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Ansa
Il Papa difende la natività: «Un dono di luce per un mondo che ha bisogno di speranza». Invece «Avvenire», quotidiano della Cei, si interroga se essa debba includere migranti e «marginali» . Scordando l’unico elemento essenziale: il Mistero dell’Incarnazione.
Mentre papa Leone XIV ci dice che il presepe è «un dono di luce per il nostro mondo che ha tanto bisogno di poter continuare a sperare», nello stesso giorno il quotidiano dei vescovi italiani, Avvenire, dedica - con richiamo in prima - una pagina intera intitolata «Presepe, attualità o tradizione?», dove ci si interroga se quella ricostruzione ideata nel 1223 a Greccio da San Francesco sia ancora valida per il nostro tempo. E poi si chiedono, sempre i medesimi vescovi, dai più ai meno importanti, perché si svuotano le chiese e i fedeli appaiono disorientati... Mettiamo il caso di un fedele che sia abbonato ad Avvenire e anche a Vatican News che lo aggiorna sui pronunciamenti del Papa e, lo stesso giorno, legga ambedue. Capirete bene che o gli prende lo sconforto, o non ci capisce più nulla o ancora, consapevole che la Chiesa cattolica è gerarchica, dà ragione al Papa e se ne frega del dibattito di Avvenire. Soluzione, questa, più sana e più giusta.
Verrebbe da scherzarci su, invece vogliamo proporre qualche semplice riflessione che ci pare essenziale per capire di cosa si tratti. Il presepe rappresenta un fatto storico, quello della nascita di Gesù, cioè di Dio che si incarna nell’uomo. Com’è noto, su questo fatto storico ci sono anche delle testimonianze di autori non cristiani come lo storico ebreo Giuseppe Flavio, lo storico romano Tacito che conferma la condanna di Cristo sotto Pilato, e lo scrittore pagano Luciano di Samosata, e ci sono anche accenni nel Talmud babilonese.
Questi testi cosa ci dicono? Che Gesù è esistito e che quindi è nato, si tratta del cosiddetto Gesù storico. Il presepe rappresenta questa realtà storica: non un’altra, non qualcosa di simile, non qualcosa che ne deforma il significato unico e irripetibile. Dio si è incarnato in Gesù, in un momento storico preciso, in un luogo preciso, secondo le modalità descritte nei Vangeli e trasmesse a noi dalla Tradizione della Chiesa. Non c’è da girarci troppo intorno, né da fare tutto un ghirigoro di ragionamenti sulla sua attualità. L’unica domanda lecita è la seguente: è attuale l’Incarnazione di Dio in Gesù, nel Gesù che entra nella storia, uomo tra gli uomini e in Cristo, il Cristo della fede, che porta a compimento con la Croce e la Resurrezione la salvezza del mondo e dell’uomo?
Se è attuale questo - del resto è un fatto che si svolge nel tempo ma attiene all’eternità, e quindi come può essere inattuale qualcosa che ha a che fare con l’Eterno? - allora il presepe deve essere il presepe del quale gli elementi essenziali sono il padre e la madre di Gesù, Giuseppe e Maria, la stalla, il bue e l’asinello, e il bambino Gesù. Poi ci si può mettere dentro di tutto, e su questo avremmo molto da discutere, ma l’essenziale è, rimane e sarà sempre costituito dai cinque elementi che abbiamo elencato. Questa è la realtà, il resto è interpretazione.
In quelle (a nostro modo di vedere inutili, e forse dannose) pagine di Avvenire tale Vergottini, a proposito di interpretazioni creative del presepe, dopo aver sostenuto che «neppure i Vangeli forniscono una descrizione dettagliata della nascita di Gesù» (a quel tempo, caro Vergottini, non esistevano le cartelle cliniche, per cui non sappiamo l’ora esatta del parto, le ore di doglie e il tipo di nascita, magari avrebbe voluto sapere se sia stato podalico o di altro tipo...), ebbene, dopo questo, scrive che: «Il presepe, allora, rischia di diventare una cartolina sentimentale se non ritrova la sua forza originaria: deve sapere raccontare la vicenda di un Dio che entra nella storia reale, con le sue ferite e le sue speranze. Ecco perché molte comunità, in Italia e nel mondo, hanno cominciato a inserire nel presepe luoghi e persone dell’oggi: migranti stremati su una barca di legno, senzatetto accovacciati sotto un portico, famiglie in attesa di un permesso di soggiorno, infermieri che vegliano nella notte, e - perché no - quel branco di “ultimi” che nelle nostre città è sempre più affollato… Se il figlio di Dio nasce ai margini, allora i margini non sono un’aggiunta posticcia, ma la grammatica del suo venire».
Ci chiediamo, ma a parte i cosiddetti «Vangeli dell’infanzia», cioè Matteo e Luca, che si soffermano sulla nascita di Gesù, non c’è tutto il resto dei Vangeli e in generale del Nuovo Testamento che esplicitano, a partire dalla predicazione di Cristo, il significato di essa per coloro che sono gli ultimi della terra? Il dato fondamentale non è che Gesù si incarna ai margini, il dato fondamentale è che Gesù si incarna. Questo mistero incomprensibile a tutto il pensiero antecedente all’Incarnazione stessa, il mistero di Dio che si fa uomo e assume la natura umana pur rimanendo Dio, riteniamo che sia il nocciolo fondamentale da predicare, altrimenti si fa anche dell’Incarnazione un messaggio socioeconomico che offusca il messaggio teologico, scandaloso per tutto il pensiero umano e anche per la filosofia greca che precedette questo atto di Dio: un Dio che si fa uomo rimanendo Dio. Tutto questo è nel presepe. Non basta? Non sarebbe meglio predicare questo aspetto del Mistero di Dio-Uomo?
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Kaja Kallas (Ansa)
I commissari europei per gli Affari esteri sono sempre state figure irrilevanti nello scenario globale. Pur rappresentando quasi mezzo miliardo di persone e 27 Paesi, tra cui alcune delle principali economie mondiali, il loro parere conta meno di zero.
Non parlo di Federica Mogherini, un peso piuma dei rapporti internazionali che solo ora - a causa dell’inchiesta che ha portato al suo fermo giudiziario - è riemersa dal limbo in cui era confinata dopo la fine della sua carriera politica. No, penso anche a Lady Ashton o Josep Borrell, il predecessore dell’attuale commissario Kaja Kallas: di loro, del loro ruolo nelle diverse crisi che si sono succedute, non resta traccia.
Tuttavia, credo che in fatto di ininfluenza, e soprattutto di incapacità di guardare in faccia la realtà, la donna che oggi si occupa delle relazioni Ue nel mondo superi chiunque l’ha preceduta. Figlia d’arte, perché il padre fu un politico che traghettò l’Estonia dal comunismo all’ingresso nella Ue, lei stessa in passato alla guida del suo Paese, la Kallas è stata indicata da Tallin nella Commissione europea, con l’incarico di rappresentare la Ue nel mondo. Peccato che spesso dimostri di non capire molto di diplomazia e neppure di equilibri internazionali. Ne ha dato prova più volte, anche durante il periodo più complicato dei rapporti tra Ue e Stati Uniti, quando Donald Trump impose i dazi. Tuttavia, la Kallas si supera quando parla di Russia, come ha fatto in questi giorni concedendo un’intervista al Corriere della Sera. Volendo inserirsi nel dibattito sulla difficile trattativa per giungere a un cessate il fuoco in Ucraina, l’alto rappresentante per la politica estera e per la sicurezza comune dell’Unione europea, ha spiegato che per garantire la pace occorre limitare l’esercito russo e contenere il budget militare di Mosca. Ovvio, se vuoi impedire a un Paese di minacciare quelli che lo circondano devi proibirgli di armarsi fino ai denti. È quello che è successo alla fine della Seconda guerra mondiale con la Germania e il Giappone. A entrambi i Paesi fu negata la possibilità di avere un esercito organizzato e anche di possedere la bomba atomica. Ma si dà il caso che sia Berlino che Tokyo fossero stati sconfitti e dunque, insieme alle sanzioni di guerra alle due ex superpotenze economiche e militari, i vincitori imposero misure ferree.
Peccato che la Russia non sia stata sconfitta. Non dico che abbia vinto la guerra, ma di certo non l’ha persa. Dunque, come si fa a imporre delle sanzioni a chi in questo momento si sente forte e a cui si chiede di cessare il fuoco? Come si può ottenere di limitare esercito o budget militare di un Paese che ritiene di essere in grado di continuare la guerra e raggiungere i suoi scopi? Anche un bambino capirebbe che non ci sono le condizioni per pretendere di sedersi a un tavolo di pace imponendo delle sanzioni. Siccome io non penso che Kaja Kallas non sia in grado di comprendere ciò che è chiaro a un ragazzino di prima media, penso che l’alto rappresentante degli Affari esteri della Ue semplicemente non voglia raggiungere alcuna intesa con Mosca. E la capisco anche. Tutti i Paesi baltici, Estonia dunque compresa, hanno una fifa blu di Putin. Avendo conosciuto il comunismo, sanno che non ci si può fidare e soprattutto vorrebbero che la Russia fosse sconfitta una volta per tutte per consentire a loro di vivere tranquilli. Ma sconfiggere una potenza nucleare, per quanto indebolita, non è la cosa più semplice del mondo e anzi si rischia di far scoppiare una guerra peggiore di quella che i Paesi baltici vorrebbero evitare. I politici lituani, estoni, lettoni, insieme a quelli polacchi e ucraini non vogliono tornare sotto il tallone di Mosca e si comprende il perché. Però capisco anche la maggioranza degli italiani che non vuole finire nel mezzo di una guerra con la Russia. Hai voglia a dirgli che si deve scegliere tra libertà e aria condizionata, come spiegò Mario Draghi o, come di recente ha chiarito Sergio Mattarella al corpo diplomatico, che «c’è bisogno di una pace equa, giusta e duratura, rispettosa del diritto internazionale, dell’indipendenza, della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina». Se questo significa armarsi e partire, credo che gran parte dei cittadini del nostro Paese non sia né pronto né d’accordo.
Gli ucraini, con gli estoni, i lettoni, i lituani, i polacchi e i finlandesi vorrebbero che la Nato, ma soprattutto l’Europa, sconfiggesse la Russia, così da renderla inoffensiva. Però questo, appunto, vorrebbe dire entrare in guerra, con ciò che consegue. Sono gli ex Paesi dell’Est, rappresentati da politici tipo la Kallas, insieme ad alcuni «volenterosi» in crisi di consenso, a spingerci verso un conflitto. Uno scontro tra Europa e Russia significherebbe l’inizio di una nuova guerra mondiale, che coinvolgerebbe giocoforza gli alleati di Putin. Un rischio che non è così lontano, perché a forza di giocare con il fuoco, come dimostra la storia passata, un conflitto può scoppiare senza che quasi nessuno lo abbia deciso. È quello che è successo nel 1915 e a innescare la guerra bastò un casus belli come l’omicidio dell’erede al trono austro-ungarico. Dunque, io andrei piano con l’idea di battere la Russia e minacciare un intervento della Nato o dell’Europa. Così come ci penserei bene prima di usare i fondi congelati di Mosca per finanziare Kiev e acquistare altre armi. Perché di un conflitto si conosce l’inizio, ma quando si entra in guerra nessuno sa quale sarà la fine. Soprattutto, è impossibile prevedere se vinceranno gli aggrediti o gli aggressori, i buoni o i cattivi.
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Paolo Calcinaro (Ansa)
Mentre la sinistra evoca spettri neofascisti per una rassegna letteraria maceratese, in realtà ispirata al futurismo, il nuovo assessore regionale alla Sanità si converte alle linee guida di Speranza sulla Ru486.
Pare che nelle Marche sia tornato il fascismo. Almeno così sostiene la sinistra di Macerata che da qualche giorno ha alzato le barricate contro - udite - una rassegna letteraria chiamata Letture maceratesi. Per rintracciare i segni del regime, i progressisti locali hanno addirittura chiesto perizie a storici dell’arte come Tomaso Montanari, il quale ha rinvenuto sul manifesto della kermesse chiarissime tracce di fascisteria: i caratteri utilizzati sono un po’ troppo futuristi. E pazienza se Macerata è stata una delle culle del futurismo: bisogna cancellare ogni memoria, fare piazza pulita di ogni cultura deviante.
In città è stato organizzato un «contro festival», nemmeno fossimo a Sanremo, e come da tradizione sono iniziate le defezioni in stile Zerocalcare. Gli studiosi Paola Ballesi e Roberto Cresti hanno fatto sapere che non parteciperanno: «Siamo stati contattati», hanno detto a Cronache Maceratesi, «in qualità di studiosi del futurismo marchigiano da un’associazione legittimata dal Comune di Macerata a dar vita a un festival inserito nel programma natalizio della nostra città. E in tale veste abbiamo accettato di intervenire mettendo a tema l’avanguardia maceratese del Gruppo Boccioni formato da giovani artisti di raro talento, da Bruno Tano a Sante Monachesi, da Umberto Peschi a Wladimiro Tulli, solo per citarne alcuni. Artisti che da sostenitori del regime fascista hanno poi percorso strade individuali, ostili a qualunque autoritarismo, e che hanno portato alcuni, come Tulli, a entrare nelle file della Resistenza armata». Non risulta che qualcuno abbia chiesto ai due esperti di dire qualcosa di diverso da ciò che avevano preventivato, ma a loro evidentemente non importa. Si vede che essere invitati dalla destra fa diventare fascista qualunque affermazione, a prescindere dal contenuto.
Già di per sé questa mobilitazione delle sedicenti forze del bene contro la Regione Marche colpevole di sostenere le oscure trame nere è piuttosto ridicola. Ma il tutto diviene ancora più grottesco quando si osservano le ultime mosse della destra regionale di governo. In giunta è arrivato un nuovo assessore alla sanità, Paolo Calcinaro, con un passato nel centrosinistra. Il suo predecessore, Filippo Saltamartini, si era distinto per le posizioni pro vita, non a caso le Marche sono state spesso bersagliate da inchieste sul «diritto all’aborto negato». Saltamartini aveva rifiutato di dare attuazione alla circolare emessa da Roberto Speranza nel 2020 che consentiva la somministrazione della pillola abortiva nei consultori, argomento su cui si è giocata anche buona parte della campagna elettorale.
Il centrodestra ha rivinto, a conferma del fatto che anche le scelte pro life del passato siano state apprezzate dagli elettori. Ma ecco che il nuovo assessore Calcinaro ha deciso di cambiare rotta. Per prima cosa ha fatto sapere che la Ru486 sarà somministrata anche in consultorio, come da indicazioni di Speranza. «È bene che tutti i presidi possano avere la possibilità effettiva di far svolgere a pieno un diritto sancito da una legge dello Stato», ha dichiarato Calcinaro. Il quale è intervenuto pure sul tema della obiezione di coscienza. Nelle Marche il numero di obiettori è particolarmente elevato in alcune zone, ad esempio a Jesi. Cosa che, secondo il Corriere Adriatico, sarebbe addirittura «drammatica» (peccato che l’obiezione sia un diritto, ma tant’è). Ebbene, Calcinaro fa sapere di aver preso provvedimenti per risolvere il problema: «Lo stesso valeva per la mia città, Fermo. Ma anche qui siamo riusciti a fare qualcosa. Grazie all’impegno del primario, anche se egli è obiettore, riusciamo a garantire questo servizio in collaborazione con l’ospedale di Ascoli. Ora chi va a Fermo sa che può accedere a questa pratica, ed è di straordinaria importanza». Certo, Calcinaro ha aggiunto che garantirà (vedremo per quanto) ai pro vita di entrare nei consultori, come se si trattasse di una gentile concessione e non di una possibilità garantita dalla legge. Intanto però ha rinnegato le politiche del suo predecessore aprendo all’aborto facile, adeguandosi così al pensiero prevalente di marca progressista.
Questo è il discutibile quadro: mentre la sinistra urla al fascismo di ritorno nelle Marche, la destra locale si uniforma ai diktat progressisti, forse nel tentativo di apparire più aperta e al passo con i tempi. Viene da pensare che, continuando a seguire questa linea, a breve non ci sarà più bisogno delle rampogne della sinistra: provvederà la destra a censurarsi da sola.
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L’indebitamento comune è indigeribile per Friederich Merz, che intende escludere dai giochi la Bce, esponendo Euroclear al rischio crac.
Emergono particolari sempre più interessanti e preoccupanti sul tema del prestito all’Ucraina, coinvolgendo in qualche modo gli asset russi sequestrati in Belgio, le finanze pubbliche degli Stati membri e la Bce, in un abbraccio che ogni giorno si fa sempre più rischioso. Ieri vi abbiamo riferito che il complesso schema finanziario con cui la Ue preleverebbe 90 miliardi dalla liquidità russa presso i conti di Euroclear in Belgio, contro il rilascio di un «pagherò» infruttifero ai belgi, consentendo così a Bruxelles di erogare il prestito a Kiev, e si concluderebbe con il «pagherò» che finisce in portafoglio alla Bce, sarebbe un finanziamento monetario, di fatto, degli Stati membri vietato dai Trattati.
Per il semplice motivo che - nel probabile caso in cui la sentenza di un tribunale consenta alla Russia di riappropriarsi di quei fondi o in cui la Russia rifiuti di pagare le riparazioni di guerra e quindi l’Ucraina non rimborsi il prestito alla Ue - Euroclear non potrà restituire il prestito alla Bce e a Francoforte resteranno col cerino in mano, tenendosi in portafoglio a tempo indeterminato il «pagherò» della Ue. A meno che non decidano di escutere le garanzie degli Stati membri che assistono quel titolo di credito. Uno scenario da brivido, con Paesi come Italia, Francia e Germania chiamati a pagare sull’unghia rispettivamente 25, 34 e 52 miliardi entro pochi giorni. Ma questo è uno scenario, ancorché finanziariamente fattibile e legalmente sfidante, politicamente indigeribile nelle maggiori capitali europee. A partire da Berlino, dove il cancelliere Friederich Merz è da tempo politicamente debole e insidiato dalla forza crescente del partito di destra Afd. Si tratta dell’emissione di debito comune europeo, cioè il famoso «eurobond», o qualcosa che gli somigli, notoriamente non previsto dai Trattati e che in Germania è visto come fumo negli occhi. Non a caso, il precedente del debito «pandemico» emesso per finanziare il Next Generation Eu è stato ritenuto costituzionale dalla Corte Federale di Karlsruhe nel dicembre 2022, sotto le essenziali condizioni della sua temporaneità ed eccezionalità, del vincolo di scopo, e del divieto di mutualizzazione illimitata del debito. Quindi ognuno paga per sé e nessuno aiuta gli altri. Cosa ben diversa da un eurobond propriamente detto, che prevede la responsabilità illimitata e solidale di tutti gli Stati membri per l’intero debito. Un’unione del debito è proprio ciò a cui la Costituzione e, prima ancora, l’opinione pubblica tedesca si opporrebbero. Da qui «l’idea» di Merz di rendere quel «pagherò» della Ue molto diverso da un eurobond, perché infruttifero di interessi e non rivendibile, destinato quindi a restare in portafoglio a Euroclear. Esponendo però quest’ultima a un disastroso default nel caso fosse costretta a rimborsare la liquidità ai russi. Per far entrare nella partita la Bce - pur in violazione dei Trattati - quel titolo deve essere trasferibile e produttivo di interessi. Come si vede un pericoloso e interminabile gioco dell’oca in cui si torna sempre al punto di partenza.
L’idea precisa dell’enorme posta in gioco è stata fornita ieri in un’intervista al Sole 24 ore dalle parole dell’ex ministro Giulio Tremonti, ora presidente della Commissione Esteri della Camera, secondo il quale «quello che si sta definendo è un nuovo strumento finanziario comune europeo» e che nonostante si corra il rischio di «una caduta della credibilità e dell’affidabilità dell’euro, portando altri Stati al ritiro delle loro riserve dal sistema europeo [...] dal punto di vista politico un’operazione di questo tipo è oggettivamente il principio di una politica europea autonoma». Concludendo che «per fare l’Europa non serve la tecnica ma la politica, soprattutto nella dimensione drammatica della guerra, un caso in cui dal male può venire il bene». Insomma, siamo al Jean Monnet di «L'Europa si farà nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni apportate a queste crisi». Le parole giuste per mettere in difficoltà Merz e far crescere Afd.
Anche a Parigi e Roma i mal di pancia non mancano. L’Italia con Belgio e Bulgaria ha già puntualizzato che le decisioni vere si prenderanno, all’unanimità, giovedì 18 e, come la Francia, teme come la peste l’eventuale obbligatorio passaggio parlamentare per approvare le garanzie al «pagherò». Ma ieri la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova ha avvertito che «le misure di ritorsione della Russia al congelamento dei suoi asset da parte dell'Ue non tarderanno ad arrivare». Aumentando così il livello di allarme per le circa 110 imprese italiane che si stima abbiano ancora attività produttiva o commerciale in Russia, tra cui Ferrero, Barilla, Calzedonia, Pirelli, Unicredit, Cremonini, De Cecco, Menarini, Buzzi Unicem. Stessa preoccupazione per i francesi, che in Russia controllano, tra gli altri, strutture produttive o commerciali di Leroy Merlin, Auchan, Decathlon, TotalEnergies, Lactalis e Bonduelle. Ancora peggio per i tedeschi che hanno tuttora circa 250-300 grandi società attive e temono conseguenze per Metro, Beiersdorf, Bayer e tanti altri. Su tutte incombe lo spettro dell’esproprio e della nazionalizzazione.
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