2022-07-07
BoJo solo, Downing street si svuota. E non ci sono soluzioni all’italiana
Ancora dimissioni di ministri e sottosegretari, il premier inglese prova a resistere. Ma anche il suo partito ora chiede l’uscita di scena. La crisi è combattuta a viso aperto in Parlamento. Altro che la pantomima di Giuseppe Conte...L’assemblea di Westminster non ha forma di emiciclo: i deputati conservatori e laburisti siedono gli uni di fronte agli altri, in banchi contrapposti, e i leader sono collocati nella prima fila della rispettiva metà campo. È anche per questo che una crudele massima della politica britannica recita così: gli avversari stanno di fronte a te, i nemici stanno dietro di te.Deve essersene ricordato ieri Boris Johnson, mentre alle sue spalle il dimissionario ministro della Salute Sajid Javid pronunciava un implacabile atto d’accusa nei suoi confronti («Troppe volte siamo stati costretti a dire bugie»). Il premier guardava davanti a sé, senza girarsi all’indietro e dunque senza vedere negli occhi l’ex amico. Né dev’essere stato simpatico per lui, alla fine, ascoltare un irridente «bye Boris» gridato da una voce anonima, quasi a salutare la probabile caduta del governo. Nel pomeriggio Johnson ha dovuto fare i conti con un’altra prova umiliante davanti al Liaison Comittee, dove ha ammesso di aver «probabilmente» incontrato in Italia, anni fa, quando era ministro degli Esteri, un ex Kgb vicino a Vladimir Putin, Alexander Lebedev. A seguire si è recata a Downing Street una delegazione di ministri per chiedere le dimissioni del premier: tra loro perfino il neonominato titolare dell’Economia Nadim Zahawi. Un autentico assedio, al quale è sempre più difficile resistere.I primi due spari erano partiti già martedì sera, con le contestuali dimissioni di Javid e del ministro dell’Economia Rishi Sunak. Poi, ieri, una doppia ulteriore pioggia: per un verso, altre dimissioni di ministri e sottosegretari (complessivamente, circa 29); per altro verso, altre firme di deputati (64 in sole 24 ore) che hanno chiesto di sfiduciare Johnson. Come si ricorderà, Johnson aveva superato un voto di fiducia a inizio giugno. In teoria, quella mancata sfiducia metterebbe in salvo il premier per almeno un anno, ma i parlamentari ribelli hanno chiesto una modifica delle regole per poter presentare un’altra sfiducia rapidissimamente. Ieri sera, però, l’apposito comitato ha - per il momento - detto no al cambio delle regole (almeno fino a lunedì, quando cambieranno i vertici del comitato stesso), per quanto Johnson abbia fatto sapere di essere pronto ad affrontare un nuovo voto di fiducia, mostrando la sua proverbiale tempra combattiva. Ma per lui nemmeno sostituire i ministri dimissionari sarà facile, visto l’alto numero di parlamentari del partito che intendono sfiduciarlo. La stessa lettura dei giornali di ieri per Johnson è stata un calvario, e per ragioni tutt’affatto diverse dall’ostilità pregiudiziale che trasuda dai media italiani, che lo detestano a causa di Brexit e delle sue posizioni sul Covid, già prima della guerra russo-ucraina. Sul Telegraph un commento di Philip Johnston spiegava che «nemmeno Johnson potrebbe resistere a dimissioni così». Ancora più duro il Times: Daniel Finkelstein ha invitato altri ministri «a seguire» i dimissionari e «a fare la cosa giusta», mentre l’editoriale non firmato, quello che esprime la posizione del giornale, era significativamente intitolato «Game over». E ieri è stata resa nota la copertina del settimanale di orientamento thatcheriano Spectator: un eloquente titolo «After Boris» e gli aspiranti alla successione disegnati come aspiranti «miss» in concorso per sostituirlo. Tra i papabili, i nomi sono tanti: Javid stesso, oppure Jeremy Hunt, o David Frost, o la ministra degli Esteri Liz Truss, o il ministro della Difesa Ben Wallace, oppure Tom Tugendhat (veterano di guerra in Iraq e Afghanistan), oppure il neo cancelliere Zahawi: tutte leadership saldamente atlantiste, perché la posizione sulla guerra non è in discussione da parte di nessuno. Quanto alle cause della crisi, ha certamente pesato l’ultimo scandalo delle molestie di cui è stato accusato un uomo politicamente vicino a Johnson, Chris Pincher, tanto quanto la vicenda del partygate. In queste circostanze, una volpe come Johnson ha preferito recitare la parte di quello che non sapeva nulla di ciò che accadeva intorno a lui. E questo è parso troppo ai britannici, che non amano essere presi in giro dai propri politici. Ma le cause reali della crisi sono più profonde. E riguardano per un verso l’economia, cioè i mancati tagli di tasse e l’adozione di una contestata linea dirigista; per altro verso, le recenti sconfitte elettorali (alle locali e in due suppletive). In altre parole, finché il partito ha considerato Johnson una macchina da voti, gli ha perdonato tutto: ma non appena il vento elettorale è cambiato, i Tories sono diventati spietati con il loro leader. Certo però per i conservatori risalire la china non sarà facile: tra gli aspiranti successori, tutti potrebbero essere ottimi premier, ma nessuno sembra un trascinatore elettorale. Da ultimo, balza agli occhi la differenza con l’Italia (anche in tempi di guerra): in Uk, gli scontri politici sono veri, cruenti, e avvengono in pieno parlamento; qui, come dimostra la pantomima di ieri di Giuseppe Conte, prevale la sceneggiata, per giunta extraparlamentare.
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