«Multinazionale» della truffa spolpa il Duomo di Firenze: rubati due milioni alla Onlus
Ovunque ci fossero soldi da ripulire c’era la multinazionale di via Asiago a Milano. Lì, nelle vicinanze del domicilio di Chunhui Hu, una dei quattro cittadini cinesi coinvolti, venivano distribuiti i proventi del maxi sistema di riciclaggio che i 13 indagati (sette italiani, un nigeriano, un albanese e i quattro cinesi) erano riusciti a mettere in piedi e che, hanno scoperto gli inquirenti di Brescia, aveva già movimentato 30 milioni di euro in soli sei mesi, facendoli sparire e ricomparire altrove dopo averli puliti con false fatture.
A contribuire al montepremi monstre c’è anche un colpaccio. Il più remunerativo. Quello che ha creato un buco nero nei conti di una Onlus fiorentina, l’Opera di Santa Maria del Fiore, ovvero l’ente che custodisce il Duomo di Firenze, il campanile di Giotto e il Battistero di San Giovanni. L’associazione sarebbe stata «indotta», secondo l’accusa, a pagare 1.785.000 euro «su un conto corrente fittizio» per il restauro del Complesso Eugeniano. La cricca si era infilata nelle email tra l’ente e l’impresa edile, aveva clonato le comunicazioni e deviato il bonifico. Gli inquirenti lo chiamano schema «man in the middle», letteralmente «l’uomo nel mezzo». E quell’uomo, ritengono gli investigatori, sarebbe un soggetto «gravato da numerosi precedenti di polizia». L’Iban della società sul quale era stato inviato il bonifico era riconducibile a lui.
La cifra è poi stata spezzettata e girata su altri conti correnti. Da lì il resto è venuto giù come una valanga. La Squadra mobile, dopo la denuncia del direttore della Onlus, ha cominciato a seguire il denaro e ha trovato una costellazione di conti correnti: italiani, lussemburghesi, polacchi, lituani, spagnoli, tedeschi, nigeriani e croati. E soprattutto ha individuato due fratelli italiani, Luca e Daniele Bertoli. Per la Procura sono avrebbero ricevuto, spezzato, disperso e riconsegnato il denaro «provento di frodi informatiche e fiscali».
Nel provvedimento di fermo per nove dei 13 indagati (altre 21 persone sono state perquisite) si legge che uno dei due fratelli Bertoli, Luca (nome al quale viene legata la truffa alla Onlus fiorentina), e Antonino Giuseppe De Salvo sarebbero «il fulcro dell’intera indagine» e che gli accertamenti hanno svelato «l’esistenza di un gruppo dedito in via esclusiva all’attività di riciclaggio di denaro provento di frodi fiscali o, in altri casi, di frodi informatiche». Mezzo milione di euro in contanti è saltato fuori dagli armadi, dai cassetti e dalle auto. È stato proprio uno dei fratelli Bertoli a vuotare il sacco. Ha raccontato che gli fu proposto di ricevere «un importo di 250.000 euro per conto di altre persone che avevano necessità di monetizzare e fare dei pagamenti» e che lui avrebbe dovuto trasferire quei soldi «in favore di altri».
In cambio avrebbe trattenuto il 5%, da dividere con chi aveva mediato. Dalle carte emerge che la Srl di Bertoli era una società fantasma: sede fittizia, nessun bilancio, nessun dipendente, zero dichiarazioni fiscali. Serviva, secondo l’accusa, a emettere fatture per operazioni inesistenti e a far girare il denaro. Lo stesso valeva per un’impresa di costruzioni di proprietà di Chunhui Hu, detta «Sharon», che aveva la disponibilità di conti esteri sui quali far scivolare i fondi illeciti che, infine, diventavano contanti. E per lo scambio di denaro «si è presentata sua maestà in persona […] tutta vestita Versace», commentano i due fratelli a telefono.
Un passo falso, che ha permesso agli investigatori di individuare la donna. E poi il «sistema» che, secondo l’accusa, funzionava così: le società cartiere emettevano fatture per operazioni inesistenti, gli imprenditori compiacenti pagavano, il denaro veniva spostato su conti esteri e da lì rientrava in Italia in contanti. «Sharon» si appoggiava a due connazionali, Weihong Xu e Huihui Hong, incaricati di recuperare i soldi dai conti esteri e di consegnarlo a Bertoli. Gli appuntamenti avvenivano in via Asiago, rapidissimi, con i pacchi di contanti riconsegnati agli italiani grazie a un «pin» per evitare errori. Gli imprenditori, italiani e albanesi, compravano questo «servizio» per evadere tasse o per riciclare proventi illeciti.
La commissione era chiara: tra il 2 e il 7% trattenuto dalla rete, più un altro 2% destinato ai due intermediari italiani. È così che si arriva ai 30 milioni di euro movimentati in sei mesi. Uno degli snodi chiave è datato 4 settembre. Quel giorno gli agenti fermano un’auto con a bordo la cinese Hong. Nascosti in sacchetti di plastica ci sono 197.220 euro. La somma era divisa in mazzette da 10.000 euro. Nel provvedimento di fermo la Procura scrive che la Hong «compiva operazioni tali da ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa di denaro contante». Il ritratto perfetto degli «spalloni» d’antan. Ma è a questo punto che gli indagati avrebbero fatto un altro passo falso. Sul telefono cellulare di uno degli indagati arriva la fotografia del verbale di sequestro del denaro. E in chat compare un commento: «Siamo sfigati». «In tal modo», sottolineano gli inquirenti, «rivendicando la paternità della somma di denaro» e «palesando il proprio diretto interesse al rientro dei contanti».
Proprio Luca Bertoli sperava di poter concludere l’ultima operazione prima di lasciare l’Italia: «Sto aspettando il 13 di pagarvi poi scappo, poi me ne vado». Parole captate dagli inquirenti e sottolineate nelle esigenze cautelari.


