
A 83 anni se n'è andato il più grande dei talent scout. Fece miracoli all'Atalanta scoprendo big come Giampaolo Pazzini e Filippo Inzaghi.È andato a raggiungere tre suoi ragazzi: Chicco Pisani, Stefano Borgonovo e Piermario Morosini. Al primo ha già detto di frenare gli entusiasmi, al secondo di tornare qualche volta in più a centrocampo «perché aiutare gli altri non è un disonore». E al terzo di andare dentro senza paura «perché oltre alla gamba hai anche il piede». Mino Favini era un uomo dolce, quindi ha certamente pronunciato quelle parole sorridendo come se fossero carezze. «Con i giovani bisogna avere pazienza».Il più grande talent scout del calcio italiano è morto ieri a 83 anni dopo un ictus. Non si è più ripreso. Adorava i due figli, ma vivere senza l'amata moglie, compagna di una vita e mancata un anno fa, stava diventando triste. Lo chiamavano il mago di Meda, se n'è andato nella sua Brianza, quella dei mobilifici e dei maestri falegnami, dove i capannoni si alternano con le rotonde e i campi di calcio in quella città infinita che per i sociologi si estende fra Varese e Brescia passando per Milano. Fermo Favini detto Mino, invece, per Milano non è mai passato. Doveva diventare panettiere, come suo padre, alzarsi alle quattro di mattina a sfornare sfilatini. Ma giocava bene a pallone e negli anni Cinquanta ebbe una buona carriera da attaccante al Meda, poi Como, Brescia, Atalanta (ed ecco la Serie A), Reggiana. La provincia dorata, dove negli ultimi anni di campo questo ragazzo mite e riflessivo scopre il valore di aiutare a crescere i più giovani. È cattolico, per lui «trasmettere talenti» non è solo una frase fatta. Comincia al Como e non si ferma più. Ha il colpo d'occhio per intuire in un ragazzino di 13 anni le qualità e l'innata saggezza per farlo diventare un campione. Scopre Pietro Vierchowod, Marco Simone (preso a 60 milioni di lire dal Legnano e rivenduto al Milan per 8 miliardi), Stefano Borgonovo, Giovanni Invernizzi, Luca Fusi, Roberto Galia, Enrico Todesco, Giancarlo Centi, va a prendere in Sardegna Gianfranco Matteoli. L'ultimo della nidiata è Gianluca Zambrotta che sarà campione del mondo. Quel primo Como che con Rino Marchesi, Ottavio Bianchi ed Emiliano Mondonico in panchina negli anni Ottanta attraversa la Serie A come una micidiale folgore è suo, ha l'entusiasmo e la disciplina dei suoi ragazzi. Antonio Percassi lo osserva da Bergamo Alta e quando diventa presidente dell'Atalanta lo ingaggia. È il primo acquisto, in 25 anni sarà una miniera d'oro. E se oggi la squadra di Gian Piero Gasperini è il nostro piccolo, micidiale Ajax, il merito è ancora del Mino e di quelle sue straordinarie covate. Anche qui i nomi valgono più dei complimenti: Domenico Morfeo, Alessio Tacchinardi, Riccardo Montolivo, Giampaolo Pazzini, Fausto Rossini, Luciano Zauri, Massimo Donati, Gianpaolo Bellini, Giacomo Bonaventura, Andrea Consigli, Michele Agazzi, Manolo Gabbiadini, Daniele Baselli, Mattia Caldara, Roberto Gagliardini, Franck Kessié, Andrea Conti. Due squadre da Champions league. Fece ricco il Como, la Sampdoria di Paolo Mantovani che acquistava campioncini dal Como. E l'Atalanta, allora e sempre regina delle provinciali. Il Mino non si è mai stupito di tutto ciò, l'uomo che sussurrava ai ragazzi trovava facile costruire campioni seguendo due regole. La prima era il suo motto fondante, il senso di un lavoro da educatore prima che da allenatore: «Uomini si nasce, calciatori si diventa. Scoprire l'uomo è più difficile che costruire il calciatore». La seconda era una regola pratica, quasi oratoriana: requisiva gli accendini negli spogliatoi e controllava rigorosamente le pagelle. «Non puoi essere asino a scuola e pensare solo a divertirti in campo. I genitori meritano rispetto, la vita è una cosa seria». Chi non aveva tutte sufficienze passava brutti quarti d'ora. Con lui in giro per Milanello, Gigio Donnarumma (invece che andare a Ibiza) avrebbe fatto l'esame di maturità.Poi arrivava la tecnica, tanta tecnica, tecnica fino a sfinirti. «Perché l'applicazione affina la consuetudine e migliorare è questione di intelligenza». Era molto amico di Cesare Prandelli, lo considerava il terzo figlio. Fu proprio l'ex ct della Nazionale a spingere per averlo a Coverciano come responsabile del settore giovanile di tutte le nazionali, ma Antonio Percassi disse no, Favini era fondamentale a Zingonia. E il mago di Meda che doveva impastare farina e acqua, e che invece ha impastato teste, muscoli, cuore, nervi di generazioni di ragazzi diventati campioni, ubbidì. Prima che uomo di calcio, era un signore riconoscente. Oggi Prandelli lo ricorda così: «Perdo un padre è un maestro. È stato il più grande, un riferimento per molte generazioni. Se fosse venuto in Nazionale avrebbe cambiato non solo il modo di insegnare, ma il modo di pensare. Il modello Ajax lo aveva nel sangue».I più precoci? Diceva Vierchowod, Fusi, Montolivo, Bonaventura. I più folli? Morfeo e Simone. I più generosi? Centi, Fusi, Bellini, Invernizzi. Quante vite da mediano gli sono passate davanti. Li prediligeva, difensori guerrieri e tuttocampisti erano il suo debole. A loro, innanzitutto a loro, insegnava tecnica sino allo sfinimento. Il più amato? Borgonovo. «Era nato fuoriclasse. Sarebbe diventato anche un grande allenatore». Il più forte di tutti? Lì era sicuro, non aveva dubbi, come indicare un predestinato. «Oreste Didoné, un ragazzo del Como, riccioli biondi, baricentro basso, finte alla Maradona. A 16 anni era un fenomeno. Ma era sfortunato, gli infortuni e una certa fragilità caratteriale lo hanno tradito. Avrebbe avuto la stessa carriera di Francesco Totti e di Roberto Baggio».Se n'è andato l'ultimo maestro. Ma non di calcio, di vita. Con un tratto inarrivabile di gentilezza. In quei primi anni, considerandoli come giovani calciatori, aveva una premura speciale per i giovani giornalisti con penna Bic e taccuino che andavano al campo tutti i giorni e stavano in disparte per deferente timidezza. Si avvicinava lui, dialogava, rispondeva. Ti dava le dritte sulla formazione, ti spifferava il nome del prossimo giovane in rampa di lancio. Quando diventai direttore dell'Eco di Bergamo, a una cena mi strinse forte la mano e mi sussurrò: «Adesso posso dire di avere scoperto anche te». Arrivarono due lacrime, anche allora.
Nadia e Aimo Moroni
Prima puntata sulla vita di un gigante della cucina italiana, morto un mese fa a 91 anni. È da mamma Nunzia che apprende l’arte di riconoscere a occhio una gallina di qualità. Poi il lavoro a Milano, all’inizio come ambulante e successivamente come lavapiatti.
È mancato serenamente a 91 anni il mese scorso. Aimo Moroni si era ritirato oramai da un po’ di tempo dalla prima linea dei fornelli del locale da lui fondato nel 1962 con la sua Nadia, ovvero «Il luogo di Aimo e Nadia», ora affidato nelle salde mani della figlia Stefania e dei due bravi eredi Fabio Pisani e Alessandro Negrini, ma l’eredità che ha lasciato e la storia, per certi versi unica, del suo impegno e della passione dedicata a valorizzare la cucina italiana, i suoi prodotti e quel mondo di artigiani che, silenziosi, hanno sempre operato dietro le quinte, merita adeguato onore.
Franz Botrè (nel riquadro) e Francesco Florio
Il direttore di «Arbiter» Franz Botrè: «Il trofeo “Su misura” celebra la maestria artigiana e la bellezza del “fatto bene”. Il tema di quest’anno, Winter elegance, grazie alla partnership di Loro Piana porterà lo stile alle Olimpiadi».
C’è un’Italia che continua a credere nella bellezza del tempo speso bene, nel valore dei gesti sapienti e nella perfezione di un punto cucito a mano. È l’Italia della sartoria, un’eccellenza che Arbiter celebra da sempre come forma d’arte, cultura e stile di vita. In questo spirito nasce il «Su misura - Trofeo Arbiter», il premio ideato da Franz Botrè, direttore della storica rivista, giunto alla quinta edizione, vinta quest’anno da Francesco Florio della Sartoria Florio di Parigi mentre Hanna Bond, dell’atelier Norton & Sons di Londra, si è aggiudicata lo Spillo d’Oro, assegnato dagli studenti del Master in fashion & luxury management dell’università Bocconi. Un appuntamento, quello del trofeo, che riunisce i migliori maestri sarti italiani e internazionali, protagonisti di una competizione che è prima di tutto un omaggio al mestiere, alla passione e alla capacità di trasformare il tessuto in emozione. Il tema scelto per questa edizione, «Winter elegance», richiama l’eleganza invernale e rende tributo ai prossimi Giochi olimpici di Milano-Cortina 2026, unendo sport, stile e territorio in un’unica narrazione di eccellenza. A firmare la partnership, un nome che è sinonimo di qualità assoluta: Loro Piana, simbolo di lusso discreto e artigianalità senza tempo. Con Franz Botrè abbiamo parlato delle origini del premio, del significato profondo della sartoria su misura e di come, in un mondo dominato dalla velocità, l’abito del sarto resti l’emblema di un’eleganza autentica e duratura.
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A rischiare di cadere nella trappola dei «nuovi» vizi anche i bambini di dieci anni.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Messi in campo dell’esecutivo 165 milioni nella lotta agli stupefacenti. Meloni: «È una sfida prioritaria e un lavoro di squadra». Tra le misure varate, pure la possibilità di destinare l’8 per mille alle attività di prevenzione e recupero dei tossicodipendenti.
Il governo raddoppia sforzi e risorse nella lotta contro le dipendenze. «Dal 2024 al 2025 l’investimento economico è raddoppiato, toccando quota 165 milioni di euro» ha spiegato il premier Giorgia Meloni in occasione dell’apertura dei lavori del VII Conferenza nazionale sulle dipendenze organizzata dal Dipartimento delle politiche contro la droga e le altre dipendenze. Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui Meloni ha rivolto i suoi sentiti ringraziamenti, il premier ha spiegato che quella contro le dipendenze è una sfida che lo Stato italiano considera prioritaria». Lo dimostra il fatto che «in questi tre anni non ci siamo limitati a stanziare più risorse, ci siamo preoccupati di costruire un nuovo metodo di lavoro fondato sul confronto e sulla condivisione delle responsabilità. Lo abbiamo fatto perché siamo consapevoli che il lavoro riesce solo se è di squadra».





