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2022-09-12
«Sette musei su dieci a rischio chiusura»
Dario Franceschini sul red carpet del Festival di Venezia nel 2020 (Alessandra Benedetti - Corbis/Corbis via Getty Images)
Ticket per i musei più cari, patrimonio culturale gestito come se fosse nelle mani di un’azienda privata, con tanto di girandola dei suoi uomini di fiducia nei posti chiave e tagli spietati della pianta organica, una scuola per restauratori che nel mercato del lavoro crea figli e figliastri e almeno un paio di grandi flop: un’app succhiasoldi che doveva essere la Netflix della cultura italiana e l’incapacità di gestire i fondi del Pnrr per cancellare le barriere architettoniche dai luoghi della cultura. Mentre il ministro Dario Franceschini passeggia per Napoli, dove è stato paracadutato dal Pd come candidato capolista al Senato, il suo modello di gestione dei beni culturali, lanciato e rilanciato ogni qualvolta è stato chiamato a guidare il ministero (con i governi Renzi, Gentiloni e Conte bis, e ora con il governo Draghi, salvo l’interruzione del governo gialloverde nel 2018-19, quando il ruolo venne affidato ad Alberto Bonisoli), è ormai collassato.
L’estate veneziana si è chiusa con l’aumento del ticket d’ingresso al Palazzo Ducale e ai musei dell’area Marciana, lievitati a partire dal 1° settembre. Il Palazzo Ducale ora è da record: 30 euro (dai 25 precedenti). Nella classifica mondiale si piazza subito sotto alla Casa Batlló di Gaudí a Barcellona (35 euro) e alla Churchill’s war rooms di Westminster (31,24 euro). Si pensi che il British museum di Londra continua a essere gratuito, mentre dal Louvre al Prado, passando per i Musei vaticani, i prezzi dei biglietti si aggirano tutti fra i 15 e i 20 euro. E a Napoli perfino l’ingresso nelle chiese è a pagamento. Un dettaglio che ha portato gli attivisti delle associazioni culturali in piazza «per ribadire che quella di Franceschini non è e non deve essere l’unica narrazione possibile».
Ovviamente, come da tradizione di sinistra, i luoghi che prima erano gratuiti ora sono finiti nelle mani di associazioni e cooperative e sono diventati a pagamento. E, così, Franceschini a Napoli si è ritrovato i gruppi di Mi Riconosci, Gridas, Chi rom e… chi no, Ex opg je so pazz e Sud Europa turistificazione, che lo contestavano: «Ha creato musei autonomi (“fiore all’occhiello” della riforma Franceschini), i quali hanno più che raddoppiato il biglietto d’ingresso (il Museo archeologico è passato dagli 8 euro del 2017 ai 18 del 2022; Capodimonte dagli 8 del 2017 ai 12 del 2022; Palazzo Reale dai 6 del 2021 ai 10 del 2022, ndr)». «L’impressione», sostengono i contestatori, «è quella di trovarsi di fronte non più a un servizio pubblico, con un biglietto accessibile per larga parte della popolazione, ma a un’offerta elitaria per i cittadini più abbienti e soprattutto per stangare i turisti».
L’altra faccia della medaglia sono i salari pompati proposti negli appalti del settore da quando c’è la società partecipata Ales, spesso descritta come un ministero parallelo che evita le assunzioni pubbliche. È la società in house del ministero di Franceschini. Il presidente è Mario De Simoni, fresco di riconferma (rimarrà in carica fino al 2025) nonostante una frustata della Corte dei conti proprio sugli stipendi: il costo medio annuo di un lavoratore fornito da Ales, ricostruiscono i giudici contabili, nel caso dei 16 richiesti per il museo statale autonomo Vittoriano di Roma, è risultato superiore a 66.000 euro, contro i quasi 35.000 della fascia economica più alta dei dipendenti ministeriali con compiti assimilabili, mentre la più bassa supera appena i 23.000 euro.
Nel frattempo, stando all’ultima ripartizione delle dotazioni organiche del personale, inviata durante le ferie ai sindacati, le carenze sono diventate endemiche. Insomma, si taglia nel pubblico e si investe nel privato.
Ma lo strumento che garantirebbe a Franceschini di avere il controllo totale della Cultura sono le nomine per le postazioni nelle stanze dei bottoni. «È passato da nomine interne per concorso a nomine esterne fiduciarie», spiegano dal movimento Mi Riconosci, «che fanno seguito a una selezione per titoli e colloquio, dando un imprinting più politico e meno tecnico al ministero». Dalla selezione viene scelta una terna di candidati ammessi. E ancora una volta Franceschini si è beccato il rimbrotto della Corte dei conti, che ha evidenziato come «non risultasse chiarita la valenza attribuita al colloquio e ai criteri per l’individuazione della terna». Tuttavia, con questo stratagemma il ministro farebbe passare i suoi fedelissimi da una direzione all’altra.
Ma la Corte dei conti ha ancora una cartuccia in canna. E considera un flop l’abbattimento delle barriere architettoniche nei musei. Il progetto finanziato con 300 milioni di euro del Pnrr è stato avviato, ma al momento del deposito dell’analisi (il 3 agosto scorso) non era stata ancora completata l’individuazione dei siti in cui realizzare gli interventi. L’investimento prevede interventi in 617 luoghi della cultura, tra musei, monumenti, parchi archeologici, archivi e biblioteche. Il 37% degli interventi è da realizzarsi al Sud. La questione è tutta legata ai tempi per la realizzazione: deadline giugno 2026. Le prime scadenze hanno già mandato in affanno l’ingolfata macchina di Franceschini. A marzo scorso bisognava approvare il Piano degli interventi ed entro giugno il decreto di ammissione al finanziamento. Termini non rispettati. E a preoccupare c’è il primo obiettivo intermedio: la realizzazione di 150 interventi entro il secondo trimestre 2023. La «diversa tempistica» adottata dal ministero, sottolineano i giudici contabili, rischia di causare ritardi nell’ammissione ai finanziamenti.
Il ministero deve aver deciso di colpire il settore in tutte le sue diramazioni. E con le sale cinematografiche alla canna del gas per le chiusure da Covid, durante la pandemia Franceschini se ne è uscito con una trovata: la «Netflix della cultura». E ha lanciato ItsArt (controllata da Cassa depositi e prestiti e dalla piattaforma Chili), una piattaforma a pagamento che nel 2021 ha perso circa 7,5 milioni di euro, ovvero quasi tutta la somma (9,8 milioni) finanziata con il decreto Rilancio. I numeri del flop sono impressi nella voce ricavi: 245.000 euro, 140.000 dei quali sono abbonamenti. Gli utenti sarebbero stati 146.000, per una spesa pro capite di circa 95 centesimi. Altri 100.000 euro circa riguarderebbero «controparti business in modalità di barter transaction». Ovvero, scambio merce con altre aziende. I vertici sono stati azzerati per tre volte e il buco continua a crescere. Si attende il responso della Corte dei conti. Anche perché la genialata culturale a pagamento duplica in buona parte ciò che è disponibile su Rai Play.
Uno dei più grandi pasticci del ministero, però, rimane quello che ha messo in ginocchio i restauratori. Tutto è cominciato nel 2009, quando viene istituito un titolo accademico equiparato a una laurea quinquennale. Per tutti gli altri, che restauratori lo erano di fatto, si aprì una complicatissima strada burocratica per il riconoscimento del titolo. L’unico che può rilasciarlo è il ministero. Con una clausola capestro: è riservato ai soli diplomati delle sue Scuole di alta formazione, comunemente dette Saf. L’esperienza e la professionalità non contano. E, così, i curriculum si sono trasformati in carta straccia. «Il ministro», spiegano alla Verità i restauratori del comitato Resarte, «ha riconosciuto titolo equipollente a laurea magistrale corsi di valore inferiore a un manipolo di privilegiati».
Il Consiglio di Stato ha riequilibrato la questione, spiegando che «il riconoscimento del valore del titolo può essere determinato esclusivamente dalla legge e pertanto non è consentito alla pubblica amministrazione rilasciare titoli equipollenti attraverso un atto amministrativo». Ma cosa accade? «Che nonostante le sentenze», spiegano dal comitato, «è prassi confezionare bandi di concorso per il restauro di opere d’arte in base all’origine professionale dei candidati». Insomma, chi esce dalla scuola di Franceschini troverebbe una via preferenziale.
«Furti aumentati per i tagli al personale»

A giugno Dario Franceschini se ne è uscito con l’ultima novità: il «Museo dell’arte salvata». L’ennesima trovata mediatica d’impatto, lanciata in pompa magna. Si tratta di un «museo permanente in cui transiteranno le opere recuperate dai carabinieri dei beni culturali prima che vengano restituite ai loro luoghi e musei di appartenenza», ha spiegato il ministro. Un luogo di transito, insomma, che ha sede a Roma nell’aula Ottagona del Museo nazionale romano. Di materiale, d’altra parte, ce n’è in abbondanza. Basta prendere i dati del 2021: i carabinieri del comando tutela patrimonio culturale hanno recuperato 33.869 beni d’arte che erano stati trafugati. Numeri impressionanti.
L’ultimo dossier dello specializzatissimo reparto dell’Arma rileva anche un altro dato inquietante: l’aumento complessivo dei furti di beni culturali (+20,5%), prima di tutto nei luoghi di culto (+14,2%) e poi dai privati e nei luoghi espositivi (+42,3%) e, infine, negli archivi (+50%). È cresciuta la fame di opere d’arte? No. Mancano custodi e vigilanti. Lo ha denunciato a metà agosto il direttore degli Uffizi Eike Schmidt («negli ultimi anni a Firenze sono stati autorizzati 166 pensionamenti, rimpiazzati da 34 nuovi ingressi, un passivo insostenibile») e si è beccato una reprimenda dal braccio destro di Franceschini, Massimo Osanna, che ha annunciato concorsi e assunzioni.
Nel frattempo però, la situazione si è fatta critica. All’ingresso del Chiostro dello Scalzo di Firenze, che rientra nei musei gestiti dalla direzione di San Marco e che conserva un importante ciclo di affreschi di Andrea del Sarto, a fine agosto è comparso un cartello: «Temporaneamente chiuso per carenza del personale. Ci scusiamo per il disagio». Sulla stampa locale si sono scatenate non poche polemiche. Ma non è l’unico caso. La Soprintendenza archivistica e bibliografica della Campania, per esempio, si è ritrovata con solo quattro dipendenti: un archivista, un assistente tecnico, un operatore tecnico e un custode. A Chieti e a Taranto i musei sono stati addirittura chiusi per mancanza di personale. E basta fare una piccola ricerca su Google per scoprire che in quasi tutte le regioni d’Italia in estate è saltata l’apertura di qualche bene culturale, che ha lasciato i turisti, anche stranieri, a bocca asciutta.
I concorsi effettuati a distanza di dieci anni l’uno dall’altro sono due. Sono state pubblicate le graduatorie dopo due anni per quello provinciale del 2020. Mentre per quello nazionale del 2019 è previsto da settembre prossimo l’ingresso di altre persone. La carenza di personale ha portato a una sempre maggiore collaborazione permanente con imprese esterne. E infatti c’è una novità. Grazie al sistema degli appalti e delle esternalizzazioni i servizi fiduciari per vigilantes sono scesi da 7 euro a ora a meno di 5.
E oltre un quinto degli esternalizzati coinvolti, dipendenti delle cooperative e inquadrati come «soci lavoratori», ha mollato. A 4,2 euro lordi l’ora c’è chi ha messo tutto nelle mani degli stranieri. Soprattutto a Milano, nei musei civici (Castello Sforzesco, Museo del Novecento, Galleria d’arte Moderna, Museo Archeologico e Acquario Civico). Le difficoltà però sono evidenti. Anche perché i vigilanti spesso si occupano anche di accoglienza e di orientamento dei flussi. Il fenomeno, inoltre, al momento è oscuro anche per i sindacati. È difficilissimo riuscire a fare un calcolo preciso di quanti precari vengono utilizzati tramite le società esterne in tutta la rete della Cultura in Italia. L’unica cosa certa è che il personale interno, quello contrattualizzato dallo Stato, è in forte affanno.
Solo nel Lazio mancano all’appello 2.400 persone su 4.800 in pianta organica. Il sindacato Usb si è messo a fare le pulci al ministero. E ha inviato un dossier che stronca, punto per punto, la ripartizione delle dotazioni organiche orchestrata da Franceschini sotto ferragosto. Domenico Blasi, che in Usb è coordinatore del settore Beni culturali, denuncia: «Il personale è dimezzato e c’è rischio di chiusura di molti siti, non voglio esagerare ma il 70% delle strutture è coinvolto».
Da cosa dipende questa carenza? Non si fanno concorsi?
«I concorsi sono limitati, la realtà è che da anni non c’è una vera pianificazione occupazionale. I 1.052 che verranno assunti dal 15 settembre sono solo una goccia in mezzo al mare. Si pensi che solo nel settore della vigilanza mancano almeno 5.000 unità».
Quali sono le figure con una carenza maggiore?
«Di certo il personale della vigilanza, i custodi, gli operatori addetti alla sorveglianza. Ma mancano anche tecnici, bibliotecari, restauratori, archeologi, antropologi. La carenza di personale è grave e diffusa. Mancano anche dirigenti e personale amministrativo».
Avete avuto delle rassicurazioni?
«Noi abbiamo chiesto di parlare con il ministro, perché il problema della dotazione organica non possiamo discuterlo con i tecnici. Questo è un problema politico e dal ministro va risolto. Sempre che ne abbia la volontà. Al momento stiamo aspettando una convocazione e sui tempi non ci è stato detto nulla».
Da quanto va avanti questa situazione?
«Dal 2020 è cominciato un forte esodo. Sono andati via circa 2.000 lavoratori. E il personale non viene rimpiazzato. Gli istituti sono di molto sotto la media nazionale. Faccio un esempio: se un museo può aprire con minimo quattro unità di personale, ora ne ha al massimo una e mezzo. Molte strutture infatti non possono più permettere la fruizione al pubblico e cominciano a chiudere. E questo dimostra che la componente umana, ovvero quella del personale, è fondamentale».
I turni sono massacranti?
«Si pensi ai musei e ai parchi archeologici. Dove non ci sono tutti i sistemi di allarme e anti intrusione si fa anche il turno notturno. Ma ridotto, perché non c’è personale».
I rischi di furti aumentano.
«Dove non c’è personale né sistemi anti intrusione si applica la reperibilità notturna. Funziona così. Alla fine i lavoratori si ritrovano con maggiori mansioni e grandi responsabilità. C’è però da dire una cosa: è solo grazie ai lavoratori se gli istituti della Cultura sono ancora aperti».
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Ministro dal 2014, Dario Franceschini ha collezionato fallimenti passati nel silenzio: ticket dei musei rincarati, assunzioni di amici, persi i fondi per i disabili. E la sua «Netflix»? Un flop clamoroso.«Furti aumentati per i tagli al personale». Il coordinatore del settore Beni culturali del sindacato Usb, Domenico Blasi: «Si fanno pochi concorsi, mancano 5.000 vigilanti oltre a bibliotecari, tecnici, archeologi, impiegati. Sette siti museali su 10 rischiano la chiusura, è solo grazie ai dipendenti rimasti se restano aperti».Lo speciale comprende due articoli.Ticket per i musei più cari, patrimonio culturale gestito come se fosse nelle mani di un’azienda privata, con tanto di girandola dei suoi uomini di fiducia nei posti chiave e tagli spietati della pianta organica, una scuola per restauratori che nel mercato del lavoro crea figli e figliastri e almeno un paio di grandi flop: un’app succhiasoldi che doveva essere la Netflix della cultura italiana e l’incapacità di gestire i fondi del Pnrr per cancellare le barriere architettoniche dai luoghi della cultura. Mentre il ministro Dario Franceschini passeggia per Napoli, dove è stato paracadutato dal Pd come candidato capolista al Senato, il suo modello di gestione dei beni culturali, lanciato e rilanciato ogni qualvolta è stato chiamato a guidare il ministero (con i governi Renzi, Gentiloni e Conte bis, e ora con il governo Draghi, salvo l’interruzione del governo gialloverde nel 2018-19, quando il ruolo venne affidato ad Alberto Bonisoli), è ormai collassato.L’estate veneziana si è chiusa con l’aumento del ticket d’ingresso al Palazzo Ducale e ai musei dell’area Marciana, lievitati a partire dal 1° settembre. Il Palazzo Ducale ora è da record: 30 euro (dai 25 precedenti). Nella classifica mondiale si piazza subito sotto alla Casa Batlló di Gaudí a Barcellona (35 euro) e alla Churchill’s war rooms di Westminster (31,24 euro). Si pensi che il British museum di Londra continua a essere gratuito, mentre dal Louvre al Prado, passando per i Musei vaticani, i prezzi dei biglietti si aggirano tutti fra i 15 e i 20 euro. E a Napoli perfino l’ingresso nelle chiese è a pagamento. Un dettaglio che ha portato gli attivisti delle associazioni culturali in piazza «per ribadire che quella di Franceschini non è e non deve essere l’unica narrazione possibile».Ovviamente, come da tradizione di sinistra, i luoghi che prima erano gratuiti ora sono finiti nelle mani di associazioni e cooperative e sono diventati a pagamento. E, così, Franceschini a Napoli si è ritrovato i gruppi di Mi Riconosci, Gridas, Chi rom e… chi no, Ex opg je so pazz e Sud Europa turistificazione, che lo contestavano: «Ha creato musei autonomi (“fiore all’occhiello” della riforma Franceschini), i quali hanno più che raddoppiato il biglietto d’ingresso (il Museo archeologico è passato dagli 8 euro del 2017 ai 18 del 2022; Capodimonte dagli 8 del 2017 ai 12 del 2022; Palazzo Reale dai 6 del 2021 ai 10 del 2022, ndr)». «L’impressione», sostengono i contestatori, «è quella di trovarsi di fronte non più a un servizio pubblico, con un biglietto accessibile per larga parte della popolazione, ma a un’offerta elitaria per i cittadini più abbienti e soprattutto per stangare i turisti». L’altra faccia della medaglia sono i salari pompati proposti negli appalti del settore da quando c’è la società partecipata Ales, spesso descritta come un ministero parallelo che evita le assunzioni pubbliche. È la società in house del ministero di Franceschini. Il presidente è Mario De Simoni, fresco di riconferma (rimarrà in carica fino al 2025) nonostante una frustata della Corte dei conti proprio sugli stipendi: il costo medio annuo di un lavoratore fornito da Ales, ricostruiscono i giudici contabili, nel caso dei 16 richiesti per il museo statale autonomo Vittoriano di Roma, è risultato superiore a 66.000 euro, contro i quasi 35.000 della fascia economica più alta dei dipendenti ministeriali con compiti assimilabili, mentre la più bassa supera appena i 23.000 euro. Nel frattempo, stando all’ultima ripartizione delle dotazioni organiche del personale, inviata durante le ferie ai sindacati, le carenze sono diventate endemiche. Insomma, si taglia nel pubblico e si investe nel privato.Ma lo strumento che garantirebbe a Franceschini di avere il controllo totale della Cultura sono le nomine per le postazioni nelle stanze dei bottoni. «È passato da nomine interne per concorso a nomine esterne fiduciarie», spiegano dal movimento Mi Riconosci, «che fanno seguito a una selezione per titoli e colloquio, dando un imprinting più politico e meno tecnico al ministero». Dalla selezione viene scelta una terna di candidati ammessi. E ancora una volta Franceschini si è beccato il rimbrotto della Corte dei conti, che ha evidenziato come «non risultasse chiarita la valenza attribuita al colloquio e ai criteri per l’individuazione della terna». Tuttavia, con questo stratagemma il ministro farebbe passare i suoi fedelissimi da una direzione all’altra.Ma la Corte dei conti ha ancora una cartuccia in canna. E considera un flop l’abbattimento delle barriere architettoniche nei musei. Il progetto finanziato con 300 milioni di euro del Pnrr è stato avviato, ma al momento del deposito dell’analisi (il 3 agosto scorso) non era stata ancora completata l’individuazione dei siti in cui realizzare gli interventi. L’investimento prevede interventi in 617 luoghi della cultura, tra musei, monumenti, parchi archeologici, archivi e biblioteche. Il 37% degli interventi è da realizzarsi al Sud. La questione è tutta legata ai tempi per la realizzazione: deadline giugno 2026. Le prime scadenze hanno già mandato in affanno l’ingolfata macchina di Franceschini. A marzo scorso bisognava approvare il Piano degli interventi ed entro giugno il decreto di ammissione al finanziamento. Termini non rispettati. E a preoccupare c’è il primo obiettivo intermedio: la realizzazione di 150 interventi entro il secondo trimestre 2023. La «diversa tempistica» adottata dal ministero, sottolineano i giudici contabili, rischia di causare ritardi nell’ammissione ai finanziamenti.Il ministero deve aver deciso di colpire il settore in tutte le sue diramazioni. E con le sale cinematografiche alla canna del gas per le chiusure da Covid, durante la pandemia Franceschini se ne è uscito con una trovata: la «Netflix della cultura». E ha lanciato ItsArt (controllata da Cassa depositi e prestiti e dalla piattaforma Chili), una piattaforma a pagamento che nel 2021 ha perso circa 7,5 milioni di euro, ovvero quasi tutta la somma (9,8 milioni) finanziata con il decreto Rilancio. I numeri del flop sono impressi nella voce ricavi: 245.000 euro, 140.000 dei quali sono abbonamenti. Gli utenti sarebbero stati 146.000, per una spesa pro capite di circa 95 centesimi. Altri 100.000 euro circa riguarderebbero «controparti business in modalità di barter transaction». Ovvero, scambio merce con altre aziende. I vertici sono stati azzerati per tre volte e il buco continua a crescere. Si attende il responso della Corte dei conti. Anche perché la genialata culturale a pagamento duplica in buona parte ciò che è disponibile su Rai Play.Uno dei più grandi pasticci del ministero, però, rimane quello che ha messo in ginocchio i restauratori. Tutto è cominciato nel 2009, quando viene istituito un titolo accademico equiparato a una laurea quinquennale. Per tutti gli altri, che restauratori lo erano di fatto, si aprì una complicatissima strada burocratica per il riconoscimento del titolo. L’unico che può rilasciarlo è il ministero. Con una clausola capestro: è riservato ai soli diplomati delle sue Scuole di alta formazione, comunemente dette Saf. L’esperienza e la professionalità non contano. E, così, i curriculum si sono trasformati in carta straccia. «Il ministro», spiegano alla Verità i restauratori del comitato Resarte, «ha riconosciuto titolo equipollente a laurea magistrale corsi di valore inferiore a un manipolo di privilegiati». Il Consiglio di Stato ha riequilibrato la questione, spiegando che «il riconoscimento del valore del titolo può essere determinato esclusivamente dalla legge e pertanto non è consentito alla pubblica amministrazione rilasciare titoli equipollenti attraverso un atto amministrativo». Ma cosa accade? «Che nonostante le sentenze», spiegano dal comitato, «è prassi confezionare bandi di concorso per il restauro di opere d’arte in base all’origine professionale dei candidati». 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Basta prendere i dati del 2021: i carabinieri del comando tutela patrimonio culturale hanno recuperato 33.869 beni d’arte che erano stati trafugati. Numeri impressionanti. L’ultimo dossier dello specializzatissimo reparto dell’Arma rileva anche un altro dato inquietante: l’aumento complessivo dei furti di beni culturali (+20,5%), prima di tutto nei luoghi di culto (+14,2%) e poi dai privati e nei luoghi espositivi (+42,3%) e, infine, negli archivi (+50%). È cresciuta la fame di opere d’arte? No. Mancano custodi e vigilanti. Lo ha denunciato a metà agosto il direttore degli Uffizi Eike Schmidt («negli ultimi anni a Firenze sono stati autorizzati 166 pensionamenti, rimpiazzati da 34 nuovi ingressi, un passivo insostenibile») e si è beccato una reprimenda dal braccio destro di Franceschini, Massimo Osanna, che ha annunciato concorsi e assunzioni. Nel frattempo però, la situazione si è fatta critica. All’ingresso del Chiostro dello Scalzo di Firenze, che rientra nei musei gestiti dalla direzione di San Marco e che conserva un importante ciclo di affreschi di Andrea del Sarto, a fine agosto è comparso un cartello: «Temporaneamente chiuso per carenza del personale. Ci scusiamo per il disagio». Sulla stampa locale si sono scatenate non poche polemiche. Ma non è l’unico caso. La Soprintendenza archivistica e bibliografica della Campania, per esempio, si è ritrovata con solo quattro dipendenti: un archivista, un assistente tecnico, un operatore tecnico e un custode. A Chieti e a Taranto i musei sono stati addirittura chiusi per mancanza di personale. E basta fare una piccola ricerca su Google per scoprire che in quasi tutte le regioni d’Italia in estate è saltata l’apertura di qualche bene culturale, che ha lasciato i turisti, anche stranieri, a bocca asciutta. I concorsi effettuati a distanza di dieci anni l’uno dall’altro sono due. Sono state pubblicate le graduatorie dopo due anni per quello provinciale del 2020. Mentre per quello nazionale del 2019 è previsto da settembre prossimo l’ingresso di altre persone. La carenza di personale ha portato a una sempre maggiore collaborazione permanente con imprese esterne. E infatti c’è una novità. Grazie al sistema degli appalti e delle esternalizzazioni i servizi fiduciari per vigilantes sono scesi da 7 euro a ora a meno di 5. E oltre un quinto degli esternalizzati coinvolti, dipendenti delle cooperative e inquadrati come «soci lavoratori», ha mollato. A 4,2 euro lordi l’ora c’è chi ha messo tutto nelle mani degli stranieri. Soprattutto a Milano, nei musei civici (Castello Sforzesco, Museo del Novecento, Galleria d’arte Moderna, Museo Archeologico e Acquario Civico). Le difficoltà però sono evidenti. Anche perché i vigilanti spesso si occupano anche di accoglienza e di orientamento dei flussi. Il fenomeno, inoltre, al momento è oscuro anche per i sindacati. È difficilissimo riuscire a fare un calcolo preciso di quanti precari vengono utilizzati tramite le società esterne in tutta la rete della Cultura in Italia. L’unica cosa certa è che il personale interno, quello contrattualizzato dallo Stato, è in forte affanno. Solo nel Lazio mancano all’appello 2.400 persone su 4.800 in pianta organica. Il sindacato Usb si è messo a fare le pulci al ministero. E ha inviato un dossier che stronca, punto per punto, la ripartizione delle dotazioni organiche orchestrata da Franceschini sotto ferragosto. Domenico Blasi, che in Usb è coordinatore del settore Beni culturali, denuncia: «Il personale è dimezzato e c’è rischio di chiusura di molti siti, non voglio esagerare ma il 70% delle strutture è coinvolto». Da cosa dipende questa carenza? Non si fanno concorsi? «I concorsi sono limitati, la realtà è che da anni non c’è una vera pianificazione occupazionale. I 1.052 che verranno assunti dal 15 settembre sono solo una goccia in mezzo al mare. Si pensi che solo nel settore della vigilanza mancano almeno 5.000 unità». Quali sono le figure con una carenza maggiore? «Di certo il personale della vigilanza, i custodi, gli operatori addetti alla sorveglianza. Ma mancano anche tecnici, bibliotecari, restauratori, archeologi, antropologi. La carenza di personale è grave e diffusa. Mancano anche dirigenti e personale amministrativo». Avete avuto delle rassicurazioni? «Noi abbiamo chiesto di parlare con il ministro, perché il problema della dotazione organica non possiamo discuterlo con i tecnici. Questo è un problema politico e dal ministro va risolto. Sempre che ne abbia la volontà. Al momento stiamo aspettando una convocazione e sui tempi non ci è stato detto nulla». Da quanto va avanti questa situazione? «Dal 2020 è cominciato un forte esodo. Sono andati via circa 2.000 lavoratori. E il personale non viene rimpiazzato. Gli istituti sono di molto sotto la media nazionale. Faccio un esempio: se un museo può aprire con minimo quattro unità di personale, ora ne ha al massimo una e mezzo. Molte strutture infatti non possono più permettere la fruizione al pubblico e cominciano a chiudere. E questo dimostra che la componente umana, ovvero quella del personale, è fondamentale». I turni sono massacranti? «Si pensi ai musei e ai parchi archeologici. Dove non ci sono tutti i sistemi di allarme e anti intrusione si fa anche il turno notturno. Ma ridotto, perché non c’è personale». I rischi di furti aumentano. «Dove non c’è personale né sistemi anti intrusione si applica la reperibilità notturna. Funziona così. Alla fine i lavoratori si ritrovano con maggiori mansioni e grandi responsabilità. C’è però da dire una cosa: è solo grazie ai lavoratori se gli istituti della Cultura sono ancora aperti».
Monterosa ski
Dopo un’estate da record, con presenze in crescita del 2% e incassi saliti del 3%, il sipario si alza ora su Monterosa Ski. In scena uno dei comprensori più autentici dell’arco alpino, da vivere fino al 19 aprile (neve permettendo) con e senza gli sci ai piedi, tra discese impeccabili, panorami che tolgono il fiato e quella calda accoglienza che da sempre distingue questo spicchio di territorio che si muove tra Valle d’Aosta e Piemonte, abbracciando le valli di Ayas e Gressoney e la Valsesia.
Protagoniste assolute dell’inverno al via, le novità.
A Gressoney-Saint-Jean il baby snow park Sonne è fresco di rinnovo e pronto ad accogliere i piccoli sciatori con aree gioco più ampie, un nuovo tapis roulant per prolungare il divertimento delle discese su sci, slittini e gommoni, e una serie di percorsi con gonfiabili a tema Walser per celebrare le tradizioni della valle. Poco più in alto, a Gressoney-La-Trinité, vede la luce la nuova pista di slittino Murmeltier, progetto ambizioso che ruota attorno a 550 metri di discesa serviti dalla seggiovia Moos, illuminazione notturna, innevamento garantito e la possibilità di scivolare anche sotto le stelle, ogni mercoledì e sabato sera.
Da questa stagione, poi, entra pienamente in funzione la tecnologia bluetooth low energy, che consente di usare lo skipass digitale dallo smartphone, senza passare dalla biglietteria. Basta tenerlo in tasca per accedere agli impianti, riducendo così plastica e attese e promuovendo una montagna più smart e sostenibile, dove la tecnologia è al servizio dell’esperienza.
Sul fronte di costi e promozioni, fioccano agevolazioni e formule pensate per andare incontro a tutte le tasche e per far fronte alle imprevedibili condizioni meteorologiche. A partire da sci gratuito per bambini sotto gli otto anni, a sconti del 30 e del 20 per cento rispettivamente per i ragazzi tra gli 8 e i 16 anni e i giovani tra i 16 e i 24 anni , per arrivare a voucher multiuso per i rimborsi skipass in caso di chiusura degli impianti . «Siamo più che soddisfatti di poter ribadire la solidità di una destinazione che sta affrontando le sfide di questi anni con lungimiranza. Su tutte, l’imprevedibilità delle condizioni meteo che ci condiziona in modo determinante e ci spinge a migliorare le performance delle infrastrutture e delle modalità di rimborso, come nel caso dei voucher», dice Giorgio Munari, amministratore delegato di Monterosa Spa.
Introdotti con successo l’inverno scorso, i voucher permettono ai titolari di skipass giornalieri o plurigiornalieri, in caso di chiusure parziali o totali del comprensorio, di avere crediti spendibili in acquisti non solo di nuovi skipass e biglietti per impianti, ma anche in attività e shopping presso partner d’eccellenza, che vanno dal Forte di Bard alle Terme di Champoluc, fino all’avveniristica Skyway Monte Bianco, passando per ristoranti di charme e botteghe artigiane.
Altra grande novità della stagione, questa volta dal respiro internazionale, l’ingresso di Monterosa Ski nel circuito Ikon pass, piattaforma americana che raccoglie oltre 60 destinazioni sciistiche nel mondo.
«Non si tratta solo di un’inclusione simbolica», commenta Munari, «ma di entrare concretamente nei radar di sciatori di Stati Uniti, Canada, Giappone o Australia che, già abituati a muoversi tra mete sciistiche di fama mondiale, avranno ora la possibilità di scoprire anche il nostro comprensorio». Comprensorio che ha tanto da offrire.
Sotto lo sguardo dei maestosi 4.000 del Rosa, sfilano discese sfidanti anche per i più esperti sul carosello principale Monterosa Ski 3 Valli - 29 impianti per 52 piste fino a 2.971 metri di quota - e percorsi più soft, adatti a principianti e bambini, nella ski area satellite di Antagnod, Brusson, Gressoney-Saint-Jean, Champorcher e Alpe di Mera; fuoripista da urlo nel regno imbiancato di Monterosa freeride paradise e tracciati di sci alpinismo d’eccezione - Monterosa Ski è il primo comprensorio di sci alpinismo in Italia. Il tutto accompagnato da panorami e paesaggi strepitosi e da un’accoglienza made in Italy che conquista a colpi di stile e atmosfere genuine. Info: www.monterosaski.eu.
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Dal foyer della Prima domina il nero scelto da vip e istituzioni. Tra abiti couture, la presenza di Pierfrancesco Favino, Mahmood, Achille Lauro e Barbara Berlusconi - appena nominata nel cda - spiccano le assenze ufficiali. Record d’incassi per Šostakovič.
Non c’è dubbio che un’opera dirompente e sensuale, che vede tradimenti e assassinii, censurata per la sua audacia e celebrata per la sua altissima qualità musicale come Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmítrij Šostakóvič, abbia influenzato la scelta di stile delle signore presenti.
«Quando preparo gli abiti delle mie clienti per la Prima della Scala, tengo sempre conto del tema dell’opera», spiega Lella Curiel, sessanta prime al suo attivo e stilista per antonomasia della serata più importante del Piermarini. Così ogni volta la Prima diventa un grande esperimento sociale, di eleganza ma anche di mise inopportune. Da sempre, la platea ingioiellata e in smoking, si divide tra chi è qui per la musica e chi per mostrarsi mentre finge di essere qui intendendosene. Sul piazzale, lo show comincia ben prima del do di petto. Le signore scendono dalle auto con la stessa espressione di chi affronta un red carpet improvvisato: un occhio al gradino e uno ai fotografi. Sono tiratissime, ma anche i loro accompagnatori non sono da meno, alcuni dei quali con abiti talmente aderenti che sembrano più un atto di fede che un capo sartoriale.
È il festival del «chi c’è», «chi manca» ma tutti partecipano con disinvoltura allo spettacolo parallelo: quello dei saluti affettuosi, che durano esattamente il tempo di contare quanti carati ha l’altro. Mancano sì il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, il presidente del Senato e il presidente della Camera ma gli aficionados della Prima, e anche tanti altri, ci sono tutti visto che è stato raggiunto il record di biglietti venduti, quasi 3 milioni di euro d’incasso.
Sul palco d'onore, con il sindaco Beppe Sala e Chiara Bazoli (in nero Armani rischiarato da un corpetto in paillettes), il ministro della Cultura Alessandro Giuli, l’applaudita senatrice a vita Liliana Segre, il presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana accompagnato dalla figlia Cristina (elegantissima in nero di Dior), il presidente della Corte Costituzionale Giovanni Amoroso, i vicepresidenti di Camera e Senato Anna Ascani e Gian Marco Centinaio e il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia. Nero imperante, quindi, nero di pizzo, di velluto, di chiffon ma sempre nero. Con un tocco di rosso come per l’abito di Maria Grazia compagna di Giuseppe Marotta («è un vestito di sartoria, non è firmato da nessun stilista»), con dettagli verdi scelti da Diana Bracco («sono molto rigorosa»). Tutto nero l’abito/cappotto di Andrée Ruth Shammah («metto sempre questo per la Prima con i gioielli colorati di mia mamma»). E così quello di Fabiana Giacomotti molto scollato sulla schiena («è di Balenciaga, l’ultima collezione di Demna»).
Ma esce dal coro Barbara Berlusconi, la più fotografata, in un prezioso abito di Armani dalle varie sfumature, dall’argento al rosso al blu («ho scelto questo abito che avevo già indossato per celebrarlo»), accompagnata da Lorenzo Guerrieri. Fresca di nomina nel cda della Scala (voluta da Fontana), si è soffermata con i giornalisti. «La scelta di Šostakovič - afferma - conferma che la Scala non è solo un luogo di memoria: è anche un teatro che ha il coraggio di proporre opere che fanno pensare, che interrogano il pubblico, lo sfidano, e che raccontano la complessità del nostro tempo. La Lady è un titolo "ruvido", forte, volutamente impegnativo, che non cerca il consenso facile. È un'opera intensa, profonda, scomoda, ma anche attualissima per i temi che propone». E aggiunge: «Mio padre amava l'opera e ho avuto il piacere di accompagnarlo parecchi anni fa a una Prima. Questo ruolo nel cda l'ho preso con grande impegno per aiutare la Scala a proseguire nel suo straordinario lavoro». Altra componente del cda, Melania Rizzoli, in nero vintage dell’amica Chiara Boni, arrivata con il figlio Alberto Rizzoli. In nero Ivana Jelinic, ad di Enit, agenzia nazionale del Turismo. In blu firmato Antonio Riva, Giulia Crespi moglie di Angelo, direttore della Pinacoteca di Brera. In beige Ilaria Borletti Buitoni con un completo confezionato dalla sarta su un suo disegno. Letteralmente accerchiati da giornalisti, fotografi e telecamere Pierfrancesco Favino con la moglie Anna Ferzetti, Mahmood in Versace («mi sento regale») e Achille Lauro che dice quanto sia importante che l’opera arrivi ai giovani. Debutto lirico per Giorgio Pasotti mentre è una conferma per Giovanna Salza in Armani e ospite abituale è l’artista Francesco Vezzoli.
Poi, in 500, alla cena di gala firmata dallo chef 2 stelle Michelin nella storica Società del Giardino Davide Oldani. E così la Prima resta quel miracolo annuale in cui tutti, almeno per una sera, riescono a essere la versione più scintillante (e leggermente autoironica) di sé stessi.
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Guido Guidesi (Imagoeconomica)
Le Zis si propongono come aree geografiche o distretti tematici in cui imprese, startup e centri di ricerca possano operare in sinergia per stimolare l’innovazione, generare nuova occupazione qualificata, attrarre capitali, formare competenze avanzate e trattenere talenti. Nelle intenzioni della Regione, le nuove zone dovranno funzionare come poli stabili, riconosciuti e specializzati, ciascuno legato alle vocazioni produttive del proprio territorio. I progetti potranno riguardare settori differenti: manifattura avanzata, digitalizzazione, life science, agritech, energia, materiali innovativi, cultura tecnologica e altre filiere considerate strategiche.
La procedura di attivazione delle Zis è così articolata. La Fase 1, tramite manifestazione di interesse, permette ai soggetti coinvolti di presentare un Masterplan, documento preliminare in cui vengono indicati settore di specializzazione, composizione del partenariato, governance, spazi disponibili o da realizzare, laboratori, servizi tecnologici e prospetto di sostenibilità. La proposta dovrà inoltre includere la lettera di endorsement della Provincia competente. Ogni Provincia potrà ospitare fino a due Zis, senza limiti invece per le candidature interprovinciali. La dotazione economica disponibile per questa fase è pari a 1 milione di euro: il contributo regionale finanzia fino al 50% delle spese di consulenza per la stesura dei documenti necessari alla Fase 2, fino a un massimo di 100.000 euro per progetto.
La Fase 2 è riservata ai progetti ammessi dopo la valutazione iniziale. Con l’accompagnamento della Regione, i proponenti elaboreranno il Piano strategico definitivo, che dovrà disegnare una visione a lungo termine con orizzonte al 2050. Il programma di sviluppo indicherà le azioni operative: attrazione di nuove imprese e startup innovative, apertura o potenziamento di laboratori, creazione di infrastrutture digitali, percorsi formativi ad alta specializzazione, incubatori e servizi condivisi. Sarà inoltre definito un modello economico sostenibile e un sistema di monitoraggio basato su indicatori misurabili per valutare impatti occupazionali, tecnologici e competitivi.
I soggetti autorizzati alla presentazione delle candidature sono raggruppamenti pubblico-privati con imprese o startup come capofila. Possono partecipare enti pubblici, Comuni, Province, camere di commercio, università, centri di ricerca, enti formativi, fondazioni, associazioni e organizzazioni del terzo settore. Regione Lombardia avrà il ruolo di coordinatore e facilitatore. All’interno della direzione generale sviluppo economico sarà istituita una struttura dedicata al supporto dei territori: un presidio tecnico incaricato di orientare, assistere e valorizzare le progettualità, monitorando l’attuazione e la coerenza con gli obiettivi strategici.
Nel corso della presentazione istituzionale, l’assessore allo Sviluppo economico, Guido Guidesi, ha dichiarato: «Cambiamo per innovare. Le Zis saranno il connettore dei valori aggiunti di cui già disponiamo e che metteremo a sistema, ecosistemi settoriali che innovano in squadra tra aziende, ricerca, formazione, istituzioni e credito. Guardiamo al futuro difendendo il nostro sistema produttivo con l’obiettivo di consegnare opportunità ai giovani». Da Confindustria Lombardia è arrivata una valutazione positiva. Il presidente Giuseppe Pasini ha affermato: «Attraverso le Zis si intensifica il lavoro a favore delle imprese e dei territori. Apprezziamo la capacità di visione e la volontà di puntare sui giovani».
Ogni territorio svilupperà la propria specializzazione, puntando su filiere già forti o sulla creazione di nuovi segmenti tecnologici. Il percorso non prevede limiti settoriali ma richiede sostenibilità economica e capacità di generare ricadute occupazionali misurabili.
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Kennedy Jr (Ansa)
D’ora in avanti, le donne che risultano negative al test per l’epatite B potranno decidere, consultando il proprio medico, se vaccinare o no alla nascita il proprio bambino. I membri che hanno votato a favore delle nuove raccomandazioni hanno sostenuto che il rischio di contrarre il virus è basso, e che i vaccini dovrebbero essere personalizzati.
Il gruppo di lavoro dell’Acip, rinnovato dallo scorso giugno dal segretario alla Salute Robert F. Kennedy Jr. ha suggerito di attendere almeno i 2 mesi di età per la prima dose. La vaccinazione continuerà a essere somministrata ai neonati di madri che risultano positive, o il cui stato di salute è sconosciuto. Il direttore facente funzioni dei Cdc, Jim O’Neill, ora dovrà decidere se adottare o meno queste raccomandazioni.
La commissione ha inoltre votato a favore della consultazione dei genitori con gli operatori sanitari, per sottoporre i figli a test sulla ricerca degli anticorpi contro l’epatite B prima di decidere se sia necessario somministrare altre dosi del vaccino. Attualmente, dopo la prima i bambini ricevono la seconda a 1-2 mesi di età e la terza tra i 6 e i 18 mesi.
Kennedy ha già limitato l’accesso ai vaccini contro il Covid-19 e raccomandato che i neonati vengano vaccinati separatamente contro la varicella. Susan Kressly, presidente dell’American academy of pediatrics, ha affermato che il cambiamento apportato dall’Acip renderà i bambini americani meno sicuri. «Esorto i genitori a parlare con il pediatra e a vaccinarsi contro l’epatite B alla nascita, indipendentemente dallo stato di salute della madre», è stato il suo appello.
Il presidente Donald Trump, invece, ha commentato soddisfatto l’esito della votazione. Con un post su Truth, venerdì sera aveva definito «un’ottima decisione porre fine alla raccomandazione sul vaccino contro l’epatite B per i neonati, la stragrande maggioranza dei quali non corre alcun rischio di contrarre una malattia che si trasmette principalmente per via sessuale o tramite aghi infetti. Il calendario vaccinale infantile americano richiedeva da tempo 72 “iniezioni” per bambini perfettamente sani, molto più di qualsiasi altro Paese al mondo e molto più del necessario. In effetti, è ridicolo! Molti genitori e scienziati hanno messo in dubbio, così come me, l’efficacia di questo “programma”».
Trump ha poi annunciato di avere appena firmato «un memorandum presidenziale che ordina al dipartimento della Salute e dei Servizi Umani di “accelerare” una valutazione completa dei calendari vaccinali di altri Paesi del mondo e di allineare meglio quello statunitense, in modo che sia finalmente radicato nel Gold Standard della scienza e del buon senso», ha concluso il presidente.
Prima del voto, questa settimana dodici ex dirigenti della Fda avevano contestato sul The New England journal of medicine la proposta di revisione delle approvazioni dei vaccini da parte dell’agenzia, sostenendo che i cambiamenti minacciano gli standard basati sulle prove, indeboliscono le pratiche di immunobridging (strategia scientifica e normativa che confronta i marcatori della risposta immunitaria indotti da un vaccino in diverse situazioni per stimare l’efficacia del vaccino) e rischiano di erodere la fiducia del pubblico.
A proposito della nota interna di Vinay Prasad, direttore della divisione vaccini della Food and drug administration (Fda), che dieci giorni ha sostenuto che «non meno di 10» dei 96 decessi infantili segnalati tra il 2021 e il 2024 al Vaers, il sistema federale di segnalazione degli eventi avversi da vaccino, erano «correlati» alle somministrazioni di dosi contro il Covid, i dodici si affannano a criticarla. «Prove sostanziali dimostrano che la vaccinazione può ridurre il rischio di malattie gravi e di ospedalizzazione in molti bambini e adolescenti», dichiarano. Dati che non risultano confermati da nessuno studio o revisione paritaria.
Sul continuo attacco alle scelte operate nel campo delle vaccinazioni dalla nuova amministrazione americana interviene il professor Francesco Cetta, ordinario di Chirurgia e docente di Intelligenza artificiale umanizzata presso lo Iassp (Istituto di alti studi strategici e politici). «Trump non è contro la scienza, come urla ad alta voce la sinistra nostrana», commenta. «Al contrario, pragmaticamente, per i problemi che non conosce, ha insediato nuove commissioni indipendenti di esperti, in grado di acclarare in tempi brevi, per quanto possibile, la verità su due argomenti particolarmente sensibili come le vaccinazioni e gli effetti dei cambiamenti climatici. E su che cosa si può fare in concreto per controllarli. Con quali costi e benefici per la comunità».
Il professore aggiunge: «Bisogna evitare le terapie a tappeto, indistintamente uguali per tutti, ma adattare ad ogni malato il suo trattamento come un “abito su misura”. In particolare, per alcune categorie come i bambini e le donne in gravidanza, bisogna valutare con attenzione vantaggi e svantaggi della somministrazione di ogni farmaco, incluso i vaccini, che determinano una perturbazione delle difese immunitarie individuali».
Considerazioni che dovrebbero essere fatte anche dal nostro ministero della Salute e dalle varie associazioni mediche che non ammettono revisioni dei metodi vaccinali.
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