La riedizione della maggioranza della scorsa legislatura, con popolari, socialisti e macroniani, è tutt’altro che inevitabile. Il nuovo Parlamento europeo è molto più spostato a destra di quello precedente. Washington, poi, non si fida della sinistra.
La riedizione della maggioranza della scorsa legislatura, con popolari, socialisti e macroniani, è tutt’altro che inevitabile. Il nuovo Parlamento europeo è molto più spostato a destra di quello precedente. Washington, poi, non si fida della sinistra.Le elezioni europee si sono appena tenute e già molti commentatori danno come inevitabile la riedizione della «maggioranza Ursula», che ha visto finora insieme Ppe, Pse e Renew Europe. Eppure, a ben vedere, non è detto che le cose debbano andare per forza così. Senza dubbio, sulla carta, quella di una nuova «maggioranza Ursula» è un’ipotesi concreta: a fronte di una maggioranza assoluta di 361 seggi, un blocco tra Ppe, Pse e Renew Europe sarebbe a quota 400, mentre un’eventuale alleanza tra Ppe, Ecr e Id si fermerebbe per ora a 317. Peccato però che le somme puramente matematiche non sempre possano tradursi in somme politiche.In primis, bisogna tener conto del fatto che il Ppe è oggi spostato molto più a destra di un tempo. Il leader della Cdu, Friedrich Merz, è il capofila dell’ala più conservatrice del partito: si tratta di un profilo storicamente atlantista che, nel 2023, provò a inaugurare delle collaborazioni locali con i nazionalisti dell’Afd (anche se poi non se ne fece nulla, viste le polemiche che esplosero a causa di quel tentativo). Il premier greco e leader di Nuova democrazia, Kyriakos Mitsotakis, intrattiene solidi legami con Giorgia Meloni, mentre Forza Italia è parte integrante del suo governo. Un discorso analogo vale per la Spagna. Era lo scorso maggio, quando il premier socialista iberico, Pedro Sánchez, criticò il capo del Partito popolare, Alberto Nunez Feijoo, per le sue aperture negoziali all’Ecr. Certo, è pur vero che in Polonia ha vinto la formazione di Donald Tusk, forse il principale rappresentante dell’ala filo-socialista del Ppe. Ma è altrettanto vero che, alle ultime elezioni, Tusk ha visto soccombere i suoi due principali alleati europei: Emmanuel Macron e Olaf Scholz. In secondo luogo, esiste un forte collante a destra che è quello dell’opposizione al radicalismo green: basti pensare alla convergenza dell’anno scorso tra Ppe, Id ed Ecr nel tentativo di arginare la Legge Natura.Appurato che il Ppe è in larga parte conservatore e che esiste un notevole elemento coesivo tra i partiti di destra, resta da guardare ai numeri. L’Afd, che in Germania è arrivato secondo, ha appena espulso Maximilian Krah: figura assai controversa, diventata nota per le sue dichiarazioni sulle Ss. Si tratta di una mossa con cui il partito tedesco, attualmente collocato tra i Non Iscritti, sta cercando di farsi riammettere all’interno di Id. Un altro aspetto da considerare è che dei Non Iscritti fa al momento parte anche Fidesz di Viktor Orbán: uno schieramento che sarebbe in trattative per entrare presto nell’Ecr. E attenzione: si registrano strani sommovimenti anche tra i liberali. Il partito olandese di Mark Rutte, Vvd, rischia infatti di essere espulso da Renew Europe per essersi alleato nei Paesi Bassi con la formazione sovranista Pvv, facente capo a Id. Non si può quindi del tutto escludere che, indebolito dalla debacle di Macron, Renew Europe inizi a sfaldarsi e che qualche delegazione liberale possa contribuire a formare una maggioranza europea di centrodestra. Del resto, la stessa riconferma di Ursula von der Leyen è meno inevitabile di quanto si dica: secondo Politico, Charles Michel starebbe facendo di tutto per ostacolarla. E se, in caso di stallo, emergesse un nome alternativo più bendisposto verso destra?C’è infine da considerare il contesto internazionale e, soprattutto, il peso delle elezioni americane. Innanzitutto i rapporti tra Joe Biden e la Meloni sono già ottimi, vista la linea atlantista di Palazzo Chigi su Ucraina e Cina. Ma la questione si farebbe ancora più interessante se Donald Trump dovesse vincere a novembre. È infatti tutt’altro che escludibile che l’anno prossimo si insedi un’amministrazione repubblicana. Un’amministrazione che prevedibilmente gradirebbe assai poco una maggioranza europea con dentro il Pse. Non dimentichiamo che proprio esponenti del Pse occupano storicamente la poltrona di Alto rappresentante Ue per gli affari esteri. E che non hanno mai assunto posizioni atlantiste. Federica Mogherini avvicinò Bruxelles a Cuba, Iran e Cina, mentre Josep Borrell è uno strenuo fautore del controverso accordo sul nucleare con Teheran. Un altro elemento interessante è che il network internazionale di Trump include alcuni protagonisti dell’attuale destra europea: da Orbán al presidente polacco Andrzej Duda. Senza trascurare che, appena prima delle elezioni, il think tank conservatore americano, Hudson Institute, ha espresso simpatia per la Meloni, preannunciandone un ruolo centrale nelle dinamiche politiche in seno all’Ue.Certo, c’è chi dice che gli americani non si fidano di Marine Le Pen, in quanto considerata filorussa. Tuttavia andrebbe ricordato che non si fidano neanche di alcuni partiti interni al Pse, a partire dalla Spd, che promosse il gasdotto Nord Stream 2 e che, con Scholz, sta continuando ad avvicinare Berlino alla Cina. Le cose non miglioreranno con il crescente peso del Pd nostrano, che diventerà la prima delegazione del Pse. Per sottrarre voti ai grillini, Elly Schlein ha candidato figure tutt’altro che atlantiste, come Marco Tarquinio e Cecilia Strada. Tutto questo, mentre Nicola Zingaretti ha referenti americani ormai sulla via del crepuscolo (se non già tramontati), come Bill Clinton, Nancy Pelosi e Bill de Blasio. Tra l’altro, a Washington non si sono dimenticati che l’ex governatore del Lazio fu, da segretario del Pd, tra gli artefici del governo Conte II: l’esecutivo più filocinese della storia italiana, che si attirò per questo le ire dell’amministrazione Trump. Senza infine dimenticare che il capodelegazione dem uscente all’Europarlamento, Brando Benifei, è un sostenitore dell’accordo sul nucleare iraniano. Insomma, prima di dare per scontata una riedizione della «maggioranza Ursula», sarebbe meglio essere cauti.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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