2022-07-03
Biden ne azzecca una: trivelle dappertutto
Il presidente americano ordina di estrarre idrocarburi nel Golfo del Messico e in Alaska. E dà priorità a industria e occupazione.In fatto di politica energetica chi non fa da sé paga per tre. Così viene da commentare quanto sta accadendo nel mondo in fatto di approvvigionamenti. Ieri il presidente americano, Joe Biden, ha proposto un nuovo programma che vieta nuove trivellazioni al largo delle coste atlantica e pacifica, ma che approva e permette un’ulteriore, seppure limitata, espansione nel Golfo del Messico - zona il cui ecosistema è già stato gravemente danneggiato da numerosi disastri ambientali - e al largo dell’Alaska - nella splendida baia di Cook - mediante l’affitto di undici nuove concessioni nei prossimi cinque anni. Peccato che durante la sua campagna elettorale promise di proibire ogni nuova esplorazione alla ricerca di gas e petrolio in acque americane, cioè entro le fatidiche 12 miglia dalle coste (22,2 km), al fine di perseguire la politica contro il cambiamento climatico. Un provvedimento che giunge proprio all’indomani della sentenza emessa dalla Corte suprema (e contestata dai dem) con la quale gli Usa hanno cancellato ogni potere dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente di limitare le emissioni delle centrali a carbone. Con notevole coraggio - o forse una magistrale faccia di tolla - l’incaricato per il clima della Casa Bianca, John Kerry, ha rassicurato i media sul fatto che gli Usa siano determinati a raggiungere i loro obiettivi ecologici ribaditi a maggio, ossia di tagliare del 50-52% le emissioni entro il 2030 rispetto a quelle del 2005. E l’ha fatto ricordando che l’amministrazione Biden non venderà le concessioni ma le affitterà con facoltà di bloccare qualsiasi concessione nel periodo 2023-2028, come chiesto dallo studio legale ambientale Earthjustice. Come dire, voi investite denaro e cercate il petrolio, poi vediamo. La realtà è che negli Usa un gallone di benzina (3,78 litri) oggi costa quasi 5 dollari, segnando un aumento del 25% nel solo 2022, e siccome servono circa dieci anni tra la firma di un nuovo contratto di estrazione e la produzione di petrolio, quanto fatto ieri da Biden non avrà alcun effetto sul prezzo alla pompa. Ma l’amministrazione deve dar prova di riuscire a mantenere le promesse «verdi» e al tempo stesso limitare l’inflazione e garantire la crescita della domanda interna di energia estraendo dal territorio americano almeno il 15% del petrolio necessario al fabbisogno degli Usa, mentre nel mondo si fanno sentire le conseguenze della guerra in Ucraina. Inoltre, Biden doveva dare un contentino al senatore moderato dem Joseph Manchin, il quale aveva chiesto un aumento della produzione da fonti fossili, pur di ottenere il suo voto, determinante per approvare un nuovo provvedimento che favorirebbe la transizione energetica negli Usa, ma che riguarderebbe gli Stati più centrali. Nel novembre scorso Manchin aveva cassato una nuova regola restrittiva sulle emissioni costando a Biden la figuraccia.Da questa parte dell’Oceano Atlantico siamo messi anche peggio. Austria, Francia e Germania stanno riaprendo le centrali a carbone. Vienna nel 2020 aveva chiuso quella di Mellach (20 chilometri a Sud di Graz), ma Christof Kurzmann Friedl, dirigente dell’impianto in questione, il 20 giugno ha spiegato alla stampa nazionale: «Ci stiamo preparando al fatto che non avremo più la certezza di poter disporre delle quantità di gas alle quali ci siamo abituati negli ultimi decenni e sarà richiesto ogni contributo possibile per sostituirlo».Ma l’apoteosi è la Germania. Da qualche settimana è scoppiata la corsa ad accaparrarsi stufe economiche e riserve di legna da ardere. Gli aumenti del prezzo di gas e petrolio e la preoccupazione di rimanere al freddo già dalla seconda metà di agosto, nonché i segnali che la guerra in Ucraina durerà ancora molto tempo, quindi il fattore incertezza, sono fattori che hanno turbato l’opinione pubblica tedesca, con buona pace delle regole europee che vorrebbero contenere il particolato e la fuliggine emessi dal legno bruciato. Ma in Germania anche la disponibilità di legna da ardere è limitata, così basta navigare su Internet per trovare rivenditori nostrani che dirottano forniture verso Nord, dove sono disposti a pagare molto più di quanto possano fare i nostri connazionali. Il fenomeno rischia di azzerare le riserve poiché la legna non basta tagliarla, deve essere essiccata e per farlo serve molto tempo. E prima ancora, gli alberi devono crescere e serve acqua. Lo stesso fenomeno si sta allargando in Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. Così il costo della legna alla tonnellata è raddoppiato in un anno, da circa 250 euro a sfiorare quasi i 500, soprattutto perché essa deve comunque essere trasportata su automezzi a gasolio, il cui costo è alle stelle. Al dettaglio, nel momento in cui scriviamo siamo a 250 euro per 230 chili, in provincia di Varese, dove raccoglierla è vietato persino se si trova a terra o nei laghi. Inoltre, come accade in molti altri comparti industriali, anche i produttori di stufe e forni a legna sono colpiti dalla mancanza di componenti provenienti dall’Asia e soprattutto dalla Cina. Come le piastrelle in argilla refrattaria che rivestono le camere di combustione dei forni. A questo ci hanno portato anni di proclami e assurde regole green.
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