2023-04-20
Gilles Luneau: «Cibo in provetta, barbara ideologia biotech»
Nel riquadro, Gilles Luneau (IStock)
Il giornalista francese autore della prima grande inchiesta sulle lobby dell’alimentazione in vitro: «Per loro la natura non esiste. C’è solo un universo clinico. Dove transumanisti e cosiddetti altruisti-animalisti ritengono che si possa evitare la morte».Gilles Luneau in Francia è una istituzione. Grande esperto di agricoltura, è autore del più importante libro inchiesta sulla carne artificiale scritto finora (Carne artificiale? No grazie, edito da Castelvecchi). Lei è stato forse l’unico giornalista europeo ad aver realizzato una enorme inchiesta su questi prodotti di laboratorio che io fatico a chiamare carne. Che cosa ha visto?«Ha ragione a fare fatica a chiamarla carne. Ho visitato dei laboratori che non erano ancora allo stadio industriale. Ho visto computer e robot, quindi un mondo molto molto lontano dalla natura. La natura non esiste in questo settore. Ci sono dei microscopi, dei vetrini, delle colture cellulari. È così che appare questo universo: è più che altro un universo clinico».Quali interessi ci sono in gioco? «Dipende dalla prospettiva. Dal punto di vista dei produttori c’è chiaramente il desiderio di sostituirsi al mercato della carne tradizionale in cui circolano miliardi di euro. Hanno quindi il desiderio di impadronirsi di questo mercato. La mia inchiesta risale al 2018-2019, allora c’erano pochissime imprese nel settore in California e in Olanda, un piccolo gruppo che è riuscito a farsi finanziare soprattutto grazie alla Silicon Valley, dove tutto quello che è biotech interessa agli investitori. Poi il fenomeno è esploso: ora abbiamo circa 150 aziende produttrici di “carne” artificiale. Ci sono anche grandi operatori e grandi marchi come Nestlé, che vedono un’occasione di rinfrescare la loro immagine. Si propongono come quelli che tutelano il benessere animale eliminando i macelli, e come quelli che proteggono il pianeta perché “non c’è più l’emissione di metano dei bovini”. È chiaramente falso, però questo è il terreno su cui giocano».Sembra di capire però che esistano anche spinte culturali e ideologiche.«Sì. Come ha detto siamo in un mondo molto lontano dalla natura: siamo nella Silicon Valley, dunque parliamo di persone che hanno una visione transumanista, che sognano l’intelligenza artificiale, eccetera. Costoro si sono svegliati guardando con orrore all’agricoltura americana tradizionale. Poi c’è un altro punto di vista ancora, quello del pubblico, dei potenziali acquirenti. Per lo più giovani cittadini molto lontani dalla cultura rurale, privi di relazioni con la natura. Queste nuove generazioni appunto, pensano alla diversità e alla difesa della natura, ma non nel modo in cui la intendeva la mia generazione. Loro pensano piuttosto a una diversità tecnologica». Sono due mondi in apparente contraddizione.«Sì. Uno è un mondo in cui si parla più che altro di genetica, composto da persone che pensano forse di essere onnipotenti, di poter manipolare la natura. Si ritengono demiurghi che possono stabilire quello che succede alla terra, e quando parlo di terra intendo all’ecosistema. Costoro si pensano superiori a tutto e per loro la tecnica ha ragione su tutto. Non succede solo negli Stati Uniti, ma in tutti i Paesi occidentalizzati. E non solo: mi sono reso conto che anche in alcuni Paesi via di sviluppo c’è un certo fascino per questo mondo informatico, digitale, virtuale». Siamo di nuovo dalle parti del transumanesimo.«Non credo che si tratti solo di questo. Siamo di fronte a quella che io chiamo ideologia tecnica, che il filosofo francese Jacques Ellul aveva descritto anni fa. I transumanisti sono parte del movimento a favore della carne artificiale, ma non sono prioritari. Ci sono anche i cosiddetti altruisti-animalisti che si ispirano al pensiero di autori come Peter Singer, filosofo australiano che nel 1975 ha scritto Liberazione animale, che è un po’ la Bibbia del mondo animalista. Singer sostiene che tutto ciò che facciamo per proteggere la vita degli animali va bene. Quindi non c’è un “centro del male”: siamo di fronte a un’espressione della società digitale, virtuale, urbana. Da una parte ci sono le multinazionali alimentari, che hanno visto un mercato interessante. Poi ci sono coloro che vogliono ripensare totalmente l’agricoltura. E ancora quelli che dicono che grazie al cibo artificiale si potrà mangiare tutto quello che vogliamo, anche quello che non abbiamo mai sognato prima, si potrà inventare nuovi gusti. Ciò che accomuna tutto questo è che ci troviamo davanti a una rottura antropologica».È questo che la preoccupa?«Sì. Un tempo tutto era legato all’agricoltura, anche le privazioni alimentari religiose. Se cresciamo dei bambini dicendo: “Dovete proteggere la vita di tutti gli animali, e quindi nutrirvi artificialmente e non attraverso la natura”, creiamo appunto una enorme rottura antropologica. E una volta fatto questo non c’è più limite. Oggi sappiamo tutti che ci sono delle stagioni, che ci vuole del tempo per far crescere delle verdure o degli animali, che quindi tutto segue una stagionalità e c’è bisogno di tempo. Ma la nuova mentalità elimina il concetto dell’attesa, che pure nella vita è qualcosa di importante. Non possiamo fare sempre quello che vogliamo subito: anche gli psichiatri dicono che è l’inizio della barbarie».Una cosa che si è detta spesso nel dibattito italiano riguarda la convivenza fra la carne vera e la cosiddetta carne artificiale. È possibile che un prodotto non escluda l’altro?«Penso che non bisognerebbe far andare sul mercato la carne artificiale, perché ci sarebbe del dumping: la venderebbero a un prezzo più basso dell’altra, diventerebbe cibo per poveri mentre chi ha soldi continuerebbe a permettersi la carne buona. E questo è inaccettabile. Ma torno all’aspetto filosofico: alleveremo dei ragazzi che non avranno idea del fatto che la loro vita dipende dalla natura. Nel momento in cui iniziamo a nutrirci artificialmente possiamo anche allungarci la vita artificialmente, possiamo anche incrociarci artificialmente, geneticamente: tutto dipende dalla tecnica, no? La sola eccezione, e questo è un punto interrogativo che mi pongo, è che la carne artificiale potrebbe essere utile in caso di catastrofe, in caso di guerra, per poter nutrire dei soldati, dei civili, per salvare delle vite. Quindi in ambiti molto limitati. Poi esiste anche una dimensione che riguarda la salute: i prodotti ultratrasformati potrebbero in effetti essere potenzialmente pericolosi. Quindi se mangiamo questi prodotti artificiali una volta certamente non ci ammaliamo, ma se li mangiamo per tutta la vita... Questo non lo sappiamo...». In fondo è una questione di rispetto dei limiti. A tale proposito le chiedo un commento su un dibattito che si è sviluppato in Italia riguardo all’abbattimento di un’orsa che ha ucciso un giovane atleta in Trentino. Dopo aver ripopolato importando orsi sloveni, ci troviamo a fare i conti con le conseguenze e scopriamo che la natura non è facilmente controllabile. E che relazionarsi alla natura significa anche relazionarsi con la morte.«Non ho seguito il dibattito italiano, ma la questione della morte è fondamentale. Da quando siamo nati sappiamo tutti che c’è una fine. Speriamo che sia il più tardi possibile e anche di morire in buona salute, ma la morte fa parte dei limiti di cui parlavo prima, limiti della natura umana che evitano la barbarie mentale. Ciò che sta dietro la storia della carne artificiale è in fondo l’idea di evitare la morte. Sappiamo che per mangiare si uccide un pollo, ad esempio. Fa parte del ciclo vitale. Non si può evitare la morte né nasconderla. Per quanto riguarda la questione dell’orso, in Francia abbiamo un dibattito sui lupi».Credo che gli argomenti siano sostanzialmente identici.«Si è scatenato un dibattito molto agguerrito tra chi vuole e chi non vuole uccidere i lupi. È un tema molto complesso effettivamente, perché, se i lupi hanno accesso alle pecore che uccidono, si deve al fatto che le hanno sotto gli occhi, che si sono avvicinati alle zone più urbane. Io penso di essere un ecologista, sono un uomo di campagna e ho vissuto la maggior parte della mia vita in campagna. Voglio che ci siano i lupi selvaggi, penso che siano animali magnifici, rispettabili e molto importanti per la catena alimentare. Ma se vogliamo che il lupo rimanga selvaggio allora forse una fucilata bisogna fargliela sentire, ogni tanto, affinché non si avvicini troppo. Altrimenti non è più un lupo selvaggio, ma un cane».Qui torniamo al rapporto con la morte, che vale per gli animali ma anche per noi. Possiamo restare uccisi, ma anche uccidere.«Esatto. Anche se i vegani dicono il contrario, io penso che l’essere umano sia un po’ superiore alle altre forme di vita, e la nostra cultura lo dimostra. Questa superiorità comporta obblighi: dobbiamo rispettare l’ambiente in cui viviamo, evitare di distruggerlo, perché ne abbiamo bisogno, pure se alcuni se ne dimenticano. Dunque siamo tenuti a non dimenticare il rapporto con la natura. Ciò non significa che questo rapporto debba essere sempre “carino”. Sì, a volte si può anche uccidere un lupo. Mio nonno, prima della Prima guerra mondiale è stato attaccato dai lupi. Aveva un carrettino, attraversava con un cavallo la foresta, e i lupi hanno attaccato il cavallo. Sono cose che esistono e che sono sempre esistite e io, ripeto, difendo i lupi. Ma il fatto che siano animali bellissimi non significa che debbano sempre fare ciò che vogliono».
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