2021-06-07
Che cosa succede nelle case del Papa. Immobili della Chiesa tra incuria e vendita
Il calo delle vocazioni e dei fedeli e i costi di gestione elevati costringono diocesi e congregazioni religiose a mettere sul mercato molti beni ecclesiastici. Sui portali specializzati compaiono chiese, monasteri, oratori. Che inevitabilmente diventeranno altro.L'economista Antonio Sanchez Fraga: «Soggetti impresentabili hanno fatto molti danni. Ma giusto vendere le strutture che hanno più costi che benefici».Lo speciale contiene due articoli.Di fronte all'economia, anche la fede può cedere il passo. E se ci sono da finanziare le attività e le missioni delle congregazioni religiose o provvedere al pagamento degli stipendi che i sacerdoti incassano per i servizi garantiti alle parrocchie, allora anche quel che sembrava impossibile fino a qualche anno fa non è più così strano: le diocesi italiane si trasformano in agenzie immobiliari e chiese, conventi e monasteri finiscono sul mercato. La crisi delle vocazioni e l'età avanzata di suore e parroci costringono gli enti della Chiesa a fare i salti mortali per tenere in piedi le proprie strutture. Secondo gli annuari statistici, ogni anno chiudono oltre 300 conventi in Italia. Di questo passo, si stima che tutti i conventi presenti nel nostro Paese possano chiudere i battenti in maniera definitiva nel 2046. Così gli istituti religiosi hanno cominciato a farsi qualche domanda sul futuro del proprio patrimonio immobiliare. Nelle linee orientative per la gestione dei beni, per esempio, gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica non escludono «la dismissione o l'alienazione» di immobili non più «funzionali» alle missioni da attuare. Molte strutture sono datate, altre risultano vuote da anni, anche solo i costi di manutenzione sono eccessivi rispetto alle entrate. E se fino a pochi anni fa si tentava la strada della riorganizzazione, con una riconversione degli immobili per scopi sociali, oggi molte strutture finiscono direttamente sul mercato. Capire il numero esatto degli immobili in vendita è un esercizio complicato, un rompicapo da cui è difficile districarsi. Alle domande della Verità, la Conferenza episcopale italiana ha risposto di non disporre di «dati aggregati sui patrimoni immobiliari delle diocesi italiane». Ogni ente ha la sua «autonomia patrimoniale e amministrativa», scrivono. Spulciando tra i portali delle 227 diocesi italiane, spuntano fuori diverse strutture destinate alla vendita: l'arcidiocesi di Firenze, per esempio, mette sul mercato chiese con canoniche annesse, come nel comune di Lastra a Signa. Oltre 71.000 metri quadrati compresi di «sacrestia, campanile tergale, magazzini e un appezzamento di terreno». A Certaldo, invece, è in attesa di acquirenti la chiesa di Santa Maria a Bagnano, in aperta campagna. Nella descrizione dell'immobile si trovano ancora i riferimenti a navate, altare e presbiterio. A volte sono le congregazioni a trattare direttamente la vendita di conventi e vecchi monasteri. In altri casi, i beni religiosi finiscono per fare capolino nei più famosi portali per l'acquisto di appartamenti. Come è successo per il monastero di Santa Caterina, a Foligno. Oltre 2.000 metri quadrati di logge, porticati, chiostri e refettori. E poi ancora, ampi orti e giardini esterni. Per non farsi mancare nulla, anche il prezzo di vendita è già stato fissato: si parte da una base di 950.000 euro. Chissà se la cifra basterà a far tornare il sorriso agli economi della congregazione. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/case-papa-immobili-chiesa-vendita-2653252827.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="si-rischiano-gravi-scandali-se-finiscono-nelle-mani-sbagliate" data-post-id="2653252827" data-published-at="1622991380" data-use-pagination="False"> «Si rischiano gravi scandali se finiscono nelle mani sbagliate» «Nell'ambito patrimoniale ecclesiastico, la dinamica è segnata: in futuro ci saranno altri immobili da vendere, riqualificare o mettere a reddito. Il calo delle nascite e la crisi delle vocazioni renderà il processo inarrestabile». Lo dice Antonio Sanchez Fraga, economista, canonista e fondatore dell'Osservatorio permanente sui beni ecclesiastici. Che cosa c'è dietro le alienazioni del patrimonio immobiliare di proprietà di enti e Congregazioni? Sono cambiate le priorità? «C'è il bisogno di creare liquidità, necessaria per finanziare nuove missioni nei luoghi in cui ci sono maggiori esigenze di povertà, formazione e nuove vocazioni, come Asia, Africa e America latina». La vendita di un immobile rappresenta una fallimento? «Gli enti tendono a essere conservativi quando in ballo ci sono questioni patrimoniali. La crisi ci ha insegnato una cosa: se non rende, il mattone costa. Più volte mi è capitato di dire agli enti che non bisogna essere attaccati agli immobili, ma alle finalità e alla missione». Sta dicendo che la dismissione è inevitabile? «A volte non è solo inevitabile, ma necessaria per l'equilibrio patrimoniale dell'ente proprietario». Che cosa intende? «Molte strutture immobiliari sono sorte in epoche lontane, quando le esigenze erano diverse. Penso ai grandi complessi per la formazione dei seminaristi, costruiti fuori dalle città per vivere e studiare in pace. Con la crisi delle vocazioni, i numeri sono calati in maniera drastica. La gestione di enormi spazi diventa complessa, alle volte non più sostenibile da un punto di vista economico. Se un convento di 5.000 metri quadrati è abitato da 5 persone appena, la sproporzione è evidente: la comunità è troppo piccola, tenere in piedi la struttura non è vantaggioso. Senza contare che l'età media in alcune Congregazioni supera i 75 anni, ciò vuol dire affrontare ingenti costi anche per l'assistenza». La vendita di immobili è una peculiarità tutta europea? «Nella vecchia Europa il processo va avanti spedito, molto più che altrove. La secolarizzazione spinta ha influito, e non poco. Italia e Spagna hanno portato avanti moltissime iniziative religiose, che oggi sono in regressione. Le missioni si spostano altrove, dove c'è più bisogno». Lei ha curato personalmente molte transazioni, c'è una tipologia di immobile che si vende con maggiore facilità? «Il mercato immobiliare è molto selettivo. Le strutture che hanno maggiore appetibilità sono quelle “cielo terra", a volte con giardino, nelle posizioni centrali delle grandi città». E le Congregazioni, invece? Chi vende di più? «Non ci sono regole, fare una classifica sarebbe impossibile. Le Congregazioni più antiche e più grandi, per esempio la famiglia Francescana, hanno avuto bisogno di vendere di più nel tempo». Il bisogno di liquidità incide sui prezzi di vendita? «Non è detto che i costi di vendita siano al di sotto dei valori di mercato. Gli immobili degli enti ecclesiastici hanno delle particolarità, sono per lo più residenze collettive. Da un punto di vista catastale e urbanistico, trasformare una struttura religiosa in un immobile a destinazione commerciale o residenziale richiede un iter lungo, spesso costoso. Il prezzo della vendita si sconta anche così». Il mattone è un nervo scoperto per la Chiesa. Che idea si è fatto degli scandali che hanno travolto il Vaticano? «Periodicamente ce n'è uno. In proporzione non sono molti, per fortuna, ma quelli a cui abbiamo assistito sono clamorosi. L'Osservatorio che dirigo è nato per questo, perché sono stufo degli scandali. La nostra idea è quella di creare una cultura patrimoniale che possa prevenirli». In che modo? «Abbiamo sintetizzato tre “C": conoscenza del patrimonio, dentro cui rientra la nostra battaglia per la trasparenza; competenza professionale, per evitare che gli enti finiscano per essere assistiti da soggetti impresentabili; infine, collegialità, per ovviare al problema dell'uomo solo al comando: un ecclesiastico che perde la testa può creare gravi danni». Lo scandalo del Palazzo di Londra ne è la dimostrazione, secondo lei? «Le tre condizioni sono mancate del tutto: non si conosceva la situazione, i professionisti coinvolti non erano degni di essere consulenti del Vaticano e una sola persona ha deciso per tutti. È stato un danno, ma almeno la Chiesa ha saputo reagire». La riforma di Papa Francesco va nella giusta direzione? «Sono ottimista, la riforma darà i suoi frutti: gli enti si stanno organizzando, le persone scelte, in modo particolare in Apsa e nella Segreteria per l'Economia, sono di alto profilo, c'è più accuratezza e collegialità. Si stanno cercando processi di riorganizzazione, per una dinamica di gestione dei beni ecclesiastici coerente con la missione della Chiesa».
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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