True
2019-10-10
Cartelloni pro trans in città con la benedizione dell’Ue
Ansa
Quella del Tribunale di Savona è una sentenza storica, forse, ma poco sorprendente e totalmente in linea con lo spirito dei tempi. Il caso ligure riguarda un paziente che si è sottoposto a un intervento per il cambio di sesso e ne è uscito con danni irreparabili. Il giudice, nel disporre il robusto risarcimento, ha spiegato che esiste un «diritto all'identità sessuale», ovvero il «diritto della persona a di scegliere la propria identità sessuale, femminile o maschile, a prescindere dal dato biologico e di essere riconosciuta e identificata».
È ormai più che diffusa, insomma, l'idea che non solo l'identità sessuale ma pure il sesso biologico e anatomico sia manipolabile, modificabile a piacimento in base ai desideri del singolo. Sta passando il concetto che cambiare sesso sia, in fondo, assolutamente normale. Proprio la vicenda di Savona dimostra che è vero il contrario: cambiare sesso è difficile, doloroso e spesso non risolve i nodi psichici delle persone che scelgono di operarsi, anzi può peggiorarli.
Eppure il pensiero dominante prevede che la fluidità sia imposta. La figura del trans - vero emblema della nostra epoca sconfinata e priva di limiti - deve essere celebrata come si conviene. È da questa ideologia che nascono progetti come quello patrocinato dall'Unione europea e chiamato «Call It Hate». L'obiettivo dovrebbe essere quello di «sensibilizzare i Paesi sulle violenze e la discriminazione nei confronti della comunità Lgbt». Nella realtà, tutto si traduce in una clamorosa operazione di propaganda a favore del cambiamento di sesso.
Ecco i fatti. Nei giorni scorsi, l'Università di Brescia – nell'ambito del progetto europeo «Call It Hate» - ha diffuso un bando rivolto a tutte le agenzie pubblicitarie sul territorio nazionale. A vincerlo è stata Studiomeme di Bergamo. L'agenzia in questione si occuperà di realizzare «due campagne pubblicitarie a scopo sociale», una delle quali appositamente dedicata ai transgender.
Tali campagne, spiegano i pubblicitari, Le campagne «sono state progettate per essere crossmediali, distribuite sia online che offline. La creatività verrà declinata sulla cartellonistica tradizionale in tre città: Brescia, Perugia e Taranto, strategicamente scelte per la loro storia e il valore che possono esercitare nella sensibilizzazione del pubblico. Inoltre, le campagne avranno anche una declinazione digital e social, con un sito web che verrà rivelato nelle prossime settimane e due spot, uno dei quali girato con il giornalista Saverio Tommasi».
Tradotto, significa che Studiomeme realizzerà manifesti e cartelloni che saranno posizionati lungo le strade o alle fermate dei mezzi pubblici. Il messaggio che conterranno è il seguente: cambiare sesso è assolutamente normale.
Un cartellone, per esempio, mostra lo schermo del cellulare di tale Francesca, su cui compare un elenco di canzoni, una «playlist», come si dice. Nel testo si legge: «Questa è la playlist di Francesca. Vedi qualcosa di strano?». Poi si spiega: «Francesca è impiegata in un ufficio. Adora la musica, la cucina e gli aperitivi in compagnia. [...] Francesca è transgender. Se continui a non vedere niente di strano, è perché non c'è niente di strano».
Chiaro, no? Cambiare sesso chirurgicamente è del tutto normale, una passeggiata. Non a caso, ormai, possono farlo anche i minorenni, e guai agli omofobi che cercano di far cambiare idea ai ragazzini. Per ribadire il concetto, era necessaria una campagna pubblicitaria sponsorizzata dall'Unione europea e curata da un'università italiana, con tanto di cartelloni affissi in giro per le città e mobilitazione sui social network.
Intendiamoci: fare in modo che le persone trans non siano discriminate e non siano vittime di violenze è cosa buona e giusta. Gli autori della campagna pubblicitaria sostengono che si debba «superare lo stereotipo culturale che le identifica unicamente come sex workers». Beh, a questo proposito allora sarebbe meglio prodigarsi per levare queste persone dalla strada o aiutarle a scegliere altri lavori al posto della prostituzione (sempre che lo vogliano, visto che l'attività è piuttosto redditizia).
Le campagne pubblicitarie non giovano a chi si prostituisce. Servono soltanto a diffondere un messaggio ideologico e cioè, appunto, che cambiare sesso sia normalissimo, naturale quasi. Che si tratti di propaganda, per altro, lo spiega proprio l'agenzia pubblicitaria. In Italia, dice Studiomeme, «non esiste ancora una legge che condanni le violenze omotransfobiche come crimini d'odio. Questa legge va ottenuta, come primo passo esemplare ed educativo da parte delle istituzioni». Ah, quindi la campagna promossa da Ue e Università di Brescia serve a sostenere un progetto politico, ovvero una legge bavaglio contro l'omofobia, tipo quelle che piacciono tanto a Monica Cirinnà e compagni.
Non solo. Tra gli obiettivi di Studiomeme c'è quello «di dare inizio ad un cambiamento sociale: le campagne sono state sviluppate per fornire uno strumento ai politici, agli attivisti, ai personaggi pubblici e ai cittadini considerati di seconda categoria per portare l'attenzione pubblica e mediatica su un tema in cui il nostro Paese è tragicamente indietro rispetto al resto del mondo civile. E, per farlo, occorre che ci sia qualcosa di esplicito, visibile, concreto e troppo scomodo da ignorare». Insomma: indottrinamento diffuso a beneficio di grandi e piccini. E se poi qualcosa nel percorso di transizione va storto, beh, si può sempre chiedere un bel risarcimento.
Francesco Borgonovo
Gli sbagliano l’intervento per cambiare sesso. Risarcito con 374.000 euro
I manuali di giurisprudenza e gli stessi codici, da domani, dovranno essere aggiornati. Sì, perché grazie all'ennesimo intervento della magistratura «creativa» è stato per la prima volta riconosciuto, nel nostro Paese, qualcosa di totalmente inedito: il «diritto all'identità sessuale». Per capire come si sia potuti arrivare a tutto ciò, urge un passo indietro per ripercorrere la vicenda giudiziaria sfociata in questo esito. La storia è quella di una donna transessuale, oggi quarantenne, che nell'aprile 2010, presso l'ospedale Santa Corona di Pietra Ligure, in provincia di Savona, si era sottoposta ad un intervento per la riassegnazione sessuale.
Un'operazione delicata ed evidentemente non andata a buon fine, come prova il fatto che questa persona ha dovuto successivamente essere sottoposta ad un vero e proprio calvario - per un totale di otto interventi - rivelatosi peraltro del tutto inutile. Infatti le pur numerose operazioni, come ha riportato il Corriere della Sera nel raccontare la vicenda, non hanno condotto ai risultati sperati. Il tutto è così passato in mano ai legali che, come si diceva, sono riusciti a strappare alla magistratura quello che è a tutti gli effetti un traguardo epocale.
Il Tribunale di Savona, infatti, nella sua ordinanza ha riconosciuto alla donna un risarcimento pari a 214.000 euro per «le sofferenze fisiche patite», i tre mesi che è stata obbligata a passare in ospedale e le «difficoltà relazionali con le altre persone a causa dell'imperfetto passaggio da un genere all'altro» visto che, per forza di cose, ora «avrà difficoltà non comuni nelle relazioni sentimentali e in ogni situazione in cui l'intimità delle persone è particolarmente esposta». Fin qui, insomma, è stato riconosciuto il classico danno biologico.
La novità sta però in un risarcimento supplementare - pari a 150.000 euro - per il danno morale riconosciuto alla transessuale. Un passaggio, quest'ultimo, motivato dal fatto che è doveroso «tener conto», recita l'ordinanza, anche della lesa identità sessuale e della sua «centralità nello sviluppo della persona». Più esattamente, i giudici di Savona hanno sottolineato come «la lesione patita» non coinvolga «solo il diritto alla salute, ma anche il diritto all'identità sessuale e alla dignità», un «diritto inviolabile della persona, quale essenziale forma di realizzazione della propria personalità» che quindi «gode di tutela costituzionale».
Quindi non soltanto si è riconosciuta l'esistenza del «diritto all'identità sessuale», ma lo si è perfino elevato al rango costituzionale. Un motivo in più per soffermarsi sulla definizione di questo nuovo diritto, che secondo il giudice Fabrizio Pelosi è quello «della persona a di scegliere la propria identità sessuale, femminile o maschile, a prescindere dal dato biologico e di essere riconosciuta e identificata» in ogni ambito «in modo corrispondente al sesso a cui sente di appartenere anche se diverso da quello accertato al momento della nascita».
Questo perché, continua il pronunciamento, «l'identità sessuale è strettamente connessa e strumentale alla dignità della persona che, tra l'altro, passa attraverso l'identificazione con un genere sessuale». Ora, comunque la si pensi, la svolta è davvero epocale. Lo conferma Alessandra Gracis, l'avvocato che ha assistito la donna nel procedimento la quale ha spiegato che è la prima volta che un simile diritto viene riconosciuto e, quindi, risarcito in Italia.
Detto questo - e senza voler entrare nel merito del specifico, trionfalmente presentato da portali come Gay.it come un grande passo verso il progresso - è difficile non confrontarsi con tutte le implicazioni legate al riconoscimento del diritto «all'identità sessuale». Implicazioni, per capirci, che varcano di molto il già significativo perimetro medico. Pensiamo per esempio al caso di una famiglia con genitori o fratelli che fossero contrari al «cambio di sesso» di un loro congiunto: rischierebbero anche loro, se in qualche modo opponessero, di dover sborsare un generoso risarcimento per aver leso l'altrui «identità sessuale»?
La domanda può apparire provocatoria ma non lo è affatto, se si pensa a quanto già accade nel resto del mondo. Basti guardare al Canada dove, solo pochi mesi fa, la giudice Francesca Marzari, a nome della Suprema corte della British Columbia, ha condannato per «violenza familiare» un padre reo d'essersi rivolto alla famiglia di 14 anni chiamandola con il «suo nome di nascita». Il motivo? La giovane identifica sé stessa come un ragazzo e si sta sottoponendo a trattamenti a base di testosterone per «cambiare sesso».
Ebbene, se il Canada e altre nazioni in cui i giudici emettono sentenze che ci paiono surreali fino a ieri parevano lontane, da oggi non è più così. Per un motivo semplice e già implicito in quanto fin qui riportato: il diritto «all'identità sessuale» non è mai neutro. Perché a un diritto, da che mondo è mondo, corrisponde sempre un preciso dovere. Che in questo caso è quello di assistere a rivoluzioni antropologiche in perfetto, obbediente silenzio.
Giuliano Guzzo
Continua a leggereRiduci
La campagna promossa dall'Università di Brescia e sostenuta dall'Europa prevede la diffusione di manifesti in cui si spiega che mutare il genere è del tutto normale.Accade in Liguria: il paziente ha subito danni gravi e irreparabili. Per il giudice è stato leso il diritto della persona a scegliere la propria identità sessuale.Lo speciale contiene due articoliQuella del Tribunale di Savona è una sentenza storica, forse, ma poco sorprendente e totalmente in linea con lo spirito dei tempi. Il caso ligure riguarda un paziente che si è sottoposto a un intervento per il cambio di sesso e ne è uscito con danni irreparabili. Il giudice, nel disporre il robusto risarcimento, ha spiegato che esiste un «diritto all'identità sessuale», ovvero il «diritto della persona a di scegliere la propria identità sessuale, femminile o maschile, a prescindere dal dato biologico e di essere riconosciuta e identificata». È ormai più che diffusa, insomma, l'idea che non solo l'identità sessuale ma pure il sesso biologico e anatomico sia manipolabile, modificabile a piacimento in base ai desideri del singolo. Sta passando il concetto che cambiare sesso sia, in fondo, assolutamente normale. Proprio la vicenda di Savona dimostra che è vero il contrario: cambiare sesso è difficile, doloroso e spesso non risolve i nodi psichici delle persone che scelgono di operarsi, anzi può peggiorarli. Eppure il pensiero dominante prevede che la fluidità sia imposta. La figura del trans - vero emblema della nostra epoca sconfinata e priva di limiti - deve essere celebrata come si conviene. È da questa ideologia che nascono progetti come quello patrocinato dall'Unione europea e chiamato «Call It Hate». L'obiettivo dovrebbe essere quello di «sensibilizzare i Paesi sulle violenze e la discriminazione nei confronti della comunità Lgbt». Nella realtà, tutto si traduce in una clamorosa operazione di propaganda a favore del cambiamento di sesso. Ecco i fatti. Nei giorni scorsi, l'Università di Brescia – nell'ambito del progetto europeo «Call It Hate» - ha diffuso un bando rivolto a tutte le agenzie pubblicitarie sul territorio nazionale. A vincerlo è stata Studiomeme di Bergamo. L'agenzia in questione si occuperà di realizzare «due campagne pubblicitarie a scopo sociale», una delle quali appositamente dedicata ai transgender. Tali campagne, spiegano i pubblicitari, Le campagne «sono state progettate per essere crossmediali, distribuite sia online che offline. La creatività verrà declinata sulla cartellonistica tradizionale in tre città: Brescia, Perugia e Taranto, strategicamente scelte per la loro storia e il valore che possono esercitare nella sensibilizzazione del pubblico. Inoltre, le campagne avranno anche una declinazione digital e social, con un sito web che verrà rivelato nelle prossime settimane e due spot, uno dei quali girato con il giornalista Saverio Tommasi». Tradotto, significa che Studiomeme realizzerà manifesti e cartelloni che saranno posizionati lungo le strade o alle fermate dei mezzi pubblici. Il messaggio che conterranno è il seguente: cambiare sesso è assolutamente normale. Un cartellone, per esempio, mostra lo schermo del cellulare di tale Francesca, su cui compare un elenco di canzoni, una «playlist», come si dice. Nel testo si legge: «Questa è la playlist di Francesca. Vedi qualcosa di strano?». Poi si spiega: «Francesca è impiegata in un ufficio. Adora la musica, la cucina e gli aperitivi in compagnia. [...] Francesca è transgender. Se continui a non vedere niente di strano, è perché non c'è niente di strano». Chiaro, no? Cambiare sesso chirurgicamente è del tutto normale, una passeggiata. Non a caso, ormai, possono farlo anche i minorenni, e guai agli omofobi che cercano di far cambiare idea ai ragazzini. Per ribadire il concetto, era necessaria una campagna pubblicitaria sponsorizzata dall'Unione europea e curata da un'università italiana, con tanto di cartelloni affissi in giro per le città e mobilitazione sui social network.Intendiamoci: fare in modo che le persone trans non siano discriminate e non siano vittime di violenze è cosa buona e giusta. Gli autori della campagna pubblicitaria sostengono che si debba «superare lo stereotipo culturale che le identifica unicamente come sex workers». Beh, a questo proposito allora sarebbe meglio prodigarsi per levare queste persone dalla strada o aiutarle a scegliere altri lavori al posto della prostituzione (sempre che lo vogliano, visto che l'attività è piuttosto redditizia). Le campagne pubblicitarie non giovano a chi si prostituisce. Servono soltanto a diffondere un messaggio ideologico e cioè, appunto, che cambiare sesso sia normalissimo, naturale quasi. Che si tratti di propaganda, per altro, lo spiega proprio l'agenzia pubblicitaria. In Italia, dice Studiomeme, «non esiste ancora una legge che condanni le violenze omotransfobiche come crimini d'odio. Questa legge va ottenuta, come primo passo esemplare ed educativo da parte delle istituzioni». Ah, quindi la campagna promossa da Ue e Università di Brescia serve a sostenere un progetto politico, ovvero una legge bavaglio contro l'omofobia, tipo quelle che piacciono tanto a Monica Cirinnà e compagni. Non solo. Tra gli obiettivi di Studiomeme c'è quello «di dare inizio ad un cambiamento sociale: le campagne sono state sviluppate per fornire uno strumento ai politici, agli attivisti, ai personaggi pubblici e ai cittadini considerati di seconda categoria per portare l'attenzione pubblica e mediatica su un tema in cui il nostro Paese è tragicamente indietro rispetto al resto del mondo civile. E, per farlo, occorre che ci sia qualcosa di esplicito, visibile, concreto e troppo scomodo da ignorare». Insomma: indottrinamento diffuso a beneficio di grandi e piccini. E se poi qualcosa nel percorso di transizione va storto, beh, si può sempre chiedere un bel risarcimento. Francesco Borgonovo<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/cartelloni-pro-trans-in-citta-con-la-benedizione-dellue-2640903118.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="gli-sbagliano-lintervento-per-cambiare-sesso-risarcito-con-374-000-euro" data-post-id="2640903118" data-published-at="1765740190" data-use-pagination="False"> Gli sbagliano l’intervento per cambiare sesso. Risarcito con 374.000 euro I manuali di giurisprudenza e gli stessi codici, da domani, dovranno essere aggiornati. Sì, perché grazie all'ennesimo intervento della magistratura «creativa» è stato per la prima volta riconosciuto, nel nostro Paese, qualcosa di totalmente inedito: il «diritto all'identità sessuale». Per capire come si sia potuti arrivare a tutto ciò, urge un passo indietro per ripercorrere la vicenda giudiziaria sfociata in questo esito. La storia è quella di una donna transessuale, oggi quarantenne, che nell'aprile 2010, presso l'ospedale Santa Corona di Pietra Ligure, in provincia di Savona, si era sottoposta ad un intervento per la riassegnazione sessuale. Un'operazione delicata ed evidentemente non andata a buon fine, come prova il fatto che questa persona ha dovuto successivamente essere sottoposta ad un vero e proprio calvario - per un totale di otto interventi - rivelatosi peraltro del tutto inutile. Infatti le pur numerose operazioni, come ha riportato il Corriere della Sera nel raccontare la vicenda, non hanno condotto ai risultati sperati. Il tutto è così passato in mano ai legali che, come si diceva, sono riusciti a strappare alla magistratura quello che è a tutti gli effetti un traguardo epocale. Il Tribunale di Savona, infatti, nella sua ordinanza ha riconosciuto alla donna un risarcimento pari a 214.000 euro per «le sofferenze fisiche patite», i tre mesi che è stata obbligata a passare in ospedale e le «difficoltà relazionali con le altre persone a causa dell'imperfetto passaggio da un genere all'altro» visto che, per forza di cose, ora «avrà difficoltà non comuni nelle relazioni sentimentali e in ogni situazione in cui l'intimità delle persone è particolarmente esposta». Fin qui, insomma, è stato riconosciuto il classico danno biologico. La novità sta però in un risarcimento supplementare - pari a 150.000 euro - per il danno morale riconosciuto alla transessuale. Un passaggio, quest'ultimo, motivato dal fatto che è doveroso «tener conto», recita l'ordinanza, anche della lesa identità sessuale e della sua «centralità nello sviluppo della persona». Più esattamente, i giudici di Savona hanno sottolineato come «la lesione patita» non coinvolga «solo il diritto alla salute, ma anche il diritto all'identità sessuale e alla dignità», un «diritto inviolabile della persona, quale essenziale forma di realizzazione della propria personalità» che quindi «gode di tutela costituzionale». Quindi non soltanto si è riconosciuta l'esistenza del «diritto all'identità sessuale», ma lo si è perfino elevato al rango costituzionale. Un motivo in più per soffermarsi sulla definizione di questo nuovo diritto, che secondo il giudice Fabrizio Pelosi è quello «della persona a di scegliere la propria identità sessuale, femminile o maschile, a prescindere dal dato biologico e di essere riconosciuta e identificata» in ogni ambito «in modo corrispondente al sesso a cui sente di appartenere anche se diverso da quello accertato al momento della nascita». Questo perché, continua il pronunciamento, «l'identità sessuale è strettamente connessa e strumentale alla dignità della persona che, tra l'altro, passa attraverso l'identificazione con un genere sessuale». Ora, comunque la si pensi, la svolta è davvero epocale. Lo conferma Alessandra Gracis, l'avvocato che ha assistito la donna nel procedimento la quale ha spiegato che è la prima volta che un simile diritto viene riconosciuto e, quindi, risarcito in Italia. Detto questo - e senza voler entrare nel merito del specifico, trionfalmente presentato da portali come Gay.it come un grande passo verso il progresso - è difficile non confrontarsi con tutte le implicazioni legate al riconoscimento del diritto «all'identità sessuale». Implicazioni, per capirci, che varcano di molto il già significativo perimetro medico. Pensiamo per esempio al caso di una famiglia con genitori o fratelli che fossero contrari al «cambio di sesso» di un loro congiunto: rischierebbero anche loro, se in qualche modo opponessero, di dover sborsare un generoso risarcimento per aver leso l'altrui «identità sessuale»? La domanda può apparire provocatoria ma non lo è affatto, se si pensa a quanto già accade nel resto del mondo. Basti guardare al Canada dove, solo pochi mesi fa, la giudice Francesca Marzari, a nome della Suprema corte della British Columbia, ha condannato per «violenza familiare» un padre reo d'essersi rivolto alla famiglia di 14 anni chiamandola con il «suo nome di nascita». Il motivo? La giovane identifica sé stessa come un ragazzo e si sta sottoponendo a trattamenti a base di testosterone per «cambiare sesso». Ebbene, se il Canada e altre nazioni in cui i giudici emettono sentenze che ci paiono surreali fino a ieri parevano lontane, da oggi non è più così. Per un motivo semplice e già implicito in quanto fin qui riportato: il diritto «all'identità sessuale» non è mai neutro. Perché a un diritto, da che mondo è mondo, corrisponde sempre un preciso dovere. Che in questo caso è quello di assistere a rivoluzioni antropologiche in perfetto, obbediente silenzio. Giuliano Guzzo
Maurizio Gasparri (Ansa)
Sono le 20.30, Andrea finisce il suo turno e sale negli spogliatoi, al piano superiore, per cambiarsi. Scendendo dalle scale si trova davanti ad un uomo armato che, forse in preda al panico, apre il fuoco. La pallottola gli buca la testa, da parte a parte, ma invece di ucciderlo lo manda in coma per mesi, riducendolo a un vegetale. La sua vita e quella dei suoi genitori si ferma quel giorno.
Lo Stato si dimentica di loro. Le indagini si concludono con un nulla di fatto. Non solo non hanno mai trovato chi ha sparato ma neppure il proiettile e la pistola da dove è partito il colpo. Questo perché in quel supermercato le telecamere non erano in funzione. Nel 2018 archiviano il caso. E rinvio dopo rinvio non è ancora stato riconosciuto alla famiglia alcun risarcimento in sede civile. Oggi Andrea ha 35 anni e forse neppure lo sa, ha bisogno di tutto, è immobile, si nutre con un sondino, passa le sue giornate tra il letto e la carrozzina. Per assisterlo, al mattino, la famiglia paga due persone. Hanno dovuto installare un ascensore in casa. E ricevono solo un indennizzo Inail che appena gli consente di provvedere alle cure.
Il senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri, membro della commissione Giustizia del Senato, è sconcertato: «Sono profondamente indignato per quanto accaduto a questa famiglia, Andrea e i suoi genitori meritano la giustizia che fino ad oggi gli è stata negata da lungaggini e burocrazia. Non si capisce il motivo di così tanti rinvii. Almeno si giunga a una sentenza e che Andrea abbia il risarcimento che merita dall’assicurazione. Anche il datore di lavoro ha le sue responsabilità e non possono non essere riconosciute dai giudici».
Il collega senatore di Forza Italia, nonché avvocato, Pierantonio Zanettin, anche lui membro della stessa commissione, propone «che lo Stato si faccia carico di un provvedimento ad hoc di solidarietà se la causa venisse persa. È patologico che ci siano tutti questi rinvii. Bisognerebbe capire cosa c’è sotto. Ci devono spiegare le ragioni. Comunque io mi metto a disposizione della famiglia e del legale. La giustizia ha l’obbligo di rispondere».
Ogni volta l’inizio del processo si sposta di sei mesi in sei mesi, quando va bene. L’ultima beffa qualche giorno fa quando la Corte d’Appello calendarizza un altro rinvio. L’avvocato della famiglia, Matteo Mion, non sa darsi una ragione: «Il motivo formale di tutti questi rinvii è il carico di lavoro che hanno nei tribunali, ma io credo più nell’inefficienza che nei complotti. In primo grado era il tribunale di Padova, adesso siamo in Corte di Appello a Venezia. Senza spiegazioni arriva una pec che ci informa dell’ennesimo rinvio. Ormai non li conto più. L’ultima volta il 4 dicembre, rinviati all’11 giugno 2026. La situazione è ingessata, non puoi che prenderne atto e masticare amaro».
In primo grado, il giudice Roberto Beghini, prova addirittura a negare che Andrea avesse diritto a un indennizzo Inail, sostenendo che quello non fosse un infortunio sul lavoro. Poi sentenzia che non c’è alcuna connessione, nemmeno indiretta, tra quanto successo ad Andrea e l’attività lavorativa che stava svolgendo, in quanto aveva già timbrato il cartellino, era quindi fuori dall’orario di lavoro, non era stata sottratta merce dal supermercato, né il ragazzo era stato rapinato personalmente. Per lui non è stata una rapina finita male. Nessuna merce sottratta, nessuna rapina. Il giudice Beghini insinua addirittura che potrebbe essere stato un regolamento di conti. Solo congetture, nessuna prova, nulla che possa far sospettare che qualcuno volesse fare del male al ragazzo. Giusto giovedì sera, alle 19.30, in un altro Prix market, stavolta a Bagnoli di Sopra (Padova), due banditi hanno messo a segno una rapina armati di pistola. Anche stavolta non c’erano le telecamere. Ed è il quarto colpo in nove giorni.
Ciò che è certo in questa storia è che il crimine è avvenuto all’interno del posto di lavoro dove Andrea era assunto, le telecamere erano spente e chi ha sparato è entrato dal retro dell’edificio attraverso un ingresso lasciato aperto. In un Paese normale i titolari del Prix, se non delle colpe dirette, avrebbero senz’altro delle responsabilità. «L’aspetto principale è l’assenza di misure di sicurezza del supermercato», conclude Mion, «che avrebbero tutelato il personale e che avrebbero consentito con buona probabilità di sapere chi ha sparato. C’è una responsabilità della sentenza primo grado, a mio avviso molto modesta».
Per il deputato di Forza Italia, Enrico Costa, ex viceministro della Giustizia e oggi membro della commissione Giustizia della Camera, «ancora una volta giustizia non è fatta. Il responsabile di quell’atto non è stato trovato, abbiamo un ragazzo con una lesione permanente e una famiglia disperata alla quale è cambiata la vita da un momento all’altro. È loro diritto avere un risarcimento e ottenere giustizia».
L’assicurazione della Prix Quality Spa, tace e si rifiuta di pagare. Sapete quanto hanno offerto ad Andrea? Cinquantamila euro. Ecco quanto vale la vita di un ragazzo.
Continua a leggereRiduci
Beppe Sala (Ansa)
«Il Comune di Milano ha premiato la Cgil con l’Ambrogino, la più importante benemerenza civica. Quello che vorremmo capire è perché lo stesso riconoscimento non sia stato assegnato anche alla Cisl. O alla Uil. Insomma, a tutto il movimento sindacale confederale», afferma Abimelech. Il segretario della Cisl richiama il peso organizzativo del sindacato sul territorio e il ruolo svolto nei luoghi di lavoro e nei servizi ai cittadini: «È una risposta che dobbiamo ai nostri 185.000 iscritti, ai delegati e alle delegate che si impegnano quotidianamente nelle aziende e negli uffici pubblici, alle tantissime persone che si rivolgono ai nostri sportelli diffusi in tutta l’area metropolitana per chiedere di essere tutelate e assistite».
Nel merito delle motivazioni che hanno accompagnato il riconoscimento alla Cgil, Abimelech solleva una serie di interrogativi sul mancato coinvolgimento delle altre sigle confederali. «Abbiamo letto le motivazioni del premio alla Cgil e allora ci chiediamo: la Cisl non è un presidio democratico e di sostegno a lavoratori e lavoratrici? Non è interlocutrice cruciale per istituzioni e imprese, impegnata nel tutelare qualità del lavoro, salute pubblica e futuro del territorio?», dichiara.
Il segretario generale elenca le attività svolte dal sindacato sul piano dei servizi e della rappresentanza: «Non offre servizi essenziali, dai Caf al Patronato, agli sportelli legali? Non promuove modelli di sviluppo equi, sostenibili e inclusivi? Non è vitale il suo ruolo nel dibattito sulle dinamiche della politica economica e industriale?».
Nella dichiarazione trova spazio anche il recente trasferimento della sede della sigla milanese. «In queste settimane la Cisl ha lasciato la sua “casa” storica di via Tadino 23, inaugurata nel 1961 dall’arcivescovo Giovanni Battisti Montini, il futuro Papa Paolo VI, per trasferirsi in una più grande e funzionale in via Valassina 22», ricorda Abimelech, sottolineando le ragioni dell’operazione: «Lo ha fatto proprio per migliorare il suo ruolo di servizio e tutela per i cittadini e gli iscritti».
La presa di posizione si chiude con un interrogativo rivolto direttamente all’amministrazione comunale: «Dobbiamo pensare che per il Comune di Milano ci siano sindacati di serie A e di serie B? Dobbiamo pensare che per il Comune di Milano ci siano sindacati amici e nemici?». Al sindaco Sala non resta che conferire con Abimelech e metterlo a parte delle risposte ai suoi interrogativi.
Continua a leggereRiduci