2021-07-10
Berrettini è un martello pneumatico. Primo italiano in finale a Wimbledon
Il tennista romano supera il polacco Hubert Hurkacz in quattro set bombardandolo con 22 ace e arriva dove mai nessun atleta del nostro Paese: domani si giocherà il trofeo contro il numero uno del mondo, Novak Djokovic.Ciò che rende simile il tennis professionistico a un'esperienza platonica sta nella bellezza di riprodurre tecnicamente la gestualità di movimenti già visualizzati in un iperuranio ideale che l'atleta sente nel profondo della sua psiche. Nel tennis esiste il cavallo e la cavallinità, la pallina e la pallinabilità. Basti guardare alla prima di servizio di Matteo Berrettini: il gigante romano, 196 centimetri di statura, quando si appresta all'esecuzione ciondola leggero sulle ginocchia, alza la racchetta fino al naso per preparare il colpo, poi si produce in un lancio di palla vertiginoso, a cui segue una scudisciata da oltre 200 chilometri orari ingiocabile su una superficie rapida come l'erba. Persino l'erba un po' più lenta delle semifinali di ieri, una sorta di «erba battuta» oltremodo consumata dai piedi dei giocatori. Grazie alla prima di servizio piazzata con una percentuale robotica (86% di prime palle andate a segno, 22 ace nel match, 100 dall'inizio del torneo), il tennista italiano ha scritto la storia a Wimbledon, approdando in finale, 6-3 6-0 6-7 6-4 sul polacco Hubert Hurkacz, l'impressione di aver sempre avuto il controllo del gioco, la capacità di imprimere col dritto sberloni quasi piatti e disumani, alternati a un rovescio spesso tagliato, musicale, come se d'un tratto il caratterista Mario Brega - romano come lui - ne possedesse le viscere col suo storico motto: «Sta mano po' esse fero e po' esse piuma». Con doti del genere, gli si perdona qualche incertezza nelle discese a rete, specie nell'era dei picchiatori, dove la volée perfetta non è richiesta, nemmeno ai tennisti giardinieri iscritti alla manifestazione britannica. Hurkacz era avversario adattissimo per Matteo in semifinale. Il polacco, più giovane di un anno (24 anni contro 25), vincitore del Master 1000 di Miami battendo in finale l'altro prodigio italiano in via di costruzione Jannik Sinner, è destinato a un futuro da top 10 in pianta stabile, ma non ha mai sfoderato la convinzione di reggere il ritmo del nostro connazionale, in stato di grazia da quando ha conquistato, a giugno, il torneo del Queen's. Due mini-break strappati a metà del primo set hanno spianato la strada al Berrettini furioso: dal 3-3 iniziale, 9 game ottenuti senza difficoltà lo hanno portato in vantaggio con un netto 6-3 6-0. A quel punto, si prospettavano due possibilità: il numero uno nostrano avrebbe potuto demolire l'avversario nel terzo set, mettendone a repentaglio l'autostima. Oppure subirne la controffensiva, una sortita prevedibile dopo due frazioni di gioco portate a casa con troppa facilità. Hurkacz aveva pur sempre eliminato Roger Federer nei quarti. Ecco allora che ha smesso con gli errori gratuiti, lavorando ai fianchi Matteo con le sue stesse armi: servizio prepotente e pochi colpi, assestati e angolati, da fondocampo. Ne nasce un confronto spassoso. Il polacco scova righe invisibili persino ai giudici di linea (è stata necessaria per ben due volte una verifica con la strumentazione elettronica dell'occhio di falco per sovvertire gli «out» chiamati inizialmente), piazza qualche palla corta destabilizzante, vince un tie-break con lucida freddezza, vellicando le pieghe caratteriali dell'italiano, già prodigo di sguardi speranzosi verso il coach Vincenzo Santopadre e la fidanzata Ajla Tomljanovic, devota e partecipe. Disputare il quarto set è stata una benedizione, perché ha consentito a Berrettini di saggiare la consistenza della sua consapevolezza. Un mini-break strappato all'avversario nelle prime battute gli ha fatto interpretare il comodo ruolo di amministratore razionale della partita, tenendo il servizio: 6-4 il punteggio e approdo in finale. A Wimbledon mai un italiano c'era riuscito. E dal 1976 - Adriano Panatta al Roland Garros - mai un italiano raggiungeva una finale in un Grande Slam. Il rivale domenica sarà il mostruoso serbo Novak Djokovic, numero uno incontrastato del mondo, alla sua settima finale della sua carriera sull'erba più famosa del globo (dopo aver congedato in tre set il canadese Denis Shapovalov), ove vanta sinora cinque vittorie e una sola sconfitta. Qualcuno sostiene che, per qualità polivalenti sulle diverse superfici, potenza del servizio e aggressività tattica, Matteo Berrettini ricordi la versione riveduta e corretta del tedesco Michael Stich, con aggiunta di barba tenebrosa e bicipite vigoroso acchiappa fanciulle. Se così fosse, non sarebbe un accostamento malevolo. Stich vinse a Wimbledon 1991 sorprendendo tutti, stracciando il connazionale illustre Boris Becker in tre set, avviandosi poi a una carriera da top 10 Atp in pianta stabile, con un'ulteriore finale al Roland Garros, una vittoria al Master e svariati tornei accaparrati. Ma quel che più conta, raffronti a parte, è l'essere diventato il capobranco di una genia tennistica tricolore destinata a regalare soddisfazioni fino a oggi soltanto sognate.
Jose Mourinho (Getty Images)