2020-10-10
Carlo Acutis, simbolo di credente millennial con il destino da santo patrono di Internet
Il ragazzino ipertecnologico stroncato da leucemia fulminante oggi sarà proclamato beato. Per rinverdire la fede dei giovani.Si ripetono sui giornali le lettere dei figli di malati di Covid che si lamentano perché il padre è in isolamento e loro non possono andare a trovarlo. Dicono che non riescono a staccare il cervello da questo pensiero ossessivo: il padre a letto, solo, che ha bisogno di tutto ma soprattutto di vedere e sentire i figli, ma il protocollo che stabilisce come curare questa malattia non lo il ragazzino morto in tre giorni di leucemia fulminante nel 2006 che papa Francesco ha voluto beato. Aveva 15 anni. Oggi pomeriggio nella Basilica Superiore di Assisi il cardinale Agostino Vallini celebra la solenne cerimonia; in origine avrebbe dovuto presenziare anche Angelo Becciu ma non è sembrato il caso. «Fin da piccolo aveva una spiccata propensione per il sacro», ricorda mamma Antonia. «Davanti alle chiese mi diceva: entriamo a salutare Gesù. A sette anni volle fare la prima comunione, andava tutti i giorni a messa. È stato lui a trasmettere la forza della fede a tutti noi». Nato a Londra, cresciuto in una famiglia della buona borghesia milanese, Carlo aveva un'altra passione che ha affascinato il Vaticano e ha indotto gli esperti della Congregazione delle cause dei santi a portare avanti l'iter per la beatificazione: Internet. Era ipertecnologico: computer, cinepresa, macchina fotografica digitale. Fin da bambino girava per casa con un camice e un badge da conferenza con scritto sopra «scienziato informatico». Così oggi quell'adolescente portato via dalla malattia è il primo beato millennial con il destino di diventare il patrono del Web.A sette anni ha chiesto la prima comunione, a otto programmava i computer come un webmaster, a 15 ha realizzato una mostra sui miracoli eucaristici che sta facendo il giro del mondo per la terza volta. Ha diffuso la parola del Signore su Internet, il suo sito è cliccatissimo, altre centinaia parlano di lui in tutte le lingue del pianeta. È una star dei social network. Ci sono scuole, oratori, istituti intitolati a Carlo Acutis. Dopo la morte la sua fama è diventata virale. Il dono di capire l'informatica non fu mai fine a sé stesso, con una delle frasi più celebri spiega ai coetanei che della tecnologia bisogna essere padroni, non schiavi. «Tutti nascono originali, molti muoiono fotocopie». La sindrome del gregge non lo ha mai sfiorato.Nell'affidarlo alla carezza divina nel Sinodo dei Giovani, il Santo Padre lo ha indicato come esempio di santità nell'era digitale. «Sapeva molto bene che i meccanismi della comunicazione e delle reti sociali possono essere utilizzati per farci diventare soggetti addormentati, dipendenti dal consumo, ossessionati dal tempo libero, chiusi nella negatività. Lui però ha saputo usare le nuove tecniche di comunicazione per trasmettere il Vangelo, comunicare valori e bellezza».Carlo era un ragazzone di un metro e ottanta simile a molti altri, suprema banalità per indicare che studiava, giocava con gli amici, faceva sport e il suo baricentro era l'istituto dei gesuiti Leone XIII, uno dei più prestigiosi di Milano. In soli 15 anni ha lasciato una traccia indelebile. A chi le chiede da dove arrivasse l'illuminazione divina, la mamma risponde così: «Ha avuto una tata polacca, religiosa, ma non poteva bastare. Il centro della sua giornata era l'incontro con Gesù, l'amico, il confidente. Lui ci parlava e a noi diceva: la conversione non è altro che alzare lo sguardo». L'aveva scritto su un quaderno, era la sua teoria accennata da giovane affascinato dalla vita e dalla religiosità: «La tristezza è lo sguardo rivolto verso sé stessi, la felicità è lo sguardo rivolto verso Dio. La conversione non è altro che lo spostamento dello sguardo dal basso verso l'alto. Basta un semplice movimento degli occhi». Un concetto basico e potente, l'invito ai giovani a non ripiegarsi su sé stessi, a non guardarsi la punta delle scarpe e vivere di autoreferenzialità. A Milano centro questo è già un miracolo. Dagli scritti di quel ragazzino si coglie l'essenza della beatificazione, forse duemila anni fa sarebbe stato il tredicesimo apostolo. «Era convinto», racconta la mamma «che noi fossimo più fortunati di coloro che vissero con Gesù a quel tempo, perché a noi basta andare in chiesa. Diceva: scendiamo e abbiamo Gerusalemme sotto casa». Guardare la luce che arriva dall'alto per capire le persone che soffrono in basso e camminano nell'esistenza fra gli ostacoli di una quotidianità di affanni. Ecco un'altra caratteristica profondamente cattolica.Quando tornava da scuola si fermava a salutare i portinai del quartiere, molti sono extracomunitari, di religione musulmana o induista. Raccontava loro la sua fede, le sue esperienze e qualcuno si è anche convertito. Faceva mettere in contenitori di plastica il cibo avanzato a pranzo e lo portava ai mendicanti della zona. Crescendo aveva cominciato a impegnarsi nel volontariato, andava ad aiutare alle mense dei poveri, si impegnava come catechista. Mamma Antonia: «Il contatto con il prossimo lo rendeva felice, per quelle persone provava un amore speciale. Conosceva tutti, voleva bene a tutti, aiutava tutti. E tutti lo cercavano, anche coloro che non credevano. Il giorno del suo funerale la chiesa era strapiena di gente sconosciuta e commossa. C'erano persone anche fuori sul sagrato. Testimoniavano la vita di mio figlio e io mi sentivo orfana. Lì ho capito definitivamente la forza del bene di quel mio ragazzo».Famiglia laica e benestante con poche concessioni alla religiosità, papà Andrea è manager nelle assicurazioni, il nonno era amico di Indro Montanelli. Prima di partorire Carlo, la madre era andata in chiesa tre volte: il giorno della comunione, quello della cresima e quello del matrimonio. «Lui è stato il salvatore di tutti noi». Ora riposerà al Santuario della Spogliazione di Assisi, dove 800 anni fa il giovane San Francesco si era tolto i vestiti ed era rimasto completamente nudo davanti a tutti, da vero innamorato della povertà. Assisi dove la famiglia trascorreva le vacanze e lui aveva potuto cogliere la magia di quel cristianesimo puro, intatto, che le pietre angolari ci hanno tramandato. Capace di andare oltre il mercimonio dei mille negozietti di gadget che travolgono il turista. La scelta di quel luogo e di quel parallelo è un altro segnale forte da parte del Vaticano e rafforza la volontà di trasformare la breve vita del millennial milanese nel simbolo di una fede che dai giovani vuole ripartire. Due mesi prima di morire, del tutto ignaro della malattia che lo avrebbe stroncato, Carlo Acutis aveva registrato un video nel quale diceva di essere vicino a lasciare il mondo e chiedeva di essere sepolto ad Assisi. «Quando peso 70 chili sono pronto a morire». L'ultimo giorno pesava 70 chili. Alla diagnosi della malattia sussurrò alla madre: «Il Signore mi ha dato una bella sveglia». Poi sorrise. Ora con una sintesi discutibile viene definito l'influencer di Dio, come se la sua storia fosse solo perfetta per una beatitudine 2.0 a beneficio dei coetanei. Qualche scettico sostiene che non ci sia un miracolo alla base della decisione, ma neppure Padre Pio poteva contare su un gesto eclatante; fu santificato per come visse le virtù. Inoltre papa Francesco ha autorizzato un decreto che riconosce come miracolo per intercessione di Carlo «la guarigione improvvisa e inspiegabile» sette anni fa di un bambino brasiliano affetto da una malformazione congenita al pancreas.Ora nella stanza con il quadro di Gesù nel centro di Milano dormono i fratelli Michele e Francesca, due gemelli. Sono arrivati quattro anni dopo la sua morte e la data prevista per la loro nascita era il 12 ottobre, giorno della scomparsa di Carlo. Nel viaggio verso le beatitudini lo accompagna una fotografia di montagna, lui cammina con uno zainetto in spalla. «Amava la natura, lo zaino era il suo bagaglio, si sentiva un pellegrino in viaggio», ricorda mamma Antonia. «Guardava le vette e le sfidava, fossero quelle della Lombardia o quelle dell'Umbria». La sua meta preferita era il monte della Verna dove Francesco ebbe le stigmate. Poi un giorno ha deciso di andare più lontano.
Jose Mourinho (Getty Images)