2024-05-21
La terza stagione di «Bridgerton» fatica a decollare
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Una foto di scena della terza stagione di Bridgerton che andrà in onda su Netflix (Foto ufficio stampa Netflix)
In onda su Netflix da giovedì 16 maggio, il terzo capitolo dell'adattamento tratto dai romanzi di Julia Quinn non è, per ora, incisivo come i primi due.
In onda su Netflix da giovedì 16 maggio, il terzo capitolo dell'adattamento tratto dai romanzi di Julia Quinn non è, per ora, incisivo come i primi due.Quando la prima stagione di Bridgerton è comparsa su Netflix, creatura ibrida fra realtà e finzione, Shonda Rhimes ha riaffermato il suo potere. Ne hanno parlato tutti. Ne hanno discusso. Era questione di verosimiglianza, sì, ma pure di accuratezza storica. Era, in buona parte, una polemica, ché mai la società inglese della Reggenza avrebbe potuto essere composta così come la Rhimes ha immaginato, da gente d’ogni etnia. Bridgerton, per settimane, è stato il fulcro di ogni chiacchiera televisiva e, su Netflix, si è fatto strada in ogni classifica, primo fra i titoli più visti. Poi, però, qualcosa è cambiato. Quel guizzo iniziale, la capacità (diabolica e insindacabile) della Rhimes, sublime sempre nel creare casi di serialità, si è perso. La seconda stagione dello show, nuovo adattamento tratto, come il precedente, dai romanzi pseudo-storici di Julia Quinn, non è stata incisiva e discussa quanto la prima. E la terza, che sulla piattaforma streaming ha debuttato giovedì 16 maggio, con quattro degli otto episodi totali, lo è stata ancora meno.Bridgerton, capitolo tre, è risultato stanco, un po’ trito. Qualcuno ha detto la colpa sia da attribuirsi alla mancanza di relazioni pruriginose, alla mancanza di quell’attrazione fatale che ha dominato la prima stagione dello show (e l’immaginario nazionalpopolare che ne è scaturito). Ma l’inespresso, invece, non è stato il problema. Il ripetersi dell’uguale lo è stato. La terza stagione di Bridgerton, la cui trama peraltro è stata costruita sul quarto capitolo dei libri della Quinn, ha provato a replicare lo schema delle precedenti: di nuovo l’Inghilterra, la Reggenza, l’alta società e le sue tribolazioni. Di nuovo, una donna in età da marito, la famiglia di origine, la ricerca affannosa di un amore che funzioni, tanto per la società quanto per la persona. Finora, è andata bene. Le donnine della dinastia Bridgerton sono state protagoniste della prima stagione, il fratello maggiore della seconda. Tutto è parso perfetto. Finché gli sceneggiatori non hanno deciso di campionare l’esistenza del fratello minore dei Bridgerton e della sua amica di sempre, la dolce e furba Penelope. Disastro. I due, che nelle stagioni precedenti sono stati legati (anche) da una forma di amore non corrisposto, quello di Penelope per Colin, non sono in grado di sostenere l’intero impianto narrativo. Non lo è Penelope, che sarebbe più interessante se indagata come zitella e lingua velenosa. Non lo è Colin, copia sbiadita del fratello più grande. Bridgerton ha perso l’occasione di reinventarsi, reiterando i propri modelli. E Netflix, nell’assecondarla, ha fatto di peggio: ha rinunciato al traino delle polemiche, delle chiacchiere. Si è seduta sulla promessa facile del brand, sacrificando la sua «qualità» e dimostrandosi – ancora una volta – incapace di dire basta.
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