«Il Bitcoin può arrivare anche a 20 mila dollari. Il caso-Terra è una lezione per le criptovalute»

Per Debach, analista di eToro, Bitcoin potrebbe scendere fino a 20 mila dollari
I giorni di passione più intensi delle criptovalute sembrano essere terminati. Assorbito lo choc del collasso di TerraUSD e Luna, il mercato si sta riassestando senza sapere come la rumorosa scomparsa della stablecoin impatterà sull’attrattività del mercato.
In Italia, in particolare, i numeri erano in ascesa soprattutto tra i più giovani. «Essendo che il cliente retail si basa su entusiasmo e paura, mi aspetto che l’interesse per un periodo vada a scemare – spiega Gabriel Debach, italian market analyst di eToro intervistato da Verità&Affari – Come risponderà sul lungo periodo è la vera prova del 9».
Il momento per le criptovalute, però, era delicato anche prima di settimana scorsa.
«I fattori che incidono sono molteplici: dall’alta inflazione che fa tentennare gli investitori all’aggressività della Fed e alla mancanza di fiducia generalizzata. Le difficoltà stanno influenzando anche il mercato del mondo reale, non solo delle criptovalute, che non possono trascendere dalla situazione economica. In questo momento, le cripto sono gravate da una reazione eccessiva a un evento che ha riguardato una blockchain. Il collasso di TerraUSD e Luna non dovrebbe avere conseguenze dirette su altre criptovalute come il Bitcoin, se non una reazione di timore. È interessante il fatto che negli ultimi mesi sempre più soggetti, da Stati a compagnie aeree, stiano riconoscendo le criptovalute: si tratta di una certificazione del mondo delle valute virtuali».
Nell’ultimo periodo ha sofferto anche il Nasdaq, con un andamento molto simile a quello di Bitcoin. Condividono gli investitori?
«La correlazione tra Nasdaq e Bitcoin è sui massimi storici: 0,91 negli ultimi 30 giorni. È decisamente possibile che in questo momento ci siano gli stessi investitori, su scale di rischio e investimento diverse. In parte può essere un aspetto negativo, perché prima investire in Bitcoin offriva un’opportunità di diversificare rispetto al Nasdaq. Con una stretta correlazione cresce anche la necessità di intervenire per fare delle correzioni».
Bitcoin è tornato intorno ai 30 mila dollari, valore più basso dal luglio dell’anno scorso. È il suo plateau o ritiene possibile che la discesa continui ancora?
«Bitcoin, per sua natura, vive di momenti di crescita e di correzioni dei massimi raggiunti per lunghi periodi. Se guardiamo il suo andamento vediamo che è in un momento di correzione dal picco di novembre (69 mila dollari, ndr) da circa 180 giorni. Una correzione del 63% del valore che non rappresenta la discesa peggiore dalla sua storia: da dicembre 2017 a dicembre 2018 Bitcoin ha perso circa l’84%. Il rimbalzo di questi giorni è un bel segnale, ma non è detto che abbiamo toccato il fondo: potrebbe scendere anche intorno ai 20 mila dollari. L’alta volatilità del Bitcoin, nel bene e nel male, è il motivo per cui genera anche così tanto interesse».
Il collasso di Terra-Luna è il caso della settimana. Può spiegarci cos’è successo? Ritiene possibile che lo strumento “resusciti”?
«Partiamo dalla seconda: è difficile pensare che possa rinascere per una questione di fiducia nello strumento che ha un precedente così pesante alle spalle. Fare una ricostruzione dell’accaduto con precisione è difficile per il momento perché ci sono ancora molti elementi confusi. Quello che è certo è che c’è stato un attacco finanziario che ha generato le prime scosse. Da qui è partita una “corsa agli sportelli” simile a quella che hanno subito anche realtà della finanza tradizionale che ha fatto collassare l’intero sistema. Terra, basandosi su un algoritmo e sostenendosi con uno strumento volatile per natura come una criptovaluta, non ha retto».
Anche Tether ha tremato, ma nonostante l’oscillazione ha retto. È un segnale che le stablecoin possano effettivamente fare da architravi del sistema delle criptovalute?
«Sarà sicuramente una sfida da qui in avanti. La caduta di Terra potrebbe creare anticorpi nel mercato, farlo imparare dagli errori e correggere le falle evidenziate dal caso-Terra. Il Peg è difficile da mantenere anche per una banca centrale. Tether è stato avvantaggiato dal fatto di essere legato comunque a un valore reale. Non si tratta della prima oscillazione importante che subiscono le stablecoin. Tether, per esempio, nel 2017, aveva toccato i 92 centesimi. Penso che scosse “di assestamento” ce ne saranno ancora: sarà uno stress test per il mercato».
Il clamore suscitato dal caso-Terra ha fatto sollevare il tema di una possibile stretta della regolamentazione per dare più garanzie agli investitori. Pensa che arriverà? E nel caso, c’è il rischio di snaturare il mercato delle criptovalute?
«L’attenzione in questo momento è alta. Qualcuno ha definito Terra la Lehman Brothers delle criptovalute, il che è ironico considerato che Bitcoin è nato anche in risposta alla delusione creata dalla finanza tradizionale nel 2008. Io immagino che una restrizione arriverà visto che l’Europa sembrava già orientata in tal senso, mentre il caso Terra, negli Usa, è arrivato proprio nel momento in cui si stavano raccogliendo informazioni per prendere una decisione sulle criptovalute. Bisognerà trovare un compromesso tra gli interessi e la natura delle criptovalute, pensate per dare anche alti guadagni assumendosi rischi, e le necessità di una regolamentazione».
Matteo Carnieletto da Betlemme, Cisgiordania
Sono i segni della guerra ad accoglierti all’aeroporto di Tel Aviv. Le colonne che dividono gli spazi all’interno dell’edificio sono piene di adesivi. Volti che non ci sono più. Sono soprattutto di giovanissimi, uccisi il 7 ottobre di due anni fa. Oppure durante la guerra contro Hamas a Gaza. Anche gli aranci che erano stati piantati a circa 200 metri dall’aeroporto non ci sono più. Al loro posto terra divelta e scura. Niente frutti, per ora. Soltanto il ricordo di un missile lanciato dagli Houthi qualche mese fa e arrivato pericolosamente vicino all’aeroporto.
Le macchine che incroci per le strade della capitale portano sulle fiancate dei grandi fiocchi gialli per non dimenticare le 251 persone rapite da Hamas. Il 7 ottobre del 2023 è stato uno spartiacque. È il nuovo prima e dopo Cristo per Israele. E pure per la Palestina.
Gerusalemme arranca. I turisti sono pochi nonostante si stia avvicinando il Natale. I controlli moltiplicati. Lungo la via dolorosa, quella che Cristo fece portando la croce, i militari israeliani scrutano con attenzione chiunque gli si pari davanti. Del resto, non lontano da qui, sono stati ammazzati Adiel Kolman e Aharon Bennett. Basta un coltello per togliere la vita.
Dal 1948, arabi e israeliani hanno sempre faticato a convivere. Ogni parte voleva prevalere sull’altra. «Facci caso» - ci racconta Omar, un ortodosso - «non vedrai mai un ebreo e un mussulmano insieme. Se mai dovessi vederli è perché accanto a loro c’è anche un cristiano». E pare proprio così, soprattutto a Betlemme, che torna a festeggiare il Natale dopo due anni di buio. Ne ha parecchio bisogno la città del pane. La disoccupazione, ci racconta una ragazza, è ormai arrivata all’82%. Un dramma nel dramma. L’acqua è contingentata, come dimostrano le grandi cisterne installate sopra le case. Bisogna raccoglierne il più possibile perché non è detto che domani, o dopo, ci sarà.
Alla polizia turistica non sembra vero di vedere degli stranieri. «Prego, prego», si affrettano a dire, indicando la catena che ci separa dalla chiesa della Natività che, insieme a quella del Santo sepolcro, racchiude la nascita, la morte e la resurrezione di Gesù. Ci invita a scavalcarla. Le regole vanno infrante. Ci sono dei turisti e devono essere trattati bene. Meglio ancora quando viene a sapere che siamo giornalisti: «Dite che Betlemme continua a vivere», si raccomanda. Poco più in là, un gigantesco albero di Natale illumina la piazza. Sotto di lui un presepio dai colori sgargianti. È semplice ma c’è tutto: Gesù, che è già arrivato, Maria, Giuseppe, e pure i re Magi, che a quanto pare non possono permettersi il lusso di essere fermati da un’altra guerra. Meglio portarsi avanti ed essere lì ad adorare il Bambinello.
È ormai sera inoltrata. Arrivare a Betlemme non è stato semplice. Il checkpoint principale, quello che permette alle macchine dirette in Cisgiordania di defluire più facilmente, era chiuso. Bisogna fare un giro più largo, quindi. Sono già passate le 9 di sera, eppure la piazza è piena. Ci sono famiglie, bambini che giocano a pallone. Un ragazzo ci ferma e ci spiega come per lui il Natale sia innanzitutto dolcezza. Un altro, invece, ci spiega che è musulmano ma che anche per lui questa festa rappresenta innanzitutto dolcezza e che la celebrerà. In piazza c’è perfino un Babbo Natale che cerca di vendere cappellini e palloncini per bambini. È emozionato. Non faceva più questo lavoro da anni. Ed eccolo lì con il suo pancione fuori misura (ma neanche troppo visto che il cibo qui a volte scarseggia) e la voglia di far felici gli altri: «Siete tutti benvenuti a Betlemme, tutto il mondo deve venire qui».
Non è facile però. Come ci spiega un ex diplomatico dell’autorità palestinese che ha trattato a lungo i negoziati con Israele, «il 7 ottobre ha cambiato tutto, da una parte e dall’altra. La soluzione dei due Stati, che già prima era difficile da realizzare, ora è impossibile. Israele si è spostata molto a destra e quello che era il pensiero di pochi è oggi diventato il pensiero di tanti. Allo stesso tempo, però, né Hamas né l’autorità palestinese rappresentano un’alternativa valida per noi». Quale sia l’alternativa, però, non si sa. Si vive sospesi. Come se qualcosa di nuovo e tremendo dovesse accadere ancora. I coloni, a Gerusalemme Est, continuano a occupare le case dei palestinesi. E pure in Cisgiordania. La convivenza pare una chimera. Ma poi ci tornano in mente le parole di Omar: «Se c’è un cristiano, allora è possibile». Come a Betlemme, del resto.
Non solo si introducono un revisore dei conti e un certificatore della sicurezza, ma si prevede che al posto degli inquilini morosi sborsino quelli in regola. La soluzione è un’altra: pignorare i locali di chi non è a norma.
Quando la politica mette mano alla casa c’è sempre da preoccuparsi. Ancora oggi i proprietari si leccano le ferite per quella simpatica tassa introdotta da Mario Monti con la scusa di rimettere in ordine i conti: l’Imu, una patrimoniale vera e propria che colpisce chiunque di abitazioni ne possegga due, compresa quella ereditata dai genitori o mantenuta nel paese in cui si è nati. Né si può dimenticare quando, con la scusa di aggiornare i dati, vari governi, come quello presieduto da Mario Draghi, hanno provato a rivedere le rendite catastali, il che ovviamente avrebbe significato un aggravio per le tasche delle famiglie. Adesso, a introdurre quella che non è una tassa ma rischia comunque di trasformarsi in una spesa in più per decine di migliaia di condomini, è l’attuale maggioranza che, con una geniale intuizione, si prepara a rivedere le norme che regolano la vita di chi vive in appartamento. Prima firmataria della riforma è Elisabetta Gardini, parlamentare di Fratelli d’Italia.
Che cosa dice la proposta incardinata alla Camera? Innanzitutto che chi vuole amministrare un condominio deve avere una laurea. Non è chiaro se questo preluda all’istituzione di percorsi di studi universitari con specializzazione nella gestione di condomini, sta di fatto che, se si ha un diploma senza essere iscritto a un albo, ordine o collegi di area economica, giuridica o tecnica (cioè se non si è geometra, perito industriale o ragioniere), non si potrà più amministrare un condominio. Fin qui passi, anche se ogni tanto si discute dell’abolizione del valore legale della laurea, si capisce la ratio della norma che si vuole introdurre, per evitare pasticci nella tenuta dei conti. Viene, poi, il rinnovo automatico del professionista incaricato a meno che l’assemblea non decida diversamente, così da evitare pericolosi stalli in cui chi deve occuparsi della gestione non ha un mandato e deve operare solo per l’ordinaria amministrazione.
Però, poi, ci sono un paio di novità che rischiano di trasformarsi in un salasso per moltissime famiglie. La prima riguarda i morosi, cioè quelli che non pagano le spese condominiali. Invece di rendere più spedite le esecuzioni nei loro confronti, la legge concede loro più tempo. Non solo: se un proprietario di casa non paga, per esempio le spese di manutenzione già eseguite o l’erogazione del gas che pro quota gli compete, i fornitori - cioè, manutentori e gestori - potranno rivalersi non soltanto sul condomino moroso, ma anche sul condominio e - soprattutto - sui proprietari che sono in regola con le spese. In pratica, i furbi la faranno franca perché basterà farsi trovare con il conto corrente prosciugato per non sborsare un euro. Gli onesti, invece, rischiano di dover pagare anche per i disonesti. Infatti, se passa il disegno di legge, in caso di mancato pagamento il fornitore potrà attingere direttamente al conto corrente condominiale e, poi, potrà pretendere che sia chi è in regola a saldare i conti. Una follia che sicuramente farà felici i fornitori mentre renderà furiosi i proprietari di casa che sono alle prese con vicini con forti arretrati nel versamento delle spese condominiali.
Non è finita. La proposta di legge include anche un’idea che sicuramente si trasformerà in una spesa in più per i condomini più grandi. Infatti, la legge introdurrebbe l’obbligo di nominare un revisore dei conti nei palazzi con più di venti appartamenti, poi la sicurezza delle parti comuni dovrà essere attestata da una società specializzata e l’amministratore potrà ordinare la messa a norma a prescindere dalle decisioni dell’assemblea. Non vi sfuggirà che sia il revisore sia il certificatore della sicurezza non lavoreranno gratis e, dunque, i condomini dovranno mettere mano al portafogli.
Intendiamoci, capisco le ragioni delle norme che si vogliono introdurre per fare in modo che gli edifici abbiano impianti in regola. E comprendo anche i controlli sul bilancio da parte di un professionista esterno, per evitare che l’amministratore faccia il furbo o scappi con la cassa. Tuttavia, poi, bisogna anche badare ai bilanci delle famiglie, già gravati da un’infinità di gabelle. In particolare, c’è da comprendere che, se un condomino non paga, non vanno penalizzati i vicini in regola: semmai si può disporre il pignoramento veloce dell’immobile posseduto dal furbo, disposizioni già adottate in altri Paesi, come Stati Uniti e Francia, con addirittura la messa in vendita dell’alloggio. Vedrete che i disonesti avranno meno voglia di sottrarsi al pagamento delle spese condominiali. Senza gravare sulle spalle degli onesti.
Ai generaloni prudono le mani. Uno dopo l’altro, infatti, si lasciano andare a dichiarazioni da cui traspare che non vedono l’ora di entrare in guerra. Ha cominciato Fabien Mandon, nuovo capo di Stato maggiore francese, che durante un incontro con l’assemblea dei sindaci transalpini ha detto senza alcuna perifrasi che «il Paese deve prepararsi a perdere i suoi figli» in un eventuale conflitto con la Russia. Ha proseguito l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, presidente del Comitato militare della Nato che, in un’intervista al Financial Times, ha invece svelato i piani degli alti papaveri dell’Alleanza atlantica: «Stiamo studiando tutto… Finora siamo stati piuttosto reattivi. Diventare più aggressivi, passare da una postura reattiva a una proattiva è qualcosa a cui stiamo pensando». In pratica l’alto ufficiale ha voluto chiarire cosa bolle in pentola nel comando Nato, ovvero un attacco preventivo alla Russia, dicendo che si tratterebbe di una «forma di azione difensiva», che tuttavia, a prescindere da come la si chiami, equivarrebbe all’entrata in guerra contro Mosca.
Poi, dopo il francese e l’italiano, l’altro ieri è arrivato il capo di Stato maggiore britannico, Richard Knighton, che in un discorso tenuto al Royal United Services Institute, celebre think tank del settore difesa, ha invitato a tenersi pronti e a prepararsi a costruire, servire e se necessario a combattere. E visto che a Natale tutti sono portati a far festa, già che c’era ha aggiunto una pessimistica previsione: «Sempre più famiglie comprenderanno cosa significa il sacrificio per la nostra nazione». In altre parole, Knighton ha ripetuto quanto annunciato dal collega francese: preparatevi a perdere i vostri figli.
Ovviamente capisco che, se un militare si è allenato per una vita a combattere, non veda l’ora di entrare in azione, soprattutto se il suo destino non è di finire in prima linea, ma di sedere comodo dietro una scrivania a giocare ai soldatini, spostando truppe, studiando strategie, pianificando avanzate e controffensive. Comprendo perfino che dopo quasi quattro anni di guerra alle porte dell’Europa qualcuno non stia più nella pelle per la voglia di scendere in campo e guadagnare una medaglia. Tuttavia, questa frenesia per il conflitto pone alcuni problemi pratici. Il primo, per quanto ci riguarda, è costituzionale. Nella Carta su cui si fonda la nostra Repubblica c’è scritto che l’Italia ripudia la guerra come soluzione delle diatribe fra Stati. Non so se l’ammiraglio Cavo Dragone, che parla di attacco preventivo alla Russia, si è posto il problema: ma qualsiasi decisione non compete né a lui né alla Nato ma al Parlamento. So bene che ai tempi di Massimo D’Alema, al cui fianco sedeva Sergio Mattarella, se ne infischiarono delle Camere e spedirono i caccia italiani a bombardare Belgrado, ma aver violato la Costituzione una volta non significa essere autorizzati a violarla una seconda, soprattutto se non si perde occasione per appellarsi ai valori fondativi della Repubblica.
Il secondo problema riguarda il popolo italiano, che sempre da Costituzione è il vero sovrano del Paese. Qualcuno ha intenzione di informarlo che i generaloni sono pronti alla guerra? Chi si prende il compito di spiegare che manderemo i nostri figli a morire e che le nostre città potrebbero essere devastate dalle bombe di Putin come da tre anni e mezzo sono devastate quelle ucraine? L’America fu costretta a ritirarsi dal Vietnam, ponendo fine al conflitto, perché l’opinione pubblica non era in grado di sopportare le immagini delle bare avvolte nella bandiera a stelle e strisce. Qualcuno pensa che gli italiani, di fronte ai primi morti, chineranno il capo invece di inseguire con i forconi i generali che li hanno portati in guerra? Beh, temo che si sbagli.
Una cosa però mi incuriosisce ed è la coincidenza delle dichiarazioni di alti ufficiali nei giorni in cui si parla con sempre maggior intensità di pace. Più si apre qualche spiraglio per una tregua e più gli alti gradi delle forze armate europee, con le loro lugubri previsioni, sembrano tifare guerra. Oddio, non ci sono solo i militari, anche qualche politico pare sensibile all’argomento. Prendete Ursula von der Leyen. Ha detto che «la pace di ieri è finita. Non abbiamo tempo per indulgere nella nostalgia. Ciò che conta è come affrontiamo l'oggi». Già me la vedo la generalessa al comando delle Sturmtruppen europee. Forse, visto che le sue quotazioni sono in calo in tutta Europa, sogna di risollevarsi come fece la Thatcher, che risalì nei consensi quando mandò le navi britanniche a riprendersi le Falkland. Purtroppo, non soltanto la baronessa non è la Lady di ferro, ma la Russia non è l’Argentina e a giocare con il fuoco si rischia di scottarsi. Anzi, rischiamo noi di scottarci ed è una prospettiva su cui credo che la maggioranza degli italiani abbia le idee chiare. Non finiremo al fronte, né in miseria, per assecondare la voglia di guerra di quattro generali e di quattro politici in cerca di gloria.












