
Le spericolate operazioni dei Tulliani sarebbero passate sotto il suo naso, ma lui non ha commesso reati. Tranne che per la svendita a suo cognato della lussuosa casa di Montecarlo in boulevard Princesse Charlotte 14, lasciata in eredità ad Alleanza nazionale dalla contessa Anna Maria Colleoni, per poco più di 300.000 euro quando le stime la attestavano a oltre 1 milione. Tant’è che è stata poi rivenduta, nel 2015, per 1 milione e 360.000 dollari. Nelle 97 pagine con le quali i giudici del Tribunale di Roma motivano la condanna a 2 anni e 8 mesi per l’operazione di riciclaggio legata all’affare dell’appartamento di Montecarlo il nome di Gianfranco Fini, ex leader della destra non berlusconiana e già presidente della Camera, è citato 138 volte. Secondo i giudici, «Fini autorizzò la vendita dell’appartamento» nonostante fosse consapevole dell’incongruenza del prezzo rispetto al valore di mercato, «favorendo così la società offshore legata ai suoi congiunti, in particolare Giancarlo Tulliani (fratello di Elisabetta, la compagna di Fini, ndr)». Tulliani, ricostruiscono i giudici, privo di un solido profilo professionale, aveva interesse nell’acquisto e Fini per le toghe si adoperò personalmente per introdurlo in ambienti dai quali potesse trarre vantaggio economico. Le società riconducibili a Tulliani, tra cui la Wind rose srl e altre, erano tutte in liquidazione o inattive, ma questo aspetto, valutano le toghe, «non fermò l’ex presidente della Camera dal procedere con la vendita».
Se ne sarebbe infischiato, Gianfranco, delle precedenti decisioni del partito contrarie alla vendita. E infatti, diversamente «da quanto da lui sostenuto», argomentano i giudici, «non si limitò a commettere una leggerezza che poteva mettere a rischio la sua posizione». Con la sua condotta «l’imputato, che in passato aveva negato la vendita all’immobiliarista Apolloni Ghetti per il solo fatto che questi era iscritto al partito Alleanza nazionale, non si limitò quindi a ledere l’interesse del partito avvantaggiando i fratelli Tulliani che sapeva interessati all’affare». Rigido con i sostenitori del suo partito, avrebbe cambiato approccio quando di mezzo c’erano i parenti. È a questo punto che le toghe forniscono una loro interpretazione: «Giova infatti aggiungere che la posizione istituzionale ricoperta da Fini, il quale era la seconda carica dello Stato, non rende credibile che egli non si sia adoperato per accertare l’identità di acquirente e finanziatore». Dietro all’operazione, ha ricostruito l’accusa, c’era il re dei videopoker Francesco Corallo, col quale Fini aveva stretto rapporti. Inoltre, analizzano le toghe, «contrariamente alle precedenti transazioni» del partito, durante le quali Fini aveva lasciato completa autonomia al senatore Francesco Pontone (tesoriere di Alleanza nazionale), in questo caso avrebbe gestito personalmente le trattative fissando il prezzo di vendita. E «ciò accadde», evidenzia la sentenza, «per le insistenze dei due fratelli Tulliani, come precisato dallo stesso Fini». Fin qui il riciclaggio per Montecarlo. Il resto dell’istruttoria dibattimentale, invece, «non ha fornito riscontro all’ipotesi accusatoria, secondo cui il contributo materiale dell’imputato», valuta il Tribunale, «sarebbe consistito nello stringere intesa con Corallo e nel favorire l’instaurazione e la prosecuzione di rapporti finanziari tra quest’ultimo e i membri della famiglia Tulliani». Un concetto che i giudici ripetono ancora: «Deve ritenersi che proprio Fini era il tramite dei rapporti tra Tulliani e Corallo presso il quale lo aveva introdotto perché potesse stringere affari». Ma non è stato possibile «individuare con certezza le ragioni sottostanti ai passaggi di denaro», affermano le toghe. Che ritengono comunque «certo» che Corallo avrebbe «ottenuto somme di denaro “ripulite” dai vari passaggi effettuati senza giustificazione economica e i Tulliani la disponibilità dell’appartamento di Montecarlo». C’è poi uno snodo investigativo che per quanto riguarda l’ex leader di An si è fermato al «livello di mero sospetto»: ovvero «la circostanza che Corallo abbia agito allo scopo di ottenere provvedimenti legislativi favorevoli nell’ambito della gestione del gioco legale tramite la famiglia Tulliani». Sebbene, secondo i giudici, «non possa escludersi che Corallo intese conferire ai Tulliani cospicue utilità confidando di poter ricevere da Fini un qualche interessamento per l’introduzione di normative favorevoli alle sue società, questa tesi accusatoria non è risultata in alcun modo provata».
È invece certo, secondo le toghe, che Fini nel 2008 «si adoperò per introdurre il cognato in» ulteriori «ambienti dai quali potesse trarre fonti di guadagno». Guido Paglia, giornalista e all’epoca dei fatti responsabile ufficio stampa della Rai, ha riferito che nel 2008 Fini «gli inviò Giancarlo Tulliani, che voleva lavorare in Rai». «Voleva vendere dei film», ha spiegato Paglia, che si lamentò di questa insistenza con Fini. E ci sarebbe stato uno scontro molto duro tra i due, al punto che si arrivò a una interruzione dei rapporti. Paglia, però, venne a sapere che Tulliani aveva ottenuto per altre strade quello che cercava. Un episodio non rilevante ai fini del giudizio, ma che di certo ha un peso politico. I difensori dell’ex presidente della Camera, gli avvocati Francesco Caroleo Grimaldi e Michele Sarno, al netto delle valutazioni delle toghe, per l’aspetto processuale festeggiano: «La sentenza di fatto assolve Fini su tutti i capi di imputazione e si limita, paradossalmente, a ricorrere al concetto del dolo eventuale, che tradotto altro non è che il ben poco apprezzabile “non poteva non sapere”». E annunciano che faranno appello.
Fini, invece, come è spesso accaduto negli ultimi anni, è rimasto in silenzio. Lui, che ogni tanto sembra spingersi di nuovo verso l’arena politica, probabilmente è consapevole che quella ricostruzione giudiziaria sulla vendita dell’appartamento di Montecarlo sarà uno scoglio molto difficile da superare.






