2021-06-26
Bocconi poco nobili ma per Shakespeare (e Belli) prelibatezze da riservare ai preti
Dalla parte posteriore della gallina al muscolo triangolare della spalla bovina, i riferimenti all’ingordigia degli ecclesiasticiC’è chi sostiene - ma non avendo prove qui lo dico e qui lo nego - che se si fissa una gallina negli occhi, questa rimane ipnotizzata. Paralizzata. Se vi cimentate nell’operazione e la prova riesce, prendete la gallina e giratela di 180 gradi in modo di avere il posteriore rivolto verso di voi e poter così individuare il sottocoda, parte anatomica cicciosa, tutta polpa tenera, fatta a triangolo. È quella che popolarmente e gastronomicamente viene chiamata «boccon del prete» e che, oltre alle galline, portano con spavalderia anche tacchini, anatre, oche.Il nome scientifico sarebbe codrione, ma l’espressione popolare resiste fin dal medioevo. Nelle regalìe che i contadini dovevano ai padroni aristocratici e ai preti, tra i tagli migliori doveva essere compresa quella noce polputa e tanto buona (la ghiandola del grasso va tolta) da sciogliersi in bocca: il «boccon del prete», appunto. La fama di tale cibo è tale che, nei secoli, la letteratura ne fa ampio uso. Troviamo il boccon del prete in bocca a Mercuzio nel Romeo e Giulietta di William Shakespeare. È vero che il grande Bardo lo chiama parson’s nose, il naso del prete, ma il taglio è lo stesso e la giusta traduzione in veronese, data l’origine dei due amanti, è bocon del prete (a Verona perde una «c», ma è apprezzato il doppio per antica tradizione scaligera).Carlo Emilio Gadda, ottima forchetta, nei suoi libri (ripubblicati recentemente da Adelphi), cita aragoste, maionesi, risotti e via mangiando. Nel romanzo più famoso, Quel pasticciaccio brutto di via Merulana, si diverte a mostrare il poco rispetto di una gallina verso il brigadiere Pestalozzi. Gli mostra il didietro e scoperchiando «il boccon del prete in bellezza» lo omaggia di un «intorcolato alla Borromini». Gli regala, cioè, il tipico escremento pollino semiliquido, bianco-giallastro, attorcigliato come un’architettura barocca di Francesco Borromini.Ma chi vuole approfondire la conoscenza su questa e altre delizie che si contendevano signori, alti prelati e monaci medioevali, deve leggere l’interessantissimo libro di Giovanni Ballarini, docente all’università di Parma per mezzo secolo e presidente onorario dell’Accademia Italiana della Cucina, pubblicato qualche anno fa con un titolo che non ha bisogno di spiegazioni: «Il boccon del prete. Ovvero il culo della gallina? Scienza, storia e tradizioni in tavola». È una raccolta di storielle, modi di dire e personaggi legati al cibo e ai costumi alimentari del passato e del presente. Ballarini, sul cibo elemento che distingue l’uomo dagli altri esseri viventi, mette i puntini sulle «i»: «Per le piante e per le bestie il cibo è solo nutrizione, ma per gli esseri umani no. Il cibo è identità, tradizione, memoria».Nel dizionario della gastronomia troviamo molte parole legate agli uomini di Chiesa e al loro abbigliamento. Come il cappello del prete. Adesso non fa più parte del guardaroba dei sacerdoti che alla tonaca preferiscono gli abiti borghesi, ma il cappello a tre punte, il tricorno dei tempi andati, fa parte usualmente del linguaggio di macellai e norcini che definiscono così sia la materia prima che il prodotto finito. Cappello del prete è il muscolo della spalla del bovino fatto a triangolo scaleno. È un taglio leggermente grasso che a Roma chiamano polpa di spalla, a Milano fesone, a Catania paliciata, voce che corrisponde alla copertina, altro nome del muscolo.Ma capel del pret o, semplicemente, prete, è chiamato anche un salume della tradizione norcina emiliana. Anche qui il nome è dovuto alla forma triangolare, bombata al centro, che ricorda il tricorno. Il capel del pret vanta cinque secoli di storia. È il bis-bis-bisnonno di cotechino e zampone. Alcuni storici della tavola lo fanno risalire al 1511, all’assedio di Mirandola da parte di papa Giulio II. È un prodotto sartoriale. Il muscolo che si trova sotto la scapola anteriore del ’nimal, il suino, dopo opportuna salatura con un miscuglio di sale, pepe in grani spezzati, aglio ed erbette aromatiche, viene cucito nella cotenna. La cucitura dev’essere perfetta, fatta un ago lungo almeno una spanna e spago robusto che durante la cottura impedisca fuoriuscite di carne e dei suoi succhi. L’esperto norcino conclude l’operazione schiacciando il capel del pret tra due assi strettamente legate tra loro. Dopo una stagionatura di un mese e mezzo si compie il suo ghiotto destino: lo si fa bollire per almeno quattro ore, poi si serve tagliato a fette. S’abbina bene con la mostarda della bassa parmense fatta con cotogne o pere nobili e il lambrusco. Ma anche un bel contorno di purè è niente male.Come il boccon del prete, anche gli strozzapreti richiamano l’ingordigia di ecclesiastici e vescovi che fin dal medioevo il popolo affamato vedeva ben pasciuti. Strozzapreti è il nome di una pasta fresca, di media lunghezza, senza uova, tipica di quelle regioni dell’Italia centrale che facevano parte dello Stato pontificio: Lazio ed Emilia Romagna soprattutto. È una pasta attorcigliata da masticare bene e non, così pensava il popolo malignetto e invidioso, come li sbafavano con foga il basso e l’alto clero. Giuseppe Gioacchino Belli, poeta romano del 19° secolo raccolse questi umori popolari nel sonetto La scampaggnata arrivando a dire che era impossibile che questa pasta grossa un dito, potesse strozzare i preti i quali, a suo parere, erano capaci di papparsi perfino l’uomo più grasso della Roma di quell’epoca, tale Paolo Biondi, senza fare una piega. Belli, mangiapreti all’ennesima potenza, racconta di un pranzo fuori porta la cui ultima portata è un piatto «de strozzapreti cotti cor zughillo... Io nun pozzo capí ppe cche rraggione/ s’abbi da dí cche strozzino li preti: quanno oggni prete è un sscioto (semplice) de cristiano/ da iggnottisse magara in un boccone/ er zor Pavolo Bbionni sano sano».Lo scrittore e gastronomo Graziano Pozzetto nel libro La cucina romagnola, avanza una seconda ipotesi: il nome deriverebbe dal gesto con cui l’azdora (la casalinga) attorciglia la pasta per ricavarne gli strozzapreti: un gesto rabbioso, come avesse tra le mani il grasso collo di un prete al quale aveva dovuto consegnare le uova. Non erano sotto il dominio papalino i trentini che, però, dal 1545 al 1563 assistettero al Concilio di Trento e ai banchetti dei prelati che si rimpinzavano di sostanziosi gnocchetti fatti con pane, spinaci, uova e grana, ben conditi con burro fuso e salvia: gli strangolapreti. Gnocchi sono anche gli strozzapreti pugliesi e calabresi. Persino la Corsica vanta un piatto di gnocchi anticlericale: gli sturzapreti.Ricordano i paccheri campani le maniche dei frati, una pasta corta che si presta ad accogliere qualsiasi tipo di ragù, di carne o vegetale, che s’incunea nel cavo della pasta come sparivano nelle ampie maniche del saio dei frati cercatori i doni raccolti durante la questua. Le mes mànag da frè (mezze maniche dei frati) sono un tipo di pasta fatta con il torchio che, cucinate e servite in brodo, costituiscono il piatto tipico della vigilia di Natale nel piacentino.Suore e monache hanno prestato il nome a un particolare tipo di pasterella che i siciliani fanno risalire al 1725 quando suor Virginia Casale, in un monastero agrigentino, inventò i seni delle vergini. Cioè di loro suore. Il nome casto suggeriva un unico peccato: di gola. La fama e la forma del dolce uscì dall’isola per sbarcare a Napoli (le zizze di monaca) e in Abruzzo (le sise delle monache). Terminiamo con la frutta. In Calabria l’anguria dalla grossa scorza verde con la polpa rossa, è chiamato zi’ pàrrucu, lo zio parroco. L’accostamento del tondo cocomero con il faccione rubicondo di qualche prevosto è intenzionale. Dal boccone del prete allo zi’ pàrrucu c’è un ghiotto menu: un mangiare da papa.