
Il presidente Usa a Varsavia ha rubato la scena ai russi con una scenografia da Hollywood. Ma era raggiante anche perché l’Ue ora paga le spese militari, la Germania è ridimensionata e la Cina avvertita. Senza nemmeno perdere un uomo sul campo.Ho seguito in tv l’arrivo di Joe Biden al castello di Varsavia, nella cui piazza lo attendevano migliaia di persone. Non sembrava il viaggio di un presidente americano ai confini di un teatro di guerra, ma lo sbarco tra i fan di una star di Hollywood. Ad accoglierlo c’erano le bandiere, i bambini, le luci e la musica: una regia perfetta, certamente studiata nei minimi particolari per rubare la scena allo zar del Cremlino nel primo anniversario dell’invasione dell’Ucraina. L’inquilino della Casa Bianca sorrideva raggiante, conscio del successo dell’operazione.In effetti, Biden ha più di un motivo per essere soddisfatto. Nonostante si moltiplichino le voci su una possibile escalation della guerra in corso, al momento tutto sembra andare per il verso giusto. Per lo meno per gli Stati Uniti. Infatti, a differenza di ciò che ci si sarebbe potuto aspettare, la resistenza ucraina si è dimostrata un osso duro per l’invasore. Al contrario di ogni previsione, Kiev è riuscita a tenere testa alle truppe di Vladimir Putin, riuscendo anche a respingerle e a mettere a dura prova perfino il controllo dei territori conquistati. Nessuno immaginava che un esercito male armato sapesse tenere botta a una delle più importanti potenze del mondo. Ovviamente, nessuno tranne gli esperti di cose militari, i quali erano a conoscenza che da anni, cioè da dopo l’invasione della Crimea, l’America stava addestrando le truppe di Kiev.Ma a compiacere il presidente degli States non c’è solo l’incredibile resistenza ucraina. Altri e non meno secondari motivi hanno contribuito ieri sera a renderlo particolarmente allegro. Infatti, a Varsavia Biden ha potuto rendersi conto di persona non soltanto che l’orso russo era finito in gabbia, ossia intrappolato in un conflitto dal quale non sa come uscire senza perdere la faccia, ma che anche una serie di altri tasselli concorrevano incredibilmente a comporre il mosaico immaginato Oltreoceano.Ricordate le sfuriate di Donald Trump quando sollecitava i riluttanti alleati europei a mettere più soldi nella Nato, dicendo che gli Stati Uniti erano stanchi di pagare il conto della difesa del Vecchio continente? Beh, la guerra in Ucraina ha costretto i Paesi della Ue a mettere mano al portafogli senza nemmeno che gli Usa minacciassero di smantellare le basi militari disseminate nel Vecchio continente. Dalla Germania alla Francia, passando ovviamente per l’Italia, tutti oggi stanno rivedendo il budget delle spese militari e nessuno ormai si interroga sull’utilità dell’Alleanza atlantica. Se fino a un anno fa c’era chi proponeva di smantellarla, oggi il dibattito è archiviato dai fatti.Il cambio di scenario, non riguarda soltanto la Nato, ma coinvolge direttamente anche l’industria degli armamenti che, come noto, è una delle più importanti degli Stati Uniti. Le forniture offerte dall’America e dagli alleati alla causa di Kiev hanno contribuito a svuotare gli arsenali, al punto che l’Occidente fa i conti delle munizioni (missili, mine, cannoni, droni, eccetera) rimaste. Il prolungarsi della guerra avrà come conseguenza la necessità di rimpiazzare ciò che è stato donato o usato, con un’immaginabile conseguenza sul Pil dei Paesi coinvolti nel conflitto o quanto meno compartecipi alla resistenza di Kiev.E quella riguardante l’industria militare non è la sola conseguenza economica del conflitto. Infatti ne esiste una che ha e avrà ripercussioni ancora più significative. Mi riferisco agli assestamenti che la guerra sta provocando sui Paesi più industrializzati e in particolare su quelli europei, a cominciare dalla Germania. Il Prodotto interno lordo tedesco ha subìto una brusca frenata, anche a causa del venir meno del combustibile a basso costo importato da Mosca. Senza il gas russo, Berlino è stata costretta a rallentare. Quella locomotiva che anno dopo anno accumulava un surplus commerciale che tanto dava fastidio agli Stati Uniti, ora arranca. Non so se ricordate quel brutto affare chiamato Dieselgate. Qualche anno fa l’America accusò la Volkswagen, ossia il primo produttore mondiale di automobili, di aver taroccato i dati sulle emissioni inquinanti delle sue vetture e per il gruppo di Wolfsburg fu una brutta botta. Seguirono ovviamente le accuse ad altri marchi automobilistici, quasi tutti made in Germany. Ora, conoscendo l’attenzione della Ue al tema delle polveri sottili, chiedo a tutti voi: è possibile che le vetture europee inquinassero più di quelle americane? La mia risposta è no. Ma l’inchiesta ha funzionato meglio di una misura protezionistica, perché ha avvantaggiato la concorrenza a stelle e strisce. Ad ogni buon conto, oggi l’industria tedesca ha altri problemi e non a caso la Germania, che fino a ieri era contraria agli aiuti di Stato, oggi pare averci ripensato. Le regole europee che apparivano ferree, all’improvviso, toccando nel profondo gli interessi di Berlino e Parigi, appaiono all’improvviso assai meno solide.Inoltre, c’è un ulteriore motivo che deve aver reso felice il presidente americano ed è costituito dai riflessi che il conflitto ucraino ha sugli equilibri mondiali. Se fino a ieri un successo di Mosca avrebbe potuto spingere la Cina a invadere Taiwan, la sconfitta o anche solo la battuta d’arresto russa sarebbero di monito anche per Pechino, che d’ora in poi dovrebbe pensarci due volte prima di decidere l’occupazione manu militari di Taipei.C’è infine un ultimo aspetto che non può essere sottovalutato. Compattare l’Europa in una Nato a guida americana, rimettere in moto l’industria degli armamenti, fare affari d’oro con il gas liquido che ha sostituito quello russo, dare un colpo se non mortale per lo meno decisivo alla Germania e un altolà alla Cina, sono risultati ottenuti senza sparare un colpo. Un tempo, tutte quelle sopra elencate sarebbero state ragioni per scatenare un conflitto, perché sia gli interessi economici che quelli geopolitici spesso erano difesi con le armi. In questo caso no. Gli Stati Uniti non hanno schierato le loro truppe e nemmeno hanno dovuto contare i propri morti, come avvenuto in Vietnam, in Iraq o in Afghanistan. Il gendarme del mondo ha ottenuto i risultanti senza impegnarsi in prima persona. Certo, le vittime le contano altrove. Ma questo è un altro discorso, che non ha comunque guastato il buon umore mostrato l’altra sera dal commander in chief.
Francesco Zambon (Getty Images)
Audito dalla commissione Covid Zambon, ex funzionario dell’agenzia Onu. Dalle email prodotte emerge come il suo rapporto, critico sulle misure italiane, sia stato censurato per volontà politica, onde evitare di perdere fondi per la sede veneziana dell’Organizzazione.
Riavvolgere il nastro e rivedere il film della pandemia a ritroso può essere molto doloroso. Soprattutto se si passano al setaccio i documenti esplosivi portati ieri in commissione Covid da Francesco Zambon, oggi dirigente medico e, ai tempi tragici della pandemia, ufficiale tecnico dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Di tutte le clamorose notizie diffusamente documentate in audizione, ne balzano agli occhi due: la prima è che, mentre gli italiani morivano in casa con il paracetamolo o negli ospedali nonostante i ventilatori, il governo dell’epoca guidato da Giuseppe Conte (M5s) e il ministro della salute Roberto Speranza (Pd) trovavano il tempo di preoccuparsi che la reputazione del governo, messa in cattiva luce da un rapporto redatto da Zambon, non venisse offuscata, al punto che ne ottennero il ritiro. La seconda terribile evidenza è che la priorità dell’Oms in pandemia sembrava proprio quella di garantirsi i finanziamenti.
Quest’anno in Brasile doppio carnevale: oltre a quello di Rio, a Belém si terrà la Conferenza Onu sul clima Un evento che va avanti da 30 anni, malgrado le emissioni crescano e gli studi seri dicano che la crisi non esiste.
Due carnevali, quest’anno in Brasile: quello già festeggiato a Rio dei dieci giorni a cavallo tra febbraio e marzo, come sempre allietato dagli sfrenati balli di samba, e quello - anch’esso di dieci giorni - di questo novembre, allietato dagli sfrenati balli dei bamba che si recheranno a Belém, attraversata dall’equatore, per partecipare alla Cop30, la conferenza planetaria che si propone di salvarci dal riscaldamento del clima.
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Il 9 novembre 1971 si consumò il più grave incidente aereo per le forze armate italiane. Morirono 46 giovani parà della «Folgore». Oggi sono stati ricordati con una cerimonia indetta dall'Esercito.
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Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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Teresa Ribera (Ansa)
Il capo del Mef: «All’Ecofin faremo la guerra sulla tassazione del gas naturale». Appello congiunto di Confindustria con le omologhe di Francia e Germania.
Chiusa l’intesa al Consiglio europeo dell’Ambiente, resta il tempo per i bilanci. Il dato oggettivo è che la lentezza della macchina burocratica europea non riesce in alcun modo a stare al passo con i competitor mondiali.
Chiarissimo il concetto espresso dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti: «Vorrei chiarire il criterio ispiratore di questo tipo di politica, partendo dal presupposto che noi non siamo una grande potenza, e non abbiamo nemmeno la bacchetta magica per dire alla Ue cosa fare in termini di politica industriale. Ritengo, ad esempio, che sulla politica commerciale, se stiamo ad aspettare cosa accade nel globo, l’industria in Europa nel giro di cinque anni rischia di scomparire». L’intervento avviene in Aula, il contesto è la manovra di bilancio, ma il senso è chiaro. Le piccole conquiste ottenute nell’accordo sul clima non sono sufficienti e nei due anni che bisogna aspettare per la nuova revisione può succedere di tutto.










