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2018-06-22
Elogio del nazionalista Bolton spedito a Mosca
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ANSA
Nel giro di trentasei ore, prima il Wall Street Journal e poi il temuto portavoce di Vladimir Putin, Dmitry Peskov, hanno fatto intendere che sarà il consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Donald Trump, John Bolton, a visitare Mosca la prossima settimana (passerà prima da Londra e Roma), nel quadro delle manovre di preparazione e avvicinamento verso il possibile vertice tra i due leader, che potrebbe tenersi in Europa (forse in Austria) questa estate.
La stampa ostile alla Casa Bianca, sempre in cerca di faglie e fratture nell'amministrazione statunitense, ha già cominciato a dire che Bolton, messo ai margini della trattativa con la Corea del Nord (curata soprattutto dal segretario di Stato, Mike Pompeo), ha ora un'occasione di recupero, per fare lui da sherpa in una missione altrettanto delicata. Ma forse vale la pena di dedicarsi a osservazioni meno superficiali, per un verso centrate sul profilo di John Bolton, e per altro verso sulla capacità dell'amministrazione Usa di lavorare davvero come un'orchestra, con diversi ruoli e strumenti. John Bolton è probabilmente da anni l'analista di politica internazionale più rispettato in ambito repubblicano. Uomo di ingegno e talenti multiformi: raffinato conferenziere nei think tank di Washington, divulgatore efficace nel «popolarizzare» in tv le questioni geopolitiche più complesse come contributor di Fox News, e combattivo ex ambasciatore alle Nazioni Unite. Ora si trova a svolgere una quarta funzione, sicuramente la più importante della sua carriera, quella di consigliere per la sicurezza nazionale del presidente, l'uomo che a diretto contatto con Donald Trump definisce le linee di politica internazionale e i relativi riflessi sulla sicurezza degli Usa.
Molto si è discusso sulla sua matrice ideologica all'interno del variegato arcipelago repubblicano. New Republic si è divertita a stabilire una specie di tripartizione nella politica estera del centrodestra Usa: i realisti prudenti, i neoconservatori (interessati alla promozione globale della democrazia), e i nazionalisti radicali, altrettanto falchi dei secondi ma meno interessati a questioni di regime change e esportazione democratica. Secondo New Republic, Bolton andrebbe collocato in quest'ultima categoria. E forse non è una definizione errata. L'uomo ha principi saldi, ma è in grado di metterli al servizio della missione che Trump si è dato, e cioè riportare l'America al centro del ring della politica internazionale, facendo valere la logica dell'interesse nazionale, e agendo in controtendenza rispetto all'arretramento obamiano.
Parliamoci chiaro: negli otto anni dell'amministrazione Obama, l'America si è ritirata - fisicamente e metaforicamente - un po' da tutti i teatri decisivi, lasciando un vuoto facilmente occupato da altri attori (dall'Iran alla Russia alla Cina, e per altro verso dal terrore islamista). Ecco, la missione di Trump, in ciascuno di quei teatri, è duplice: mostrare che l'America c'è di nuovo, e mettere in primo piano una capacità muscolare di riprendersi la sua centralità in nome degli interessi nazionali statunitensi. Bolton è indubbiamente l'uomo che può offrire a Trump l'expertise per fare tutto questo: conoscenza profonda dei dossier, padronanza di istituzioni e strumenti della politica internazionale, e una duttilità che può mettere idee forti al servizio di una missione politica chiara.
Nel caso della Russia, è evidente che Trump deve tenere presenti diversi fattori. Da un lato, sa che tanti (quelli che ancora sperano nel Russiagate, sempre più inconsistente) cercano l'occasione per mostrare che il suo atteggiamento è eccessivamente morbido verso Mosca. Dall'altro, sa che Putin può essere un interlocutore, ma potrebbe anche scegliere di orientarsi verso Est, in un'alleanza con Pechino e Teheran, abbandonando il dialogo con l'Occidente. Quindi Trump deve essere allo stesso tempo forte, determinato e cauto: vuole un vero reset con la Russia, non vuole «regalarla» a Cina e Iran, ma al tempo stesso cerca di fare in modo che l'incontro con Putin avvenga nelle maggiori condizioni di forza possibili dal punto di vista di Washington.
E qui si arriva all'altra osservazione che facevo all'inizio: la capacità dell'amministrazione Trump di diversificare strumenti, toni, personalità. I soliti critici tendono a descrivere Trump come un rozzo accentratore, ma sbagliano due volte, perché non c'è nulla di rozzo nella sua strategia, e, al posto dell'accentramento, c'è un'intelligente molteplicità di ruoli e figure. La signora Nikki Haley, ambasciatore all'Onu, gioca la parte più aggressiva e legata ai princìpi: ne è testimonianza l'atto fortissimo di questa settimana, il preannunciato abbandono Usa del Comitato diritti umani delle Nazioni Unite, ormai egemonizzato da dittature antisraeliane e antiamericane. Il generale James Mattis, segretario alla Difesa, conosce umori (e effettive possibilità) dell'apparato militare. Mike Pompeo, il nuovo segretario di Stato, non è solo un falco anti Iran ma è a sua volta un uomo che ha sensibilità di principio. Pochi se ne sono accorti, ma a inizio settimana, con una mossa quasi reaganiana, il dipartimento di Stato Usa ha chiesto alla Russia il rilascio di oltre 150 prigionieri politici e religiosi, aggiungendo che Mosca è tornata alla «crudele pratica da era sovietica della repressione del dissenso». Come a dire: vogliamo trattare con voi, ma non dimentichiamo la bussola della libertà, della democrazia, e anche, come negli anni Ottanta, un'attenzione ai dissidenti, ai prigionieri di coscienza, alle minoranze politiche e religiose oppresse.
Ecco, Bolton è l'uomo che può tenere insieme tutte queste sensibilità, attraverso il collante di un realismo forte e di un'efficace focalizzazione sull'interesse nazionale e su una rinnovata centralità americana. Si può scommettere che, se si arriverà alla stretta di mano tra Trump e Putin, Washington - fino a un minuto prima del meeting - metterà The Donald nella migliore condizione di forza immaginabile.
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Riduci
Il consigliere Usa la prossima settimana sarà in Russia per organizzare il vertice estivo tra Donald Trump e Vladimir Putin. Bollato come falco e neoconservatore, l'ex ambasciatore è l'uomo in grado di sintetizzare le varie anime di un'amministrazione determinata, dopo gli anni di Barack Obama, a far tornare il Paese protagonista nel mondo. E il primo obiettivo è il reset con il Cremlino.Nel giro di trentasei ore, prima il Wall Street Journal e poi il temuto portavoce di Vladimir Putin, Dmitry Peskov, hanno fatto intendere che sarà il consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Donald Trump, John Bolton, a visitare Mosca la prossima settimana (passerà prima da Londra e Roma), nel quadro delle manovre di preparazione e avvicinamento verso il possibile vertice tra i due leader, che potrebbe tenersi in Europa (forse in Austria) questa estate. La stampa ostile alla Casa Bianca, sempre in cerca di faglie e fratture nell'amministrazione statunitense, ha già cominciato a dire che Bolton, messo ai margini della trattativa con la Corea del Nord (curata soprattutto dal segretario di Stato, Mike Pompeo), ha ora un'occasione di recupero, per fare lui da sherpa in una missione altrettanto delicata. Ma forse vale la pena di dedicarsi a osservazioni meno superficiali, per un verso centrate sul profilo di John Bolton, e per altro verso sulla capacità dell'amministrazione Usa di lavorare davvero come un'orchestra, con diversi ruoli e strumenti. John Bolton è probabilmente da anni l'analista di politica internazionale più rispettato in ambito repubblicano. Uomo di ingegno e talenti multiformi: raffinato conferenziere nei think tank di Washington, divulgatore efficace nel «popolarizzare» in tv le questioni geopolitiche più complesse come contributor di Fox News, e combattivo ex ambasciatore alle Nazioni Unite. Ora si trova a svolgere una quarta funzione, sicuramente la più importante della sua carriera, quella di consigliere per la sicurezza nazionale del presidente, l'uomo che a diretto contatto con Donald Trump definisce le linee di politica internazionale e i relativi riflessi sulla sicurezza degli Usa. Molto si è discusso sulla sua matrice ideologica all'interno del variegato arcipelago repubblicano. New Republic si è divertita a stabilire una specie di tripartizione nella politica estera del centrodestra Usa: i realisti prudenti, i neoconservatori (interessati alla promozione globale della democrazia), e i nazionalisti radicali, altrettanto falchi dei secondi ma meno interessati a questioni di regime change e esportazione democratica. Secondo New Republic, Bolton andrebbe collocato in quest'ultima categoria. E forse non è una definizione errata. L'uomo ha principi saldi, ma è in grado di metterli al servizio della missione che Trump si è dato, e cioè riportare l'America al centro del ring della politica internazionale, facendo valere la logica dell'interesse nazionale, e agendo in controtendenza rispetto all'arretramento obamiano. Parliamoci chiaro: negli otto anni dell'amministrazione Obama, l'America si è ritirata - fisicamente e metaforicamente - un po' da tutti i teatri decisivi, lasciando un vuoto facilmente occupato da altri attori (dall'Iran alla Russia alla Cina, e per altro verso dal terrore islamista). Ecco, la missione di Trump, in ciascuno di quei teatri, è duplice: mostrare che l'America c'è di nuovo, e mettere in primo piano una capacità muscolare di riprendersi la sua centralità in nome degli interessi nazionali statunitensi. Bolton è indubbiamente l'uomo che può offrire a Trump l'expertise per fare tutto questo: conoscenza profonda dei dossier, padronanza di istituzioni e strumenti della politica internazionale, e una duttilità che può mettere idee forti al servizio di una missione politica chiara. Nel caso della Russia, è evidente che Trump deve tenere presenti diversi fattori. Da un lato, sa che tanti (quelli che ancora sperano nel Russiagate, sempre più inconsistente) cercano l'occasione per mostrare che il suo atteggiamento è eccessivamente morbido verso Mosca. Dall'altro, sa che Putin può essere un interlocutore, ma potrebbe anche scegliere di orientarsi verso Est, in un'alleanza con Pechino e Teheran, abbandonando il dialogo con l'Occidente. Quindi Trump deve essere allo stesso tempo forte, determinato e cauto: vuole un vero reset con la Russia, non vuole «regalarla» a Cina e Iran, ma al tempo stesso cerca di fare in modo che l'incontro con Putin avvenga nelle maggiori condizioni di forza possibili dal punto di vista di Washington. E qui si arriva all'altra osservazione che facevo all'inizio: la capacità dell'amministrazione Trump di diversificare strumenti, toni, personalità. I soliti critici tendono a descrivere Trump come un rozzo accentratore, ma sbagliano due volte, perché non c'è nulla di rozzo nella sua strategia, e, al posto dell'accentramento, c'è un'intelligente molteplicità di ruoli e figure. La signora Nikki Haley, ambasciatore all'Onu, gioca la parte più aggressiva e legata ai princìpi: ne è testimonianza l'atto fortissimo di questa settimana, il preannunciato abbandono Usa del Comitato diritti umani delle Nazioni Unite, ormai egemonizzato da dittature antisraeliane e antiamericane. Il generale James Mattis, segretario alla Difesa, conosce umori (e effettive possibilità) dell'apparato militare. Mike Pompeo, il nuovo segretario di Stato, non è solo un falco anti Iran ma è a sua volta un uomo che ha sensibilità di principio. Pochi se ne sono accorti, ma a inizio settimana, con una mossa quasi reaganiana, il dipartimento di Stato Usa ha chiesto alla Russia il rilascio di oltre 150 prigionieri politici e religiosi, aggiungendo che Mosca è tornata alla «crudele pratica da era sovietica della repressione del dissenso». Come a dire: vogliamo trattare con voi, ma non dimentichiamo la bussola della libertà, della democrazia, e anche, come negli anni Ottanta, un'attenzione ai dissidenti, ai prigionieri di coscienza, alle minoranze politiche e religiose oppresse. Ecco, Bolton è l'uomo che può tenere insieme tutte queste sensibilità, attraverso il collante di un realismo forte e di un'efficace focalizzazione sull'interesse nazionale e su una rinnovata centralità americana. Si può scommettere che, se si arriverà alla stretta di mano tra Trump e Putin, Washington - fino a un minuto prima del meeting - metterà The Donald nella migliore condizione di forza immaginabile.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Riduci
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Riduci
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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