2022-10-09
Quant’è bello il sovranismo se i suoi portabandiera sono Draghi e il Quirinale
Giorgia Meloni (Imagoeconomica)
Finora chiunque criticasse l’inefficienza Ue veniva trattato da reietto. Ora, dopo le insolenze francesi, acclamano premier e capo di Stato come eroi risorgimentali.Delle due l’una: o si disprezzano gli italiani al punto da presumere che non abbiano una memoria di durata superiore a quella convenzionalmente attribuita al pesce rosso (giusto gli attimi necessari per passare da una sponda all’altra della bolla in cui è immerso), oppure qualcuno deve avere un talento speciale nell’autoconvincersi del contrario di ciò che ha sempre sostenuto.Per anni, chiunque osasse sollevare obiezioni (anche costruttive, articolate, non demolitorie) nei confronti dell’attuale Ue, veniva squalificato come bieco sovranista, una specie di hooligan impresentabile. Dubbi sul disimpegno europeo rispetto alle ondate migratorie fuori controllo? Razzisti! Dubbi sugli eccessi di austerità di un’Ue a trazione franco-tedesca? Sfascisti nostalgici della liretta! Ad ogni obiezione scattavano - inesorabili - la scomunica, l’anatema, la risatina di scherno. E nel copione erano ammessi solo due ruoli: l’eurolirico ortodosso, sempre presentato come razionale, serio, concreto; oppure l’eurocritico eccessivo, possibilmente pescato tra i meno presentabili, per darne un’immagine di agitatore confusionario, di casinista senza costrutto, di facinoroso inaffidabile. Ogni altra opzione era tassativamente preclusa: in particolare, erano tenuti alla larga non pochi osservatori magari non pregiudizialmente ostili (in origine) alla costruzione europea, ma poi condotti dalla propria onestà intellettuale a metterne in discussione la rigidità, l’imposizione di soluzioni uniche e dogmatiche, o - peggio ancora - la sostanziale inerzia e inefficienza rispetto a non poche emergenze. Non c’è bisogno di ricordare cosa accadde nel febbraio 2021, a seguito del discorso inaugurale alle Camere di Mario Draghi: un passaggio dello speech del premier («Euro scelta irreversibile») portò per settimane non pochi media a imbastire un surreale dibattito teologico sull’irreversibilità presunta di una moneta, chiamando non pochi malcapitati politici a rinnovare giuramenti per i successivi secoli. Una classica inversione tra fini e mezzi: con uno strumento (in quel caso monetario) trasformato in fine, in feticcio da venerare.Né si può dimenticare un’abitudine del capo dello Stato di procedere - diciamo così - a giorni alterni. Grandi proclamazioni europeiste nei giorni pari: come se non fossero cittadini italiani anche i portatori di dubbi rispetto all’operato di Bruxelles. Anzi, un sospetto di euroscetticismo ha notoriamente portato perfino alla reiezione, nel 2018, della candidatura di un uomo della levatura di Paolo Savona rispetto alla guida del Mef. Poi, però, nei giorni dispari, si faceva un gran silenzio quando (da Bruxelles-Berlino-Parigi) arrivavano contumelie nei nostri confronti. Vogliamo ricordare il rito delle dichiarazioni incendiarie (per lo più a Borse aperte) dei commissari Ue Valdis Dombrovskis e Pierre Moscovici ai tempi del governo gialloverde?Né, a meno di nostri errori e omissioni sempre possibili, risultano reazioni istituzionali italiane quando fummo offesi, sempre in epoca di governo gialloverde, dal soave Emmanuel Macron («I sovranismi li vedete crescere come una lebbra un po’ ovunque in Europa»), superato in volgarità solo dal portavoce del suo partito, tale Gabriel Attal, che arrivò a definire «vomitevole» la politica italiana in materia di barconi. E anche pochi giorni fa, all’indomani della vittoria di Giorgia Meloni, vi fu gran silenzio davanti all’insolenza della premier francese Elisabeth Borne («Vigileremo sul rispetto dei diritti umani in Italia»). Solo l’altro ieri, davanti alla ripetizione ancora più sguaiata dello stesso concetto da parte di un’altra ministra transalpina, Laurence Boone, sono finalmente scattate le risposte (dirette e indirette) di Sergio Mattarella e Mario Draghi. Di più: dinanzi allo spettacolare fallimento europeo in materia di gas ed energia, e a seguito di tre mesi persi da Palazzo Chigi a inseguire la chimera del «tetto», sempre Draghi ha lasciato a verbale dichiarazioni di motivata insoddisfazione e impazienza rispetto alle lentezze europee. E che è accaduto? Sui giornali maggiori, è partito il lancio di petali di rose verso Mattarella e Draghi, acclamati come difensori della dignità italiana. Pure commentatori eurolirici come Federico Fubini sembrano ora trasformati. Ieri la firma del Corriere, commentando su Twitter le discutibili scelte di Olaf Scholz e dello stesso Macron, ha concluso: «Ditemi se questa è l’Europa». Ah sì? Siamo noi che lo dobbiamo dire a Fubini? Siamo insomma dentro uno dei classici «protocolli» mediatici all’italiana, già ampiamente sperimentati in epoca Covid. Primo punto: recitare finché possibile la litania ufficiale. Secondo punto: bastonare selvaggiamente i dubbiosi. Terzo punto (quando poi si verifica l’opposto): spostarsi furbescamente sulla linea critica, fingendo di averla sempre sostenuta e non osteggiata. Quarto punto: farcire i propri ragionamenti di formule del tipo «nessuno ha mai detto che…» e «anzi, tutti abbiamo sostenuto che…». Quinto punto: applaudirsi freneticamente e darsi reciprocamente ragione tra politici e media della parte «giusta», per meglio mimetizzare gli errori del passato. Vale ancora la regola dell’indimenticabile pubblicità di un dentifricio, negli anni Sessanta. Sullo schermo lo splendido sorriso di Virna Lisi, e a commento una voce che chiosava: «Con quella bocca, può dire ciò che vuole». Ecco, alcuni, come la meravigliosa Virna Lisi, possono dire ciò che vogliono, pure se avevano torto. Altri sono e restano reietti, pure se avevano ragione.
Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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Viktor Orbán durante la visita a Roma dove ha incontrato Giorgia Meloni (Ansa)
Francesca Albanese (Ansa)