C'è un rituale che rende Novak Djokovic un imperatore del tennis, laddove gli altri, persino i più dotati, possono fregiarsi della dignitosa investitura di vassalli o valvassori. La risposta alle prime palle di servizio. Nole ciondola sulle ginocchia accuratamente piegate, mantiene la schiena dritta come un fuso, particolarità che lo rende simile a un serpente quando sta per rifilare il morso letale. Poi impugna la racchetta con ambo le mani giunte, tenendola davanti allo sterno, quasi fosse l'estensione terrena di una preghiera rivolta all'Altissimo, o, perché no, la spada di un cavaliere templare. A quel punto mette in soggezione il pubblico e l'avversario, poco importa se è un battitore poderoso come Matteo Berrettini: lo fissa, dondola un poco con i fianchi, legge la traiettoria della palla già dal lancio, vi si avventa pescando geometrie variabili con l'appetito di uno squalo tigre a digiuno da mesi. La vittoria del serbo terribile nella finale di Wimbledon (6-7 6-4 6-4 6-3 in tre ore e 24 minuti, è il sesto titolo sul prato londinese per lui e il ventesimo Slam in carriera) sta soprattutto lì. A Djokovic non si possono concedere palle break, lui è di quella schiatta di atleti il cui talento non è solo una questione di nascita, di suggestione, di cultura: è lo stile del proprio sangue, mediato dalla costruzione progressiva del proprio essere. Berrettini aveva sperato di scalfire le certezze del numero uno del tabellone. Sotto 5-2 nel primo set, il romano ha messo da parte i tremori, giocando con la fluidità di braccio che gli ha permesso di vincere sull'erba del Queen's e di approdare nella finale del torneo più prestigioso del mondo mandando a segno ben 100 ace. Mai nessun italiano c'era riuscito prima. Ha rifilato scudisciate di dritto, ricominciato a macinare prime di servizio, qualche palla corta ben assestata, persino un paio di volée, colpo nel quale non eccelle, facendo della leggerezza di non aver nulla da perdere un privilegio stilistico: 5-5, poi 6-6, tie break. Sguardi d'intesa con il suo entourage, nel quale spiccavano coach Vincenzo Santopadre e la fidanzata Ajla Tomljanović, set portato a casa con convinzione. E però tutti, Matteo in primis, sapevano che il serbo si esalta proprio se sobillato dalla fregola di recuperare terreno perduto. Ecco allora che nel secondo set Djokovic ha cominciato a fare un po' di più il Djokovic, e Berrettini, bontà sua, un po' meno il Berrettini a cui ci ha abituati. Qualche errore forzato, tentativi di rallentare gli scambi mentre il contendente scovava righe impossibili, una saltuaria sindrome del braccino durante l'esecuzione delle prime palle. Nole ha agguantato il secondo set 6-4, ha guardato la telecamera in un cambio di campo, picchiettandosi nervoso con l'indice una tempia, come ad autoconvincersi: «Sono concentrato, il torneo è mio». Il terzo set è servito poi a certificare una diagnosi: non è stato Matteo a perdere il match, è stato l'avversario a vincerlo. E tanto basta per avviarsi al quarto set con la dignità di un Gioacchino Murat prima della fucilazione: «Sparate al cuore, risparmiate il viso», disse il generale francese. Dopotutto, se si tratta di cuore, Berrettini ne ha uno grande tanto quanto la sua mole. La dimensione giusta per contenere ambizioni destinate a crescere. Perdere la prima finale di un Grande Slam quasi perfetto contro il numero uno Atp dopo aver già vinto due tornei (Belgrado e il Queen's) dall'inizio della stagione significa accumulare l'esperienza necessaria a conservarsi in pianta stabile nei top 10 del mondo, magari nei top 5. Ivan Lendl, prima di imporsi in una manifestazione del Grande Slam, fu sconfitto in ben quattro finali. Archiviata l'erba britannica, inizierà la fase calda dei tornei sul cemento in preparazione agli Us Open, dove Berrettini ha già raggiunto le semifinali nel 2019. Lì il capobranco di una generazione tricolore di tennisti talentuosi potrà togliersi ulteriori soddisfazioni, a patto di non cedere all'incombenza di una nazione intera che, oggi più di ieri, crede in lui.
Ciò che rende simile il tennis professionistico a un'esperienza platonica sta nella bellezza di riprodurre tecnicamente la gestualità di movimenti già visualizzati in un iperuranio ideale che l'atleta sente nel profondo della sua psiche. Nel tennis esiste il cavallo e la cavallinità, la pallina e la pallinabilità. Basti guardare alla prima di servizio di Matteo Berrettini: il gigante romano, 196 centimetri di statura, quando si appresta all'esecuzione ciondola leggero sulle ginocchia, alza la racchetta fino al naso per preparare il colpo, poi si produce in un lancio di palla vertiginoso, a cui segue una scudisciata da oltre 200 chilometri orari ingiocabile su una superficie rapida come l'erba. Persino l'erba un po' più lenta delle semifinali di ieri, una sorta di «erba battuta» oltremodo consumata dai piedi dei giocatori. Grazie alla prima di servizio piazzata con una percentuale robotica (86% di prime palle andate a segno, 22 ace nel match, 100 dall'inizio del torneo), il tennista italiano ha scritto la storia a Wimbledon, approdando in finale, 6-3 6-0 6-7 6-4 sul polacco Hubert Hurkacz, l'impressione di aver sempre avuto il controllo del gioco, la capacità di imprimere col dritto sberloni quasi piatti e disumani, alternati a un rovescio spesso tagliato, musicale, come se d'un tratto il caratterista Mario Brega - romano come lui - ne possedesse le viscere col suo storico motto: «Sta mano po' esse fero e po' esse piuma». Con doti del genere, gli si perdona qualche incertezza nelle discese a rete, specie nell'era dei picchiatori, dove la volée perfetta non è richiesta, nemmeno ai tennisti giardinieri iscritti alla manifestazione britannica. Hurkacz era avversario adattissimo per Matteo in semifinale. Il polacco, più giovane di un anno (24 anni contro 25), vincitore del Master 1000 di Miami battendo in finale l'altro prodigio italiano in via di costruzione Jannik Sinner, è destinato a un futuro da top 10 in pianta stabile, ma non ha mai sfoderato la convinzione di reggere il ritmo del nostro connazionale, in stato di grazia da quando ha conquistato, a giugno, il torneo del Queen's. Due mini-break strappati a metà del primo set hanno spianato la strada al Berrettini furioso: dal 3-3 iniziale, 9 game ottenuti senza difficoltà lo hanno portato in vantaggio con un netto 6-3 6-0. A quel punto, si prospettavano due possibilità: il numero uno nostrano avrebbe potuto demolire l'avversario nel terzo set, mettendone a repentaglio l'autostima. Oppure subirne la controffensiva, una sortita prevedibile dopo due frazioni di gioco portate a casa con troppa facilità. Hurkacz aveva pur sempre eliminato Roger Federer nei quarti. Ecco allora che ha smesso con gli errori gratuiti, lavorando ai fianchi Matteo con le sue stesse armi: servizio prepotente e pochi colpi, assestati e angolati, da fondocampo. Ne nasce un confronto spassoso. Il polacco scova righe invisibili persino ai giudici di linea (è stata necessaria per ben due volte una verifica con la strumentazione elettronica dell'occhio di falco per sovvertire gli «out» chiamati inizialmente), piazza qualche palla corta destabilizzante, vince un tie-break con lucida freddezza, vellicando le pieghe caratteriali dell'italiano, già prodigo di sguardi speranzosi verso il coach Vincenzo Santopadre e la fidanzata Ajla Tomljanovic, devota e partecipe. Disputare il quarto set è stata una benedizione, perché ha consentito a Berrettini di saggiare la consistenza della sua consapevolezza. Un mini-break strappato all'avversario nelle prime battute gli ha fatto interpretare il comodo ruolo di amministratore razionale della partita, tenendo il servizio: 6-4 il punteggio e approdo in finale. A Wimbledon mai un italiano c'era riuscito. E dal 1976 - Adriano Panatta al Roland Garros - mai un italiano raggiungeva una finale in un Grande Slam. Il rivale domenica sarà il mostruoso serbo Novak Djokovic, numero uno incontrastato del mondo, alla sua settima finale della sua carriera sull'erba più famosa del globo (dopo aver congedato in tre set il canadese Denis Shapovalov), ove vanta sinora cinque vittorie e una sola sconfitta. Qualcuno sostiene che, per qualità polivalenti sulle diverse superfici, potenza del servizio e aggressività tattica, Matteo Berrettini ricordi la versione riveduta e corretta del tedesco Michael Stich, con aggiunta di barba tenebrosa e bicipite vigoroso acchiappa fanciulle. Se così fosse, non sarebbe un accostamento malevolo. Stich vinse a Wimbledon 1991 sorprendendo tutti, stracciando il connazionale illustre Boris Becker in tre set, avviandosi poi a una carriera da top 10 Atp in pianta stabile, con un'ulteriore finale al Roland Garros, una vittoria al Master e svariati tornei accaparrati. Ma quel che più conta, raffronti a parte, è l'essere diventato il capobranco di una genia tennistica tricolore destinata a regalare soddisfazioni fino a oggi soltanto sognate.



