2022-09-12
«Sette musei su dieci a rischio chiusura»
Dario Franceschini sul red carpet del Festival di Venezia nel 2020 (Alessandra Benedetti - Corbis/Corbis via Getty Images)
Ministro dal 2014, Dario Franceschini ha collezionato fallimenti passati nel silenzio: ticket dei musei rincarati, assunzioni di amici, persi i fondi per i disabili. E la sua «Netflix»? Un flop clamoroso.«Furti aumentati per i tagli al personale». Il coordinatore del settore Beni culturali del sindacato Usb, Domenico Blasi: «Si fanno pochi concorsi, mancano 5.000 vigilanti oltre a bibliotecari, tecnici, archeologi, impiegati. Sette siti museali su 10 rischiano la chiusura, è solo grazie ai dipendenti rimasti se restano aperti».Lo speciale comprende due articoli.Ticket per i musei più cari, patrimonio culturale gestito come se fosse nelle mani di un’azienda privata, con tanto di girandola dei suoi uomini di fiducia nei posti chiave e tagli spietati della pianta organica, una scuola per restauratori che nel mercato del lavoro crea figli e figliastri e almeno un paio di grandi flop: un’app succhiasoldi che doveva essere la Netflix della cultura italiana e l’incapacità di gestire i fondi del Pnrr per cancellare le barriere architettoniche dai luoghi della cultura. Mentre il ministro Dario Franceschini passeggia per Napoli, dove è stato paracadutato dal Pd come candidato capolista al Senato, il suo modello di gestione dei beni culturali, lanciato e rilanciato ogni qualvolta è stato chiamato a guidare il ministero (con i governi Renzi, Gentiloni e Conte bis, e ora con il governo Draghi, salvo l’interruzione del governo gialloverde nel 2018-19, quando il ruolo venne affidato ad Alberto Bonisoli), è ormai collassato.L’estate veneziana si è chiusa con l’aumento del ticket d’ingresso al Palazzo Ducale e ai musei dell’area Marciana, lievitati a partire dal 1° settembre. Il Palazzo Ducale ora è da record: 30 euro (dai 25 precedenti). Nella classifica mondiale si piazza subito sotto alla Casa Batlló di Gaudí a Barcellona (35 euro) e alla Churchill’s war rooms di Westminster (31,24 euro). Si pensi che il British museum di Londra continua a essere gratuito, mentre dal Louvre al Prado, passando per i Musei vaticani, i prezzi dei biglietti si aggirano tutti fra i 15 e i 20 euro. E a Napoli perfino l’ingresso nelle chiese è a pagamento. Un dettaglio che ha portato gli attivisti delle associazioni culturali in piazza «per ribadire che quella di Franceschini non è e non deve essere l’unica narrazione possibile».Ovviamente, come da tradizione di sinistra, i luoghi che prima erano gratuiti ora sono finiti nelle mani di associazioni e cooperative e sono diventati a pagamento. E, così, Franceschini a Napoli si è ritrovato i gruppi di Mi Riconosci, Gridas, Chi rom e… chi no, Ex opg je so pazz e Sud Europa turistificazione, che lo contestavano: «Ha creato musei autonomi (“fiore all’occhiello” della riforma Franceschini), i quali hanno più che raddoppiato il biglietto d’ingresso (il Museo archeologico è passato dagli 8 euro del 2017 ai 18 del 2022; Capodimonte dagli 8 del 2017 ai 12 del 2022; Palazzo Reale dai 6 del 2021 ai 10 del 2022, ndr)». «L’impressione», sostengono i contestatori, «è quella di trovarsi di fronte non più a un servizio pubblico, con un biglietto accessibile per larga parte della popolazione, ma a un’offerta elitaria per i cittadini più abbienti e soprattutto per stangare i turisti». L’altra faccia della medaglia sono i salari pompati proposti negli appalti del settore da quando c’è la società partecipata Ales, spesso descritta come un ministero parallelo che evita le assunzioni pubbliche. È la società in house del ministero di Franceschini. Il presidente è Mario De Simoni, fresco di riconferma (rimarrà in carica fino al 2025) nonostante una frustata della Corte dei conti proprio sugli stipendi: il costo medio annuo di un lavoratore fornito da Ales, ricostruiscono i giudici contabili, nel caso dei 16 richiesti per il museo statale autonomo Vittoriano di Roma, è risultato superiore a 66.000 euro, contro i quasi 35.000 della fascia economica più alta dei dipendenti ministeriali con compiti assimilabili, mentre la più bassa supera appena i 23.000 euro. Nel frattempo, stando all’ultima ripartizione delle dotazioni organiche del personale, inviata durante le ferie ai sindacati, le carenze sono diventate endemiche. Insomma, si taglia nel pubblico e si investe nel privato.Ma lo strumento che garantirebbe a Franceschini di avere il controllo totale della Cultura sono le nomine per le postazioni nelle stanze dei bottoni. «È passato da nomine interne per concorso a nomine esterne fiduciarie», spiegano dal movimento Mi Riconosci, «che fanno seguito a una selezione per titoli e colloquio, dando un imprinting più politico e meno tecnico al ministero». Dalla selezione viene scelta una terna di candidati ammessi. E ancora una volta Franceschini si è beccato il rimbrotto della Corte dei conti, che ha evidenziato come «non risultasse chiarita la valenza attribuita al colloquio e ai criteri per l’individuazione della terna». Tuttavia, con questo stratagemma il ministro farebbe passare i suoi fedelissimi da una direzione all’altra.Ma la Corte dei conti ha ancora una cartuccia in canna. E considera un flop l’abbattimento delle barriere architettoniche nei musei. Il progetto finanziato con 300 milioni di euro del Pnrr è stato avviato, ma al momento del deposito dell’analisi (il 3 agosto scorso) non era stata ancora completata l’individuazione dei siti in cui realizzare gli interventi. L’investimento prevede interventi in 617 luoghi della cultura, tra musei, monumenti, parchi archeologici, archivi e biblioteche. Il 37% degli interventi è da realizzarsi al Sud. La questione è tutta legata ai tempi per la realizzazione: deadline giugno 2026. Le prime scadenze hanno già mandato in affanno l’ingolfata macchina di Franceschini. A marzo scorso bisognava approvare il Piano degli interventi ed entro giugno il decreto di ammissione al finanziamento. Termini non rispettati. E a preoccupare c’è il primo obiettivo intermedio: la realizzazione di 150 interventi entro il secondo trimestre 2023. La «diversa tempistica» adottata dal ministero, sottolineano i giudici contabili, rischia di causare ritardi nell’ammissione ai finanziamenti.Il ministero deve aver deciso di colpire il settore in tutte le sue diramazioni. E con le sale cinematografiche alla canna del gas per le chiusure da Covid, durante la pandemia Franceschini se ne è uscito con una trovata: la «Netflix della cultura». E ha lanciato ItsArt (controllata da Cassa depositi e prestiti e dalla piattaforma Chili), una piattaforma a pagamento che nel 2021 ha perso circa 7,5 milioni di euro, ovvero quasi tutta la somma (9,8 milioni) finanziata con il decreto Rilancio. I numeri del flop sono impressi nella voce ricavi: 245.000 euro, 140.000 dei quali sono abbonamenti. Gli utenti sarebbero stati 146.000, per una spesa pro capite di circa 95 centesimi. Altri 100.000 euro circa riguarderebbero «controparti business in modalità di barter transaction». Ovvero, scambio merce con altre aziende. I vertici sono stati azzerati per tre volte e il buco continua a crescere. Si attende il responso della Corte dei conti. Anche perché la genialata culturale a pagamento duplica in buona parte ciò che è disponibile su Rai Play.Uno dei più grandi pasticci del ministero, però, rimane quello che ha messo in ginocchio i restauratori. Tutto è cominciato nel 2009, quando viene istituito un titolo accademico equiparato a una laurea quinquennale. Per tutti gli altri, che restauratori lo erano di fatto, si aprì una complicatissima strada burocratica per il riconoscimento del titolo. L’unico che può rilasciarlo è il ministero. Con una clausola capestro: è riservato ai soli diplomati delle sue Scuole di alta formazione, comunemente dette Saf. L’esperienza e la professionalità non contano. E, così, i curriculum si sono trasformati in carta straccia. «Il ministro», spiegano alla Verità i restauratori del comitato Resarte, «ha riconosciuto titolo equipollente a laurea magistrale corsi di valore inferiore a un manipolo di privilegiati». Il Consiglio di Stato ha riequilibrato la questione, spiegando che «il riconoscimento del valore del titolo può essere determinato esclusivamente dalla legge e pertanto non è consentito alla pubblica amministrazione rilasciare titoli equipollenti attraverso un atto amministrativo». Ma cosa accade? «Che nonostante le sentenze», spiegano dal comitato, «è prassi confezionare bandi di concorso per il restauro di opere d’arte in base all’origine professionale dei candidati». Insomma, chi esce dalla scuola di Franceschini troverebbe una via preferenziale.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/cera-una-volta-la-cultura-2658195544.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="furti-aumentati-per-i-tagli-al-personale" data-post-id="2658195544" data-published-at="1662931670" data-use-pagination="False"> «Furti aumentati per i tagli al personale» A giugno Dario Franceschini se ne è uscito con l’ultima novità: il «Museo dell’arte salvata». L’ennesima trovata mediatica d’impatto, lanciata in pompa magna. Si tratta di un «museo permanente in cui transiteranno le opere recuperate dai carabinieri dei beni culturali prima che vengano restituite ai loro luoghi e musei di appartenenza», ha spiegato il ministro. Un luogo di transito, insomma, che ha sede a Roma nell’aula Ottagona del Museo nazionale romano. Di materiale, d’altra parte, ce n’è in abbondanza. Basta prendere i dati del 2021: i carabinieri del comando tutela patrimonio culturale hanno recuperato 33.869 beni d’arte che erano stati trafugati. Numeri impressionanti. L’ultimo dossier dello specializzatissimo reparto dell’Arma rileva anche un altro dato inquietante: l’aumento complessivo dei furti di beni culturali (+20,5%), prima di tutto nei luoghi di culto (+14,2%) e poi dai privati e nei luoghi espositivi (+42,3%) e, infine, negli archivi (+50%). È cresciuta la fame di opere d’arte? No. Mancano custodi e vigilanti. Lo ha denunciato a metà agosto il direttore degli Uffizi Eike Schmidt («negli ultimi anni a Firenze sono stati autorizzati 166 pensionamenti, rimpiazzati da 34 nuovi ingressi, un passivo insostenibile») e si è beccato una reprimenda dal braccio destro di Franceschini, Massimo Osanna, che ha annunciato concorsi e assunzioni. Nel frattempo però, la situazione si è fatta critica. All’ingresso del Chiostro dello Scalzo di Firenze, che rientra nei musei gestiti dalla direzione di San Marco e che conserva un importante ciclo di affreschi di Andrea del Sarto, a fine agosto è comparso un cartello: «Temporaneamente chiuso per carenza del personale. Ci scusiamo per il disagio». Sulla stampa locale si sono scatenate non poche polemiche. Ma non è l’unico caso. La Soprintendenza archivistica e bibliografica della Campania, per esempio, si è ritrovata con solo quattro dipendenti: un archivista, un assistente tecnico, un operatore tecnico e un custode. A Chieti e a Taranto i musei sono stati addirittura chiusi per mancanza di personale. E basta fare una piccola ricerca su Google per scoprire che in quasi tutte le regioni d’Italia in estate è saltata l’apertura di qualche bene culturale, che ha lasciato i turisti, anche stranieri, a bocca asciutta. I concorsi effettuati a distanza di dieci anni l’uno dall’altro sono due. Sono state pubblicate le graduatorie dopo due anni per quello provinciale del 2020. Mentre per quello nazionale del 2019 è previsto da settembre prossimo l’ingresso di altre persone. La carenza di personale ha portato a una sempre maggiore collaborazione permanente con imprese esterne. E infatti c’è una novità. Grazie al sistema degli appalti e delle esternalizzazioni i servizi fiduciari per vigilantes sono scesi da 7 euro a ora a meno di 5. E oltre un quinto degli esternalizzati coinvolti, dipendenti delle cooperative e inquadrati come «soci lavoratori», ha mollato. A 4,2 euro lordi l’ora c’è chi ha messo tutto nelle mani degli stranieri. Soprattutto a Milano, nei musei civici (Castello Sforzesco, Museo del Novecento, Galleria d’arte Moderna, Museo Archeologico e Acquario Civico). Le difficoltà però sono evidenti. Anche perché i vigilanti spesso si occupano anche di accoglienza e di orientamento dei flussi. Il fenomeno, inoltre, al momento è oscuro anche per i sindacati. È difficilissimo riuscire a fare un calcolo preciso di quanti precari vengono utilizzati tramite le società esterne in tutta la rete della Cultura in Italia. L’unica cosa certa è che il personale interno, quello contrattualizzato dallo Stato, è in forte affanno. Solo nel Lazio mancano all’appello 2.400 persone su 4.800 in pianta organica. Il sindacato Usb si è messo a fare le pulci al ministero. E ha inviato un dossier che stronca, punto per punto, la ripartizione delle dotazioni organiche orchestrata da Franceschini sotto ferragosto. Domenico Blasi, che in Usb è coordinatore del settore Beni culturali, denuncia: «Il personale è dimezzato e c’è rischio di chiusura di molti siti, non voglio esagerare ma il 70% delle strutture è coinvolto». Da cosa dipende questa carenza? Non si fanno concorsi? «I concorsi sono limitati, la realtà è che da anni non c’è una vera pianificazione occupazionale. I 1.052 che verranno assunti dal 15 settembre sono solo una goccia in mezzo al mare. Si pensi che solo nel settore della vigilanza mancano almeno 5.000 unità». Quali sono le figure con una carenza maggiore? «Di certo il personale della vigilanza, i custodi, gli operatori addetti alla sorveglianza. Ma mancano anche tecnici, bibliotecari, restauratori, archeologi, antropologi. La carenza di personale è grave e diffusa. Mancano anche dirigenti e personale amministrativo». Avete avuto delle rassicurazioni? «Noi abbiamo chiesto di parlare con il ministro, perché il problema della dotazione organica non possiamo discuterlo con i tecnici. Questo è un problema politico e dal ministro va risolto. Sempre che ne abbia la volontà. Al momento stiamo aspettando una convocazione e sui tempi non ci è stato detto nulla». Da quanto va avanti questa situazione? «Dal 2020 è cominciato un forte esodo. Sono andati via circa 2.000 lavoratori. E il personale non viene rimpiazzato. Gli istituti sono di molto sotto la media nazionale. Faccio un esempio: se un museo può aprire con minimo quattro unità di personale, ora ne ha al massimo una e mezzo. Molte strutture infatti non possono più permettere la fruizione al pubblico e cominciano a chiudere. E questo dimostra che la componente umana, ovvero quella del personale, è fondamentale». I turni sono massacranti? «Si pensi ai musei e ai parchi archeologici. Dove non ci sono tutti i sistemi di allarme e anti intrusione si fa anche il turno notturno. Ma ridotto, perché non c’è personale». I rischi di furti aumentano. «Dove non c’è personale né sistemi anti intrusione si applica la reperibilità notturna. Funziona così. Alla fine i lavoratori si ritrovano con maggiori mansioni e grandi responsabilità. C’è però da dire una cosa: è solo grazie ai lavoratori se gli istituti della Cultura sono ancora aperti».
Nel riquadro Roberto Catalucci. Sullo sfondo il Centro Federale Tennis Brallo
Sempre più risparmiatori scelgono i Piani di accumulo del capitale in fondi scambiati in borsa per costruire un capitale con costi chiari e trasparenti. A differenza dei fondi tradizionali, dove le commissioni erodono i rendimenti, gli Etf offrono efficienza e diversificazione nel lungo periodo.
Il risparmio gestito non è più un lusso per pochi, ma una realtà accessibile a un numero crescente di investitori. In Europa si sta assistendo a una vera e propria rivoluzione, con milioni di risparmiatori che scelgono di investire attraverso i Piani di accumulo del capitale (Pac). Questi piani permettono di mettere da parte piccole somme di denaro a intervalli regolari e il Pac si sta affermando come uno strumento essenziale per chiunque voglia crearsi una "pensione di scorta" in modo semplice e trasparente, con costi chiari e sotto controllo.
«Oggi il risparmio gestito è alla portata di tutti, e i numeri lo dimostrano: in Europa, gli investitori privati detengono circa 266 miliardi di euro in etf. E si prevede che entro la fine del 2028 questa cifra supererà i 650 miliardi di euro», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert SCF. Questo dato conferma la fiducia crescente in strumenti come gli etf, che rappresentano l'ossatura perfetta per un PAC che ha visto in questi anni soprattutto dalla Germania il boom di questa formula. Si stima che quasi 11 milioni di piani di risparmio in Etf, con un volume di circa 17,6 miliardi di euro, siano già attivi, e si prevede che entro il 2028 si arriverà a 32 milioni di piani.
Uno degli aspetti più cruciali di un investimento a lungo termine è il costo. Spesso sottovalutato, può erodere gran parte dei rendimenti nel tempo. La scelta tra un fondo con costi elevati e un Etf a costi ridotti può fare la differenza tra il successo e il fallimento del proprio piano di accumulo.
«I nostri studi, e il buon senso, ci dicono che i costi contano. La maggior parte dei fondi comuni, infatti, fallisce nel battere il proprio indice di riferimento proprio a causa dei costi elevati. Siamo di fronte a una realtà dove oltre il 90% dei fondi tradizionali non riesce a superare i propri benchmark nel lungo periodo, a causa delle alte commissioni di gestione, che spesso superano il 2% annuo, oltre a costi di performance, ingresso e uscita», sottolinea Gaziano.
Gli Etf, al contrario, sono noti per la loro trasparenza e i costi di gestione (Ter) che spesso non superano lo 0,3% annuo. Per fare un esempio pratico che dimostra il potere dei costi, ipotizziamo di investire 200 euro al mese per 30 anni, con un rendimento annuo ipotizzato del 7%. Due gli scenari. Il primo (fondo con costi elevati): con un costo di gestione annuo del 2%, il capitale finale si aggirerebbe intorno ai 167.000 euro (al netto dei costi). Il secondo (etf a costi ridotti): Con una spesa dello 0,3%, il capitale finale supererebbe i 231.000 euro (al netto dei costi).
Una differenza di quasi 64.000 euro che dimostra in modo lampante come i costi incidano profondamente sul risultato finale del nostro Pac. «È fondamentale, quando si valuta un investimento, guardare non solo al rendimento potenziale, ma anche e soprattutto ai costi. È la variabile più facile da controllare», afferma Salvatore Gaziano.
Un altro vantaggio degli Etf è la loro naturale diversificazione. Un singolo etf può raggruppare centinaia o migliaia di titoli di diverse aziende, settori e Paesi, garantendo una ripartizione del rischio senza dover acquistare decine di strumenti diversi. Questo evita di concentrare il proprio capitale su settori «di moda» o troppo specifici, che possono essere molto volatili.
Per un Pac, che per sua natura è un investimento a lungo termine, è fondamentale investire in un paniere il più possibile ampio e diversificato, che non risenta dei cicli di mercato di un singolo settore o di un singolo Paese. Gli Etf globali, ad esempio, che replicano indici come l'Msci World, offrono proprio questa caratteristica, riducendo il rischio di entrare sul mercato "al momento sbagliato" e permettendo di beneficiare della crescita economica mondiale.
La crescente domanda di Pac in Etf ha spinto banche e broker a competere offrendo soluzioni sempre più convenienti. Oggi, è possibile costruire un piano di accumulo con commissioni di acquisto molto basse, o addirittura azzerate. Alcuni esempi? Directa: È stata pioniera in Italia offrendo un Pac automatico in Etf con zero costi di esecuzione su una vasta lista di strumenti convenzionati. È una soluzione ideale per chi vuole avere il pieno controllo e agire in autonomia. Fineco: Con il servizio Piano Replay, permette di creare un Pac su Etf con la possibilità di ribilanciamento automatico. L'offerta è particolarmente vantaggiosa per gli under 30, che possono usufruire del servizio gratuitamente. Moneyfarm: Ha recentemente lanciato il suo Pac in Etf automatico, che si aggiunge al servizio di gestione patrimoniale. Con versamenti a partire da 10 euro e commissioni di acquisto azzerate, si posiziona come una valida alternativa per chi cerca semplicità e automazione.
Ma sono sempre più numerose le banche e le piattaforme (Trade Republic, Scalable, Revolut…) che offrono la possibilità di sottoscrivere dei Pac in etf o comunque tutte consentono di negoziare gli etf e naturalmente un aspetto importante prima di sottoscrivere un pac è valutare i costi sia dello strumento sottostante che quelli diretti e indiretti come spese fisse o di negoziazione.
La scelta della piattaforma dipende dalle esigenze di ciascuno, ma il punto fermo rimane l'importanza di investire in strumenti diversificati e con costi contenuti. Per un investimento di lungo periodo, è fondamentale scegliere un paniere che non sia troppo tematico o «alla moda» secondo SoldiExpert SCF ma che rifletta una diversificazione ampia a livello di settori e Paesi. Questo è il miglior antidoto contro la volatilità e le mode del momento.
«Come consulenti finanziari indipendenti ovvero soggetti iscritti all’Albo Ocf (obbligatorio per chi in Italia fornisce consigli di investimento)», spiega Gaziano, «forniamo un’ampia consulenza senza conflitti di interesse (siamo pagati solo a parcella e non riceviamo commissioni sui prodotti o strumenti consigliati) a piccoli e grandi investitore e supportiamo i clienti nella scelta del Pac migliore a partire dalla scelta dell’intermediario e poi degli strumenti migliori o valutiamo se già sono stati attivati dei Pac magari in fondi di investimento se superano la valutazione costi-benefici».
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