2022-10-25
«Boris» è tornato per punire la brutta tv
La quarta stagione della serie culto non delude. A 12 anni dalla fine dell’originale, anziché gli show generalisti italiani sbertuccia le grandi piattaforme streaming dove tutto è globalizzato: apostoli neri, storie buone a ogni latitudine e teorie gender sul set.È stato come ritrovare un vecchio amico vedere Boris, un amico che sotto i segni del tempo ha mantenuto intatto il proprio viso, la propria natura. È stato un riconoscersi sincero, una risata di gusto, un momento bello. Qualcosa che spesso i revival non concedono. Boris, di cui Disney+ ha presentato a Roma la quarta stagione a ben 12 anni dalla fine della serie originale, non è stato stravolto. Aggiornato, piuttosto. La parodia della tv pubblica, quel cazzeggio sublime sul suo metodo di fare fiction («A cazzo di cane», direbbe Renè Ferretti), sui suoi talenti boriosi e inesistenti, sugli sceneggiatori opportunisti, decisi a sacrificare la propria arte al dio Denaro, è sparita, rimpiazzata dalla contemporaneità. C’è «la piattaforma» in Boris 4, al debutto su Disney+ domani, una Netflix senza nome dove a comandare è la legge unica dell’algoritmo, il gusto mutevole di un pubblico caprone. E c’è il cast della serie che ha fatto scuola: Francesco Pannofino, Paolo Calabresi, Ninni Bruschetta, Corrado e Caterina Guzzanti, Pietro Sermonti, Carolina Crescentini, ciascuno con il proprio personaggio. Boris è invecchiato, il pesce rosso che guardava muto Gli occhi del cuore ha compiuto 17 anni. Ma l’anima dello show, il suo spirito non se lo sono portato via i decenni passati. Elio e le Storie Tese cantano ancora, nella sigla della serie. La melodia è la stessa di sempre. Le parole, però, sono cambiate, e non solo nel jingle d’inizio. «Lock», «inclusività», «storia teen», «ghost», sormontati dall’«high concept», la moneta di scambio che permette di rendere una storia fruibile «worldwide, in Corea o negli Stati Uniti», sono stati scelti come cardini di una narrazione nuova (nell’oggetto, non nei modi, fortunatamente). Stanis La Rochelle, quel divetto inconsapevole ossessionato dal confronto con la capacità recitativa degli americani, è diventato produttore. Regista, pure. Ha sposato la sua co-protagonista, la tremenda - e altrettanto inconsapevole - Corinna («cagna maledetta» per tutti gli addetti ai lavori), e tentato di sfondare con una fiction su Gengis Khan. Una tragedia. Corinna ci ha rimesso «tre piotte», ma Stanis non ha perso la tracotanza. Sarebbe rientrato delle perdite con una nuova produzione, una fiction d’aspirazione internazionale sulla vita di Gesù. La «piattaforma» se la sarebbe comprata. Avrebbe avuto «il lock». I soldi. La fama. La parte del protagonista, di Gesù. E, dalla sua, l’aiuto della squadra con cui nella serie madre ha fatto Gli occhi del cuore. È così che Boris comincia di nuovo, con il tentativo di Stanis di blandire Alison e Alessandro, il fu stagista («Seppia», lo chiamavano) promosso a «capoccia» della «piattaforma». Torna tutto, dunque: la metatelevisione, l’immensa capacità satirica di una serie che ha saputo mettere a nudo l’impianto produttivo italiano, il sistema tv, gli «umma-umma» e il menefreghismo, le distorsioni narcisistiche di attorucoli affetti da egomanie. Ma nel «tutto», questa volta, c’è qualcosa di più, l’«high concept» di cui nella serie si ride. Boris 4 ce l’ha davvero, quella moneta di scambio che è data da un racconto senza confini. Ce l’ha, perché la «piattaforma» è il pretesto per sbertucciare il politicamente corretto che ha travolto Hollywood e compagnia. «E a proposito di inclusione, se un componente del set definisce sé stesso omosessuale, transgender o asessuale, c’è la questione fondamentale delle desinenze: “Io sono stato”, “io sono stata”, ecco, no. Noi favoriamo l’utilizzo del più corretto e privo di genere “statu”. Esempio: “Sei andatu alla riunione? Ho trovato molto bravu il relatoru”. Ecco, per noi anche dire “abbella” può essere considerata una molestia», è la lectio impartita ad attori e macchinisti nel corso relativo al codice comportamentale cui attenersi durante la lavorazione di una serie per la piattaforma. «Mi scusi, professoressa, quindi per voi è meglio se uno dice “Ammerdu”?», è la replica straordinaria di Calabresi alias Biascica, capo elettricista del set. La battuta apre la quarta stagione, poi è un affastellarsi di stoccate ad un impianto produttivo che non è (più) italiano. La piattaforma ha viziato tutto, ed è l’algoritmo ad imporre che La vita di Gesù, fiction in fieri, sia riletta alla luce di esigenze moderne: apostoli di etnia mista, meglio se coreani, perché questo oggi piace, amori fra ragazzini, un Gesù tredicenne deciso a litigarsi Maria Maddalena con Giuda. Boris 4 non allude, dice, e a gran voce pure. Non è cosa nuova, ci si è abituati nel 2007, quando Boris è comparso su Fox. Lo si è ricordato anni dopo, quando Netflix ha deciso di acquistarlo e riproporlo. L’effetto sorpresa, dunque, è passato. Boris 4 non ha l’esplosività della serie madre. Ma il cinismo, la comicità, la capacità satirica, quella sì. E, in un mondo ormai dominato dalla minaccia della censura, è quantomai prezioso.
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