2020-03-10
Case agli immigrati per sentenza
La Consulta ha bocciato la legge regionale scritta dalla Lombardia: il criterio dei 5 anni di residenza per ottenere un alloggio popolare «non ha alcun nesso». La Corte costituzionale presieduta da Marta Cartabia nega alla Regione Lombardia il diritto di stabilire quanti anni di residenza debba avere un cittadino, italiano o straniero, per accedere all'edilizia residenziale pubblica. È illegittima, quindi, la parte della «Disciplina dei servizi abitativi» varata nel luglio 2016 dalla Lombardia, governata allora da Roberto Maroni, là dove (...) stabilisce che chi chiede un alloggio alla Regione debba avervi la residenza o anche solo lavorato «per almeno cinque anni nel periodo immediatamente precedente alla data di presentazione della domanda».Così la Corte costituzionale ha motivato ieri (la decisione in realtà risale allo scorso 28 gennaio) l'illegittimità di un comma dell'articolo 22 della legge numero 16 del luglio 2016, con cui la Lombardia aveva regolato la concessione di alloggi popolari. Secondo la Consulta, il requisito dei cinque anni crea una «soglia rigida, che nega l'accesso all'edilizia residenziale pubblica a prescindere da qualsiasi valutazione attinente alla situazione di bisogno o di disagio del richiedente», e quindi «non ha alcun nesso con la funzione di soddisfare l'esigenza abitativa di chi si trova in una situazione di effettivo bisogno». È l'ultimo colpo di piccone nella lunga opera di smantellamento giudiziario delle norme con cui il centrodestra tenta di riequilibrare le politiche sociali. Già quattro anni fa, l'opposizione di sinistra e la Cgil avevano contestato la legge lombarda, criticandola come «discriminatoria» e «demagogica», oltre che orientata contro gli immigrati. Nel 2017, quando poi era stato emanato il regolamento attuativo della disciplina, che attribuiva un punteggio più alto a chi potesse dimostrare di vivere da più tempo in Lombardia, Maroni aveva spiegato che le nuove regole non facevano alcuna discriminazione tra italiani e stranieri ma che, data la scarsità di risorse a disposizione, intendevano solo «dare la precedenza a chi risiede da più tempo nella Regione». La vicenda legale su cui la Consulta si è pronunciata era stata avviata in quello stesso 2017 da un cittadino tunisino, M.K., assistito dalla Cgil e da due organizzazioni pro-migranti, l'«Associazione studi giuridici sull'immigrazione» e l'«Associazione volontaria di assistenza socio-sanitaria e per i diritti di cittadini stranieri, rom e sinti». Tre anni fa, M.K. aveva fatto causa alla Regione perché era stato escluso dalle graduatorie dell'edilizia popolare in quanto residente in Lombardia da meno dei fatidici cinque anni. Nel gennaio 2019 il tribunale di Milano aveva portato la questione alla Consulta. La Lombardia ha inutilmente cercato di opporsi, ricordando tra l'altro che la stessa Corte costituzionale aveva già salvato nel 2008 una norma analoga, ammettendo in quel caso un collegamento tra «durata della permanenza in Lombardia, la scarsità delle risorse e la finalità della normativa». In effetti, nel 2008 la Consulta aveva stabilito la piena legittimità di una norma regionale del 2000, anche in quel caso contestata dalla Cgil davanti al Tar della Lombardia: quella legge stabiliva che per l'assegnazione degli alloggi popolari si dovesse tener conto, oltre «ai criteri del disagio familiare, abitativo ed economico», anche degli anni di residenza nella Regione, attribuendo un punteggio superiore a quanti potessero dimostrare la più lunga anzianità abitativa. Caratteristiche simili, insomma, alla legge del 2016. Ma anche questo precedente non è servito. La Corte ha stabilito che il requisito dei cinque anni «produce un'irragionevole disparità di trattamento a danno di chi, cittadino o straniero, non ne sia in possesso». I giudici costituzionali hanno però segnalato una via d'uscita nell'ultima parte della loro decisione: la residenza quinquennale, hanno scritto, «non può costituire una condizione di generalizzata esclusione dall'accesso al servizio», ma hanno aggiunto che può invece legittimamente «rientrare tra gli elementi da valutare in sede di formazione della graduatoria». Il presidente Attilio Fontana potrà tentare l'escamotage, forse, quando finalmente l'emergenza Coronavirus darà un po' di tregua.
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