un catetere che non funziona il sabato pomeriggio, a chi lo dico? C’è qualcuno che mi risponde al Cad, il Centro di assistenza domiciliare? Altro esempio: dimettono un paziente alle 17 del venerdì pomeriggio, spesso con prescrizioni varie. Il parente si rivolge a me per sapere cosa fare. Ma io sono costretto a rispondere che per attivare alcune procedure bisogna aspettare lunedì perché sabato e domenica è tutto chiuso. Questi casi sono aumentati in modo esponenziale e tanti colleghi non ne possono più».
In quali regioni si sentono le maggiori carenze di medici di base?
«Le regioni più sofferenti sono al Nord, soprattutto Lombardia, Liguria, Trentino. Qui fanno lavorare i pensionati. Anche in alcune aree del Lazio si prolunga l’attività oltre i 70 anni. Ma mentre negli anni passati era una costante chiedere di restare oltre l’età pensionabile, ora è un’eccezione. Nel Sud c’è più mobilità e tante persone vanno al Nord. In Calabria il numero di guardie mediche è altissimo, superiore al resto d’Italia».
«Meno soldi, meno visite private e i pazienti si riversano da noi»
«Al pronto soccorso del Cardarelli di Napoli, il più grande ospedale del Mezzogiorno, ci sono 22 medici: ne servirebbero altri 24. Nel 2019 ce n’erano 46. Nei pronto soccorso di tutta la Campania, di qui al 2025 mancheranno 800 camici bianchi, ora sono vacanti 420 posti. Servirebbero 1.400 letti in più per arrivare alla dotazione minima e garantire i livelli di assistenza». Maurizio Cappiello, vicesegretario Anaao Assomed della Campania e medico chirurgo al Cardarelli, sciorina numeri da incubo.
Come si è arrivati a questa situazione?
«I pensionamenti, rispetto alle carenze totali, sono una piccola quota. Un 15% dei medici è andato a lavorare nel settore privato, un 10% si è trasferito all’estero e il resto si è fatto spostare nei reparti di degenza ordinaria dove non c’è lo stress delle emergenze».
Si fugge dagli ospedali?
«Le condizioni di lavoro sono diventate insostenibili. I pronto soccorso stanno esplodendo. Negli ultimi sette anni a Napoli ne sono stati chiusi 5: Loreto Mare, San Giovanni Bosco, Santa Maria del Popolo degli Incurabili, San Gennaro, Ascalesi. Gli ospedali di San Gennaro e di Santa Maria del Popolo degli Incurabili non esistono più. È uno degli effetti del commissariamento della Regione Campania. Per risanare il bilancio si è preferito tagliare alcune strutture di emergenza con la promessa, mai mantenuta, di potenziarne altre. L’ospedale Cardarelli si è fatto carico dell’afflusso dei pronto soccorso chiusi. Non bisogna dimenticare inoltre che gli ospedali spesso sono usati come ammortizzatori sociali per le prestazioni non urgenti».
In che senso?
«Le liste d’attesa per la specialista si sono allungate con il Covid. Tanti pazienti hanno saltato le cure e ora, per recuperare, si rivolgono all’ospedale. Qui arrivano quanti non hanno le disponibilità economiche per pagare un medico privato o fare gli accertamenti nei laboratori di analisi. Questa massa di persone si somma alle urgenze quotidiane. Sempre più spesso la tensione sale e sono frequenti le aggressioni da parte dei parenti del malato che è in corsia in attesa del suo turno e rivendica la priorità anche su chi arriva con il codice rosso. Oltre il 20% delle aggressioni avvengono proprio nel pronto soccorso. Lavorare in queste condizioni è diventato molto faticoso oltre che rischioso. Al medico dovrebbe essere riconosciuto lo status di pubblico ufficiale. Ora l’aggressore è perseguibile solo su denuncia a meno che non vi siano lesioni tali da richiedere una prognosi di almeno 20 giorni. Ecco perché chi può va altrove. Pesa anche uno stipendio che è più basso della media europea».
Come si può arginare la fuga dei medici?
«Innanzitutto occorre aumentare il numero dei posti letto per ridurre il sovraffollamento. Va riformata l’assistenza in emergenza; un medico che al pronto soccorso fa tutto non è più possibile. E per ammortizzare i turni massacranti servirebbero più ferie».
Quanti giorni di riposo avete a disposizione?
«Oscillano tra 32 e 36 giorni l’anno ma non si riescono a soddisfare per carenza di personale. Chi è nelle strutture di emergenza dovrebbe averne 15 in più».
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Riduci
Mancano 18.500 camici bianchi, soprattutto nei pronto soccorso. Colpa di tagli, pensionamenti e liste d’attesa sempre più lunghe Risultato: turni massacranti e aggressioni di familiari esasperati.Il vicesegretario dei medici di famiglia Pier Luigi Bartoletti: «Scaricato su di noi il peso della gestione Covid, troppe procedure per ricette e tamponi. E ora ci tocca la campagna per la quarta dose».Il chirurgo del Cardarelli di Napoli Maurizio Cappiello: più posti letto per ridurre il sovraffollamento.Lo speciale contiene tre articoli.AAA Cercasi dottore disperatamente. La salute non va in vacanza ma mai come in questa estate ammalarsi è un problema. La mancanza di medici non è una novità ma ora si sono sommati i buchi creati dai pensionamenti e dalle assenze per smaltire le ferie accumulate durante l’emergenza pandemica. Un corto circuito innescato dal ritorno in massa dei pazienti dopo due anni di cure con il contagocce. E si è arrivati al paradosso di importare medici dall’estero. Dall’Ucraina ne sono arrivati 250 e altri 100 dall’Albania. Ma il caso più eclatante è il reclutamento, deciso dal presidente della regione Calabria, Roberto Occhiuto, di 500 camici bianchi provenienti da Cuba. Il governatore di centrodestra ha spiegato che diversi bandi di concorso a tempo indeterminato sono andati deserti, tesi però smentita da associazioni sindacali e personale medico che non avrebbero mai saputo di esami per il reclutamento. Come mai, appena si sono aperte le porte del pensionamento, tanti medici hanno colto la palla al balzo per andarsene? Come mai un posto in ospedale, specie al Sud, è precipitato nelle aspirazioni di un giovane laureato? E quanto ha inciso la selvaggia «spending review» degli ultimi dieci anni che ha tagliato i posti nelle specializzazioni? L’Anaao Assomed, il sindacato dei medici ospedalieri, ha calcolato che tra ospedali, pronto soccorso e medici di famiglia, mancano circa 18.500 camici bianchi. La situazione più critica, è quella dei pronto soccorso dove, alle emergenze quotidiane, si aggiunge l’esercito dei malati che non potendo rinviare ancora le cure, dopo lo stop del Covid, bussano agli ospedali per essere assistiti. E non possono permettersi uno specialista privato. Gli ospedali sono entrati in affanno e il sovraffollamento ha coinciso con l’esodo dei medici. Secondo Anaao Assomed, ne mancano circa 4.500. Ma l’allarme riguarda in generale gli ospedali: sono 10.000 i posti vacanti. Gli organici ridotti all’osso costringono a turni massacranti, ad accumulare ferie che prima o poi andranno smaltite creando ulteriori vuoti. In sofferenza anche il servizio delle ambulanze dove i camici bianchi si sono ridotti del 50% negli ultimi dieci anni. La legge di bilancio ha stanziato 90 milioni per una indennità accessoria, ma è come una goccia nel deserto. Si è anche assottigliato il numero dei medici di famiglia, il primo snodo di assistenza del servizio sanitario, che fino a qualche anno fa era un vanto della sanità italiana rispetto al resto d’Europa. Si contano circa 4.000 sedi vacanti su una categoria che ne conta complessivamente 40.000. Il fabbisogno riguarda sia piccoli centri montani e delle campagne, ma anche grandi città come Milano e Firenze. In alcune regioni, specie nel Nord, sono stati richiamati in servizio i pensionati. Per tamponare la situazione, i pazienti sono dirottati in studi che hanno raggiunto il massimo della capienza consentita per legge, cioè 1.500 assistiti. Il problema non è la carenza di laureati in medicina: nei prossimi 10 anni, le università ne sforneranno circa 100.000, un numero più che sufficiente per le esigenze di turn over. Mancano invece gli specialisti, quelli che lavorano negli ospedali e in molte strutture del territorio. Una ricerca Eurostat dell’agosto 2020 evidenzia che l’Italia è il secondo Paese con più medici nella Ue: circa 240.000 su 1,7 milioni registrati nella Ue, dietro solo alla Germania che ne ha 357.000, il 21,1% del totale, e davanti alla Francia con 212.000. Ci sono 3,1 medici ogni 1.000 abitanti secondo l’Istat, il che ci colloca nella media europea. Tuttavia, il numero di medici disponibili non si riflette negli organici della sanità pubblica. Gli ultimi dati del ministero della Salute (2017) sui camici bianchi nel Servizio sanitario nazionale indicano 1,7 medici ogni 1.000 abitanti. Essi scarseggiano perché, a partire dal governo Monti, la sanità ha subito pesanti tagli che hanno colpito in particolare le borse di specializzazione. Va considerato anche che, come stima l’Anaao, solo il 66% degli specialisti sceglie il servizio pubblico, i restanti lavorano nella sanità privata o scelgono la libera professione. Un’opzione che consente di esercitare sia negli ospedali sia nelle cliniche, senza vincoli di esclusiva.Altro elemento è che alcune specializzazioni come la medicina d’urgenza non esercitano grande appeal sui laureati che preferiscono settori meno stressanti e più remunerativi. Qualcosa è stato fatto per colmare i buchi negli organici ospedalieri. I contratti di formazione sono stati portati da 4.500 a 15.000, però produrranno effetti a lungo andare. Formare uno specialista richiede 4-5 anni e occorre quindi scontare un periodo in cui le strutture continueranno a essere in emergenza. Secondo Anaao, i circa 10.000 medici che oggi mancano all’appello negli ospedali saranno verosimilmente recuperati tra il 2024 e il 2028, quando entreranno nel sistema sanitario coloro che quest’anno iniziano la specializzazione.Oltre a pensionamenti, turni stressanti e remunerazione considerata bassa in relazione all’impegno, recentemente è emerso un ultimo fattore che rende meno attrattivo il lavoro in ospedale: l’aumento delle aggressioni. Nella città metropolitana di Milano, da gennaio a maggio, sono stati denunciati 116 casi di attacchi al personale a fronte di 122 in tutto il 2021. Minacce e intimidazioni sono più che raddoppiate: da 22 casi lo scorso anno a 45 nei primi cinque mesi del 2022. Il fenomeno è generalizzato. Secondo la Fnopi (la federazione degli infermieri), le aggressioni fisiche colpiscono in media in un anno un terzo degli infermieri: circa 130.000 casi con un sommerso non denunciato all’Inail stimato in circa 125.000 casi l’anno.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/cercate-un-dottore-2657955726.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="schiacciati-dalla-burocrazia" data-post-id="2657955726" data-published-at="1661726856" data-use-pagination="False"> «Schiacciati dalla burocrazia» Anche per i medici di famiglia il Covid ha portato un sovraccarico di incombenze spesso burocratiche che ostacolano il funzionamento del sistema: lo dice Pier Luigi Bartoletti, vicesegretario nazionale della Fimmg, la federazione dei medici di famiglia. La situazione dei medici di base è meno dura rispetto a quelli delle emergenze, eppure l’esodo c’è stato lo stesso. Come lo spiega? «Le uscite erano attese, bastava guardare i dati anagrafici dei pensionamenti. Inattesi invece i prepensionamenti. La categoria è stata messa a dura prova dalla pandemia. Sui medici di famiglia si è scaricato il peso enorme della gestione del Covid. Sono stati in trincea per oltre due anni, dovendo affrontare una situazione di caos. Ora gli studi sono intasati da coloro che hanno ritardato o sospeso le cure durante la pandemia. E si parla di coinvolgere i medici di base per la quarta dose vaccinale. Molti colleghi, superata l’emergenza, hanno preferito anticipare il pensionamento nonostante le penalizzazioni economiche: anche perdendo un po’ di soldi, non hanno esitato e se ne sono andati. Nel Lazio pensavamo che nel 2022 saremmo rimasti in 4.000 da 4.800 che eravamo, con il pensionamento standard dei settantenni, invece siamo scesi a 3.800 unità. Ci sono stati casi di medici che se ne sono andati a 63 anni. Mi dicevano: non ce la faccio più. Il lavoro si è complicato». Complicato in che senso? «Siamo afflitti da una serie di passaggi burocratici che rallentano il lavoro». Un esempio? «Le priorità per le prescrizioni sulle ricette. Se indico che un paziente deve fare un accertamento entro una certa data ma questa non viene rispettata perché i tempi di attesa sono lunghi, il paziente finisce per dare la colpa a me. Il medico di base è al centro di un sistema che non funziona e diventa il terminale della rabbia dei cittadini. Se un paziente anziano ha un catetere che non funziona il sabato pomeriggio, a chi lo dico? C’è qualcuno che mi risponde al Cad, il Centro di assistenza domiciliare? Altro esempio: dimettono un paziente alle 17 del venerdì pomeriggio, spesso con prescrizioni varie. Il parente si rivolge a me per sapere cosa fare. Ma io sono costretto a rispondere che per attivare alcune procedure bisogna aspettare lunedì perché sabato e domenica è tutto chiuso. Questi casi sono aumentati in modo esponenziale e tanti colleghi non ne possono più». In quali regioni si sentono le maggiori carenze di medici di base? «Le regioni più sofferenti sono al Nord, soprattutto Lombardia, Liguria, Trentino. Qui fanno lavorare i pensionati. Anche in alcune aree del Lazio si prolunga l’attività oltre i 70 anni. Ma mentre negli anni passati era una costante chiedere di restare oltre l’età pensionabile, ora è un’eccezione. Nel Sud c’è più mobilità e tante persone vanno al Nord. In Calabria il numero di guardie mediche è altissimo, superiore al resto d’Italia». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/cercate-un-dottore-2657955726.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="meno-soldi-meno-visite-private-e-i-pazienti-si-riversano-da-noi" data-post-id="2657955726" data-published-at="1661726856" data-use-pagination="False"> «Meno soldi, meno visite private e i pazienti si riversano da noi» «Al pronto soccorso del Cardarelli di Napoli, il più grande ospedale del Mezzogiorno, ci sono 22 medici: ne servirebbero altri 24. Nel 2019 ce n’erano 46. Nei pronto soccorso di tutta la Campania, di qui al 2025 mancheranno 800 camici bianchi, ora sono vacanti 420 posti. Servirebbero 1.400 letti in più per arrivare alla dotazione minima e garantire i livelli di assistenza». Maurizio Cappiello, vicesegretario Anaao Assomed della Campania e medico chirurgo al Cardarelli, sciorina numeri da incubo. Come si è arrivati a questa situazione? «I pensionamenti, rispetto alle carenze totali, sono una piccola quota. Un 15% dei medici è andato a lavorare nel settore privato, un 10% si è trasferito all’estero e il resto si è fatto spostare nei reparti di degenza ordinaria dove non c’è lo stress delle emergenze». Si fugge dagli ospedali? «Le condizioni di lavoro sono diventate insostenibili. I pronto soccorso stanno esplodendo. Negli ultimi sette anni a Napoli ne sono stati chiusi 5: Loreto Mare, San Giovanni Bosco, Santa Maria del Popolo degli Incurabili, San Gennaro, Ascalesi. Gli ospedali di San Gennaro e di Santa Maria del Popolo degli Incurabili non esistono più. È uno degli effetti del commissariamento della Regione Campania. Per risanare il bilancio si è preferito tagliare alcune strutture di emergenza con la promessa, mai mantenuta, di potenziarne altre. L’ospedale Cardarelli si è fatto carico dell’afflusso dei pronto soccorso chiusi. Non bisogna dimenticare inoltre che gli ospedali spesso sono usati come ammortizzatori sociali per le prestazioni non urgenti». In che senso? «Le liste d’attesa per la specialista si sono allungate con il Covid. Tanti pazienti hanno saltato le cure e ora, per recuperare, si rivolgono all’ospedale. Qui arrivano quanti non hanno le disponibilità economiche per pagare un medico privato o fare gli accertamenti nei laboratori di analisi. Questa massa di persone si somma alle urgenze quotidiane. Sempre più spesso la tensione sale e sono frequenti le aggressioni da parte dei parenti del malato che è in corsia in attesa del suo turno e rivendica la priorità anche su chi arriva con il codice rosso. Oltre il 20% delle aggressioni avvengono proprio nel pronto soccorso. Lavorare in queste condizioni è diventato molto faticoso oltre che rischioso. Al medico dovrebbe essere riconosciuto lo status di pubblico ufficiale. Ora l’aggressore è perseguibile solo su denuncia a meno che non vi siano lesioni tali da richiedere una prognosi di almeno 20 giorni. Ecco perché chi può va altrove. Pesa anche uno stipendio che è più basso della media europea». Come si può arginare la fuga dei medici? «Innanzitutto occorre aumentare il numero dei posti letto per ridurre il sovraffollamento. Va riformata l’assistenza in emergenza; un medico che al pronto soccorso fa tutto non è più possibile. E per ammortizzare i turni massacranti servirebbero più ferie». Quanti giorni di riposo avete a disposizione? «Oscillano tra 32 e 36 giorni l’anno ma non si riescono a soddisfare per carenza di personale. Chi è nelle strutture di emergenza dovrebbe averne 15 in più».
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Riduci
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Riduci
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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