2022-07-26
Il centrosinistra amico di Cina e Cuba non può dare lezioni di atlantismo
Federica Mogherini (Ansa)
Federica Mogherini ha strizzato l’occhio all’Iran e ai castristi, Lia Quartapelle a Pechino. Gli alleati a 5 stelle hanno voluto la Via della Seta. Ma il Pd accusa gli avversari di mettere in pericolo l’asse tra Italia e Usa.La campagna elettorale è appena iniziata. E già piove sul centrodestra l’accusa di non essere atlantista. Ne consegue che sarebbe il centrosinistra a salvaguardare la collocazione filoamericana del nostro Paese. Ma siamo sicuri che le cose stiano così? Tra il 2014 e il 2019, il Pd ha espresso l’Alto rappresentante per gli Affari esteri dell’Ue, Federica Mogherini. La stessa che, durante il suo mandato, ha portato avanti una linea non esattamente atlantista. Costei fu infatti tra gli artefici del nefasto accordo sul nucleare con l’Iran (fortemente sostenuto da Mosca), mentre nel 2016 promosse la normalizzazione dei rapporti tra l’Ue e il regime castrista, parlando di «passo storico». Era invece ottobre 2019 quando il premier cinese, Li Keqiang, elogiò l’Alta rappresentante europea «per il suo contributo attivo al rafforzamento delle relazioni Cina-Ue». Restando sulla Cina, era marzo 2019 quando il governo gialloblù firmò il memorandum sulla nuova Via della Seta: intesa caldeggiata dai grillini e che aveva invece incontrato lo scetticismo della Lega. A tal proposito, vale la pena ricordare due cose. Primo: fino all’altro ieri il M5s era il principale alleato del Pd nel quadro del cosiddetto «campo largo» (del resto i due schieramenti avevano governato insieme in un esecutivo filocinese come il Conte bis). Secondo: la strada verso il memorandum cinese fu spianata proprio dai dem. A maggio 2017, l’allora premier, Paolo Gentiloni, partecipò a Pechino al Forum One Belt one Road, dichiarando: «L’Italia può essere protagonista in questa grande operazione a cui la Cina tiene molto: per noi è una grande occasione e la mia presenza qui dice quanto la riteniamo importante». D’altronde, il memorandum cinese ricevette l’endorsement di Enrico Letta. «Non c’è alcuna contraddizione tra quello che sta facendo il governo italiano per penetrare i mercati asiatici con la nuova Via della Seta o con la prossima missione ad Hanoi per l’incontro Asean con le regole europee e la fedeltà agli Usa», affermò. Che Letta non abbia in antipatia Pechino è testimoniato anche dal fatto che - su input di Goffredo Bettini - propose come candidato al Quirinale Andrea Riccardi: fondatore della Comunità di Sant’Egidio e fautore del controverso accordo tra Vaticano e Cina. Ma non è tutto. A maggio, la deputata dem Lia Quartapelle ha ricevuto nella sede del Pd l’ambasciatrice cubana in Italia, Mirta Granda Averhoff, nonostante il regime castrista stia spalleggiando l’invasione russa dell’Ucraina in sede Onu. Un’altra deputata dem, Laura Boldrini, invitò invece alla Camera sette mesi fa degli attivisti, accusati di essere collegati al Fplp: organizzazione considerata terroristica da Usa e Ue. Infine, il Pd ha elogiato per anni Angela Merkel come modello di europeismo. Quella stessa Merkel che ha spinto la Commissione europea a firmare il controverso Comprehensive agreement on investment con Pechino e che, nonostante gli avvertimenti di Donald Trump, ha continuato ad acquistare sempre più gas dalla Russia. Per non parlare dell’amato Emmanuel Macron, che definì la Nato «cerebralmente morta» nel 2019 e che strizzò l’occhio al filorusso Khalifa Haftar in Libia. Quelli che mettono in dubbio le credenziali filoamericane del centrodestra non si sono accorti di tutto questo? Senza poi trascurare qualche rilevante «dettaglio». Primo: il governo Berlusconi II è stato graniticamente atlantista, registrando uno stretto rapporto tra lo stesso Silvio Berlusconi e George W. Bush. Secondo: Giorgia Meloni è stata più volte ospite negli Usa della Cpac (importante convention conservatrice, legatissima al Partito repubblicano, in cui i sentimenti filorussi e filocinesi non sono esattamente di casa). Terzo: Giancarlo Giorgetti, da capo del Mise, ha spesso invocato il golden power per bloccare pericolose acquisizioni industriali cinesi in Italia, mentre il deputato leghista Paolo Formentini introdusse una risoluzione parlamentare in cui si condannava la persecuzione cinese degli uiguri, usando la parola «genocidio». Termine poi espunto su sollecitazione della stessa Quartapelle, che lo definì «improprio». Peccato però che mozioni con quella parola siano state approvate in Olanda, Francia e Inghilterra (mentre proprio la Quartapelle a marzo auspicava un «dialogo» con Pechino). Insomma, dire che il centrosinistra garantirebbe la collocazione atlantica dell’Italia è piuttosto bizzarro. Certo: è necessario che il centrodestra eviti d’ora in poi ambiguità e velleitarismi controproducenti. Ma, se gioca bene le sue carte, potrebbe trovare una sponda Oltreatlantico. Negli Usa si vota a novembre e i repubblicani sono favoriti per la conquista dell’intero Congresso. Inoltre, visto il tracollo di Joe Biden, è probabile una vittoria dell’Elefantino alle presidenziali del 2024. Sbaglia quindi chi consiglia al centrodestra italiano di rompere con il trumpismo. A prescindere dal futuro politico dell’ex presidente, il trumpismo - inteso come più forte attenzione alle classi lavoratrici e alle minoranze etniche - è oggi maggioritario nel Partito repubblicano: in quest’area si collocano infatti i prossimi papabili candidati presidenziali dell’Elefantino (da Ron DeSantis a Mike Pompeo). Tra l’altro, a chi lo accusa di essere filorusso andrebbe ricordato che fu proprio Trump ad abbandonare l’accordo sul nucleare iraniano, a mettere le sanzioni al Nord Stream 2 e a imporre restrizioni su Cuba. Negli Usa, la vera difesa dei valori occidentali oggi è nel Partito repubblicano. E di questo il centrodestra deve essere consapevole. La collocazione atlantica del nostro Paese è una questione troppo seria per essere lasciata agli opportunismi ideologici del Pd.
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Dopo l'apertura dei lavori affidata a Maurizio Belpietro, il clou del programma vedrà il direttore del quotidiano intervistare il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, chiamato a chiarire quali regole l’Italia intende adottare per affrontare i prossimi anni, tra il ruolo degli idrocarburi, il contributo del nucleare e la sostenibilità economica degli obiettivi ambientali. A seguire, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, offrirà la prospettiva di un territorio chiave per la competitività del Paese.
La transizione non è più un percorso scontato: l’impasse europea sull’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni al 2040, le divisioni tra i Paesi membri, i costi elevati per le imprese e i nuovi equilibri geopolitici stanno mettendo in discussione strategie che fino a poco tempo fa sembravano intoccabili. Domande cruciali come «quale energia useremo?», «chi sosterrà gli investimenti?» e «che ruolo avranno gas e nucleare?» saranno al centro del dibattito.
Dopo l’apertura istituzionale, spazio alle testimonianze di aziende e manager. Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, dialogherà con Belpietro sulle opportunità di sviluppo del settore energetico italiano. Seguiranno gli interventi di Maria Rosaria Guarniere (Terna), Maria Cristina Papetti (Enel) e Riccardo Toto (Renexia), che porteranno la loro esperienza su reti, rinnovabili e nuova «frontiera blu» dell’offshore.
Non mancheranno case history di realtà produttive che stanno affrontando la sfida sul campo: Nicola Perizzolo (Barilla), Leonardo Meoli (Generali) e Marzia Ravanelli (Bf spa) racconteranno come coniugare sostenibilità ambientale e competitività. Infine, Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente alla Bocconi, analizzerà il ruolo decisivo della finanza in un percorso che richiede investimenti globali stimati in oltre 1.700 miliardi di dollari l’anno.
Un confronto a più voci, dunque, per capire se la transizione energetica potrà davvero essere la leva per un futuro più sostenibile senza sacrificare crescita e lavoro.
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