2022-08-20
La «pax cacciucca» tra fascisti e anarchici
Nel 1936 Costanzo Ciano cercò di creare momenti di condivisione tra le anime avverse di Livorno. E «il ganascia», soprannome del consuocero del Duce, organizzò una serata popolare a base della zuppa di pesce labronica con musiche, canti e baldorie.Figlio di una secolare tradizione trasmessa per via orale, il cacciucco doveva aspettare venticinque anni, dopo la prima ricetta pubblicata nel 1864 da Andrea Rigutini, per trovarsi finalmente di nuovo trascritto su di un libro. Un’attesa che poteva valere la pena se la firma aveva l’autorevolezza di Pellegrino Artusi, con un ma. L’autore de La Scienza in Cucina e l’Arte di mangiar bene lo registra puntualmente in due varianti. Alla ricetta 455 si parla di un cacciucco «buono quanto si voglia, è sempre un cibo assai grave e bisogna guardarsi dal farne una scorpacciata», senza specificarne l’area di riferimento. Diverso il giudizio sulla variante della ricetta 456. «Imparato a Viareggio, è assai meno gustoso dell’antecedente, ma più leggero e più digeribile». Non serve essere Maigret per capire che l’innominabile è il cacciucco senior, quello con l’incubatrice delle cucine labroniche. Il paradosso è che l’Artusi, a Livorno, ci aveva vissuto per alcuni anni e Viareggio, a quel tempo, doveva ancora diventare la capitale turistica della Versilia. Cacciucco versatile, quindi, sia allo scorrere del tempo, che al variare dei diversi campanili. Da alcuni definito «piatto felice sintesi di autarchia e anarchia». Autarchico per la provenienza diretta delle sue componenti. Anarchico in quanto, rispettando alcuni imprescindibili paletti, «è uno spartito sul quale ogni cuoco può creare, personalizzandolo, la propria sinfonia di sapori». Per il pesce il numero ideale era di tredici varietà diverse, ma la realtà l’ha descritta bene Otello Chelli, un cantore della Livorno popolare, posto che vi erano molte madri di famiglia che si recavano al mercato in attesa che si vendesse il pesce migliore, e poi si contendevano tra loro «la minutaglia, gli scarti liscosi e spinosi, così da garantire il pranzo alle bocche di una famiglia troppo numerosa». Seduti a tavola ecco la descrizione di Paolo Ciolli, posto che era un piatto non facile da proporre ai piccoli, in quanto «le lische erano un vero tormento, che trovavi mescolate al sugo, mentre le polpe del pesce si rifugiavano nell’angolo più remoto del piatto e finalmente il pane che, fiaccato nella sua interezza, si nascondeva sul fondo diventando molliccio». Questa la realtà delle famiglie normali, posto che un piano B lo si trova sempre. Infatti, ai rinomati Regi Bagni Pancaldi della Livorno aristocratica vi era il cacciucco con il blasone. I pesci spinati e deliscati, con l’aggiunta di più nobili scampi, gamberoni e aragoste. Sulle lische è stato lo stesso Ciolli a proporre la soluzione. Basta porle in forno per due ore e diventano gustose e croccanti. Vallo a sapere prima, forse avrebbe convertito anche un riluttante Artusi. Il cacciucco non vive di solo pescato plebeo o con qualche quarto di nobiltà di lenza. L’utilizzo della conserva di pomodoro riduce il potere assorbente del pane, con un maggior equilibrio del gusto. Lo zenzero, alias peperoncino, serviva «ad addomesticare una qualità non sempre eccelsa del pesce di riciclo». Un tempo le gallette più gradite rispetto al pane, magari dimenticato nella dispensa da qualche giorno. Comunque, al di là della libertà di espressione che ogni cucina domestica si riservava di portare in tavola, compatibilmente con quanto poteva permettersi, vale la regola trasmessa da Aldo Santini «l’importante è che ci sia varietà, altrimenti addio sinfonia marinara. Il cacciucco deve avere il sugo tirato, denso, ma non drammatico, un ventaglio di sapori che corrano sulla lingua, guai se ristagnano grumosi». Santini, classe 1922, depositario di un imprinting cacciucchesco dalle solide radici. Sua la descrizione della cacciuccata passata alla storia, edizione 1936. Durante il ventennio, in una Livorno dalle forti tradizioni (e quindi resistenze) anarchiche, i referenti del fascio cittadino cercavano ogni modo per creare momenti di condivisione comune. Cosa meglio del cacciucco ad accompagnare una serata ricca di spettacoli assortiti. «Davanti al cantiere navale una nave di cartone con orchestra, poeti e scrittori. Un tale ritmo di musiche, canti e baldorie che l’Oktober Fest impallidisce sullo sfondo». Ras cacciucco Costanzo Ciano, sanguigno consuocero del Duce, soprannominato «il ganascia» per le sue performance ghiottone. Ne nasceva una sorta di pax cacciucca, almeno per una sera. Dalle cronache dell’epoca la testimonianza di un vinaio anarchico. «Arrivarono migliaia di fiaschi dal Chianti, su carri a barca trainati da due cavalli, che sembravano piramidi. Nessuno parlò di politica, nessuno ci ruppe le scatole con faccetta nera o alalà. A noi anarchici Ciano, che ci conosceva bene, ci salutò con aria da pigliaingiro, mentre anche lui ci dava sotto». Edizione del ’36 passata alla storia anche per altro. Lorenzo Viani, viareggino, artista poliedrico, ad un certo punto arringò quella pletora di livornesi gaudenti. «Da noi, nel cacciucco, ci mettiamo anche il pescecane, per renderlo più aggressivo, più virile», anche se, in realtà, si trattava della variante più mansueta, il palombo, l’unico a non dover necessariamente essere pescato dalle acque locali. Si è discettato a lungo sulle differenze tra le due varianti, livornese e viareggina, ma la sintesi migliore è quella di Fabio Canova, storico trattore ai cui tavoli si sedevano palati complici quali Alberto Sordi, Marcello Mastroianni e tutto il jet set dell’epoca. «Ci vuole il pesce più ’gnorante, perché più è ignorante il pesce e meglio viene il cacciucco». Le altalene della vita vanno e vengono e così stava per accadere anche per il cacciucco. Oramai in molti locali proposto come piatto unico e richiesto per lo più dagli irriducibili dei peccati di gola secondo tradizione. Il colpo di coda che lo riporta a nuova vita nel 1989. Una notissima azienda del settore alimentare, con testimonial Diego Abatantuono, inizia a lanciare degli spot con un cacciucco preconfezionato da supermercato. Apriti cielo, il sindaco di allora, GranFranco Lamberti, ironia della sorte salernitano verace, scende in campo a difendere la migliore tradizione labronica. La stampa non aspettava altro. Titoli a quattro colonne: «La guerra del cacciucco». Tradizione contro volgarizzazione industriale. Gruppi di caciuccofili riconvertiti risvegliano i sopiti appetiti ed entrano nei locali ordinandolo «con tanto zenzero da infocarci la gola». Tra gli ambasciatori del cacciucco risorto Beppino Mancini, era da lui che si sedeva Carlo Azeglio Ciampi nei suoi sempre più radi ritorni a Livorno e fu lo stesso Mancini che, in occasione dell’ottantacinquesimo compleanno, portò una versione speciale di cacciucco direttamente al Quirinale, mentre a Viareggio, grazie a Romano Franceschini, lo si può anche portare a casa, come piatto del buon ricordo. Cacciucco al passo con i tempi con il cacciucco pride, laddove vari testimonial si fanno ritrarre con dei curiosi baffetti da folpo in un originale concorso fotografico che, un anno, ha visto dietro l’obiettivo nientemeno che Rocco Toscani, rampollo di Oliviero. Sui titoli di coda la bellissima descrizione di un concorso per il miglior cacciucco scritto da un autore futurista, Cristoforo Mercati, in arte Krimer, pubblicato nel 1937. La sfida tra quattro cuochi, in palio una botte di vino. Il timido Tista si fa scrivere la ricetta dalla moglie, ma il suo piatto non viene nemmeno preso in considerazione dalla giuria, già sazia degli altri. «Me lo mangio tutto io, se non lo volete». Peccato che si era confuso con gli ingredienti e, al posto dell’acqua, aveva usato una bottiglia con varechina. Lo salvarono per un pelo, con ripetute lavande gastriche perché, come sottolinea Krimer, «nel cacciucco la varechina non c’entra nulla».
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)