2020-04-22
Basta provincialismi: occorre una nuova Bretton Woods
True
«Ce la faremo». È una delle frasi melense più gettonate. È ovvio che ce la faremo. Questo virus, per quanto coronato, non è l'asteroide che ha annientato i dinosauri 70 milioni di anni fa: a seconda delle fedi di ciascuno, sarà il nostro Dio o il destino, lo "stellone" o la Patria, che ci libererà. Dopo la tempesta arriva sempre il sereno. Il problema non è se ce la faremo, ma come ce la faremo, in che condizioni saremo quando usciremo da questa triste e cruenta emergenza sanitaria, dopo aver combattuto una guerra contro quel virus che ci ha confinato in casa perché in agguato nel respiro di chiunque.Si, è vero che questa non è una guerra in senso classico, perché non ci sono generali ed eserciti in conflitto fra loro, non ci sono né vincitori né vinti: ci sono solo vinti. Addirittura è proprio il virus che ha fermato le guerre guerreggiate in tutto il mondo, terrorismo compreso. Non è neppure un conflitto mondiale, come sono state le due grandi guerre, perché non è una parte del mondo che combatte contro un'altra, ma è l'intera umanità che si difende dall'attacco di un nemico invisibile e sconosciuto - in una sorta di rivincita sul genere umano di una natura violentata e vilipesa - decretando un coprifuoco totale per mesi (e non solo per poche ore come accade nelle vere guerre) e lo "stop" di quasi tutte le attività, che neppure i due conflitti mondiali erano riusciti a fermare. Finita la guerra contro il virus, rimarrà stampato nella mente di tutti il rito della conta giornaliera di contagiati, deceduti, guariti, ricoverati, con la macabra precisione dell'età media di chi non ce l'ha fatta, quella sorta di numero magico che spaventa solo i vecchi, presentato come uno spartiacque fra chi è destinato a stare fuori terra e chi sotto, ma che il virus si diverte a non rispettare colpendo anche bambini e giovani.Saranno un ricordo indelebile i fotogrammi strazianti delle colonne di camion militari carichi di salme, tristemente sole, senza un saluto, messa o funerale, la sanità tutta in ostaggio del virus alla disperata ricerca di respiratori, di mascherine, camici, posti letto Covid-19, e le immagini dei Paesi, anche poveri, che inviano aiuti o che pregano per l'Italia. Uno scenario, andato in onda in tutto il mondo, che non sarà certo una iniezione di fiducia nel cammino della ripresa economica.Il campo di battaglia che ci lascia questa guerra sanitaria non è fatto da edifici sventrati, da ponti saltati in aria e strade inagibili, ma ci consegna alla storia, non solo le scene del dramma umano, ma anche un sistema economico immobile che produrrà imprese in dissesto economico e finanziario, molte delle quali non riapriranno i battenti, lavoratori precari, un esercito di disoccupati o a rischio di licenziamento e una miriade di piccoli risparmiatori che hanno visto andare in fumo una parte considerevole dei risparmi investiti. Tutto questo si tradurrà in una drastica caduta del potere d'acquisto, in crolli produttivi e nuove tensioni sociali. In altre parole, l'economia si avviterà in una profonda recessione.Se non si vuol precipitare in una situazione in cui «il peggio continua a peggiorare», per dirla con Galbraith - l'economista che con le sue teorie accompagnò l'America di Roosevelt a uscire dalla Grande Depressione del 1929 - oggi come allora, l'intervento immediato e massiccio degli Stati è e sarà determinante. Ma per evitare lo spettro di una recessione senza fine le misure non potranno essere delle toppe cucite su un vestito logoro: occorre un'azione complessa, coordinata e globale. È necessario inondare il sistema di liquidità. Per far questo, però, non è concepibile pensare a interventi dello Stato che peggiorino la situazione debitoria delle imprese concedendo prestiti o garanzie su prestiti, anche se a tassi nulli e con tempi di restituzione spalmati negli anni: sono sempre ulteriori indebitamenti iscritti a bilancio, che possono dare un sollievo temporaneo ma che condizioneranno la gestione economica e finanziaria dell'impresa e la sua valutazione.La serrata degli stabilimenti produttivi non è stata decisa dalle singole imprese, ma è stata imposta dallo Stato. Occorre riportare le imprese alla condizione "ex ante", cioè a quella in cui si trovavano prima della chiusura. Pertanto, l'intervento dello Stato deve essere inevitabilmente "a fondo perduto" (cioè da non restituire), ed essere rivolto a compensare il mancato reddito della singola impresa per il periodo di chiusura forzata che, considerati i tempi e i problemi di ripartenza e le ferie estive alle porte, dovrebbe abbracciare almeno 5 mesi: l'ammontare del contributo deve esser pari al reddito dichiarato al fisco per lo stesso periodo nell'ultimo anno di imposta, premiando così, indirettamente, anche la fedeltà delle dichiarazioni presentate. Per gli stessi motivi, la retribuzione di ogni singolo lavoratore, per il periodo di assenza forzata dal lavoro, non deve subire alcuna decurtazione rispetto a quanto percepiva al momento della chiusura dell'impresa, adeguando, di conseguenza, anche gli interventi di integrazione salariale già presenti nel nostro ordinamento.Intorno a questi due interventi cardine vanno fatte ruotare altre due azioni per i mesi di stop produttivo: una, a sostegno sempre delle imprese per i costi fissi che, pur ferme, hanno dovuto ugualmente sopportare (ad esempio affitti e canoni), concedendo un contributo ad hoc; l'altra, in aiuto dei lavoratori del sommerso, che hanno visto azzerate le proprie entrate, estendendo il reddito di cittadinanza con le sue regole, considerato che, ovviamente, non possono accedere agli ammortizzatori sociali. Il tutto, all'interno di un provvedimento cornice che sospenda e fissi nuovi termini per gli adempimenti fiscali in scadenza.Davanti a una necessità cosi gravosa di risorse bisogna sempre tenere a mente che, sul fronte delle disponibilità, il fermo produttivo porterà in dote anche un forte calo nelle entrate fiscali, facendo schizzare verso l'alto le cifre in gioco, già alte, del fabbisogno finanziario.Questo significa, per lo Stato, dover disporre di una massa ingente di liquidità, ampliando a dismisura il proprio debito pubblico. Nessun Paese al mondo, da solo, potrebbe sopportare il carico di un debito cosi pesante e controllare, allo stesso tempo, le spirali inflazionistiche e le manovre speculative che inevitabilmente si verificherebbero. Oltretutto, il controllo di un'economia sotto una cappa di questo genere, prima o poi, costringerebbe ad assumere misure di austerity che rischiano di portare la stessa economia in stagnazione, se non in recessione, facendo rientrare dalla finestra ciò che era stato cacciato via dalla porta.In questo scenario, allora, non ha alcun senso parlare di piani Marshall, perché non ci sono Nazioni vincitrici chiamate ad aiutare nell'opera di ricostruzione chi ha perso, ma è il mondo intero in crisi; non si tratta di un'Europa più o meno miope dove i Paesi con minor danno non intendono farsi garanti di eventuali default dei più disastrati (eurobond); così come sarebbe pura follia solo pensare che un Paese possa di far da sé. La soluzione scavalca i confini nazionali ed europei. Poiché tutti i Paesi si troveranno, chi più chi meno, nelle stesse condizioni è necessaria un'azione coordinata e globale, per evitare di entrare in un'altra guerra, questa volta economica, del tutti contro tutti, combattuta brandendo dazi e svalutazioni competitive.È ragionevole pensare, infatti, proprio perché interessa tutti, che si troverà terreno fertile per varare un'azione di grande respiro che, coordinata in un contesto internazionale, consenta l'immissione concordata di notevoli volumi di liquidità nei sistemi economici dei singoli Stati, con posizioni debitorie nulle di fatto, all'interno di regole che controllino l'insorgere di processi inflazionistici e speculativi che, giocoforza, si possono creare a seguito dell'aumento repentino della massa monetaria. La massa monetaria, infatti, è un "liquido" da maneggiare con estrema cautela in "contenitori" che siano in grado di controllare le reazioni pericolose e negative per l'economia. Solo all'interno di Accordi di cooperazione monetaria internazionale è possibile coordinare e gestire la forte immissione di moneta che questa econovirus richiede, raffreddando le oscillazioni dei cambi, anche con un periodo di cambi fissi e controlli rigidi alla ripartenza, e stabilizzando le quotazioni delle Borse Valori con sospensioni immediate delle operazioni speculative.Grazie alla storia, sappiamo come comportarci, sappiamo come il mondo intero ha saputo superare profonde catastrofi economiche e finanziarie. La Grande depressione del 1929 e, soprattutto, la Conferenza mondiale tenutasi a Bretton Woods (Usa) del 1944, sono i precedenti a cui guardare per mettere in campo azioni che siano il frutto di un'intesa internazionale. Questi riferimenti, e in particolare gli accordi di Bretton Woods, furono la sede in cui i principali Paesi industrializzati del mondo, per far fronte all'enorme bisogno di capitali per la ripresa economica mondiale e superare la profonda depressione del dopoguerra, stabilirono, in meno di tre settimane, nuove regole per un nuovo ordine monetario, per le relazioni finanziarie, monetarie e commerciali del mondo intero.Figli di quelle intese sono Istituzioni molto conosciute (Banca Mondiale, Fondo monetario internazionale, Organizzazione mondiale del commercio), oggi da cambiare e riformare, che hanno tra i loro scopi «la stabilizzazione delle relazioni finanziarie monetarie internazionali», «la cooperazione monetaria e la stabilizzazione dei cambi evitando svalutazioni competitive», oltre che aiutare i Paesi a rientrare dallo squilibrio della propria bilancia dei pagamenti e liberalizzare il commercio internazionale.Le condizioni negative in cui erano precipitati tutti gli Stati e le esigenze comuni di uscirne erano allora, e sono ancor più adesso, la chiave di volta per riuscire a mettere insieme le principali economie intorno ad un tavolo. Questa pandemia ci consegnerà una situazione unica nella storia moderna, che neppure una guerra guerreggiata sarebbe riuscita a creare, investendo, non aree circoscritte, ma tutte le Nazioni del pianeta, forse Antartide esclusa. Il mondo globale in cui siamo immersi chiama, in generale, una visione globale dell'economia ma la impone, al di là dei tanti "Vertici G", quando avvenimenti destabilizzanti, come questa pandemia, scuotono l'intero pianeta e mettono a rischio la tenuta dei sistemi economici di molti Paesi innescando processi pericolosi per tutti.Il salto di specie del virus impone anche un salto di specie degli umani: passare dal provincialismo a comportamenti di respiro più universale: in pratica, l'Italia deve passare, dalla spasmodica ricerca del consenso con la Germania e più, ad accordi di tipo globale per poter disporre delle ingenti liquidità che lo Stato deve assicurare al sistema economico per evitare una profonda recessione, proteggere il proprio apparato produttivo dalla competizione selvaggia che si scatenerà nel post-pandemia, controllare le spinte inflazionistiche e mettere al riparo aziende e risparmiatori dalle montagne russe dei valori di Borsa.In estrema sintesi: è necessaria e urgente una "nuova Bretton Woods". Il mondo non cambierà per la pandemia, ma cambierà solo se gli Stati lo vorranno cambiare. Anche se si ha la sensazione di vivere in un tempo sospeso fra gli statisti del passato e quelli a venire, questa emergenza può, parafrasando un antico detto, rivelarsi «l'occasione che fa l'uomo...grande». Piero Fois, economista
Robert Kennedy Jr e Orazio Schillaci (Ansa)
Pierluigi Bersani e la t-shirt Frocia Italia