2020-06-07
Balotelli fa il guru del potere nero. Ma non s’allena e il Brescia lo licenzia
Il presidente Massimo Cellino lo scarica per giusta causa: «Ho scommesso su di lui e ho perso». A meno di 30 anni la sua carriera è finita malissimo. Credendosi LeBron James, ha buttato l'ennesima stagione facendo il discriminato. Ha sempre amato lo smartworking, ormai pensava di poterlo praticare fino al novantesimo della vita. Mario Balotelli licenziato è un ossimoro e al tempo stesso un punto fermo: fuori dal Brescia, fuori dalla città che lo amava ma ostinatamente dentro se stesso. Licenziato per giusta causa. Forse definitivamente o forse no perché ogni stagione a luglio, grazie a Mino Raiola, lui trova un presidente disponibile ad allungargli una carriera finita da almeno cinque anni. Eppure non ne ha ancora 30. Ieri il proprietario del club, Massimo Cellino ha annunciato la rescissione unilaterale del contratto: «La scommessa l'ho persa di brutto. L'ho tentata, ma il resto lo ha fatto lui». Certificato medico per gastroenterite dopo due settimane di assenze, di presenze svogliate, di ritardi, di sbadigli, di «non voglio giocare», di ronfate sul divano. Atleticamente impresentabile. Lo sdraiato. «Why always me?», si domandava facendo leggere la canottiera ai tifosi ai tempi del Manchester City quando - assieme a reprimende, espulsioni e ammende - collezionava anche gol decisivi. Perché sempre lui, l'apocalittico di talento, vittima suprema della società degli integrati? La risposta è perfino elementare: perché non basta aver giocato 20 o 30 partite da campione per essere un campione. Non basta credersi un campione per essere un campione. Chi lo ha allenato - a partire da Roberto Mancini al quale ha fatto vincere il titolo nella parte azzurra di Manchester dopo 44 anni di astinenza -, ha sempre sostenuto che di Balotelli ce ne sono due: Super Mario e Stupid Mario. Il primo segnava gol impensabili, il secondo si faceva espellere al primo fallo. «Il problema è che non sapevi mai con quale dei due stavi scendendo in campo», parola di José Mourinho. Con il tempo se n'è aggiunto un terzo, materializzatosi durante la prima (pur notevole, 26 gol) esperienza al Milan nel 2014: Lazy Mario, lo sfaticato. L'esatto contrario del motto di Albert Einstein: «Il genio è uno per cento ispirazione e 99 per cento traspirazione». Già tronfio, sicuro di sé, a 25 anni si è sentito arrivato e la sua vita sportiva non è stata più la stessa. Da lì in poi qualche sassata all'incrocio dei pali e troppe dormite in campo mentre i compagni sudavano anche per lui; il calcio è pur sempre un gioco di squadra, non poteva durare e non durava mai. Non al Liverpool, non di nuovo al Milan, non al Nizza, non al Marsiglia. Infine non al Brescia dove Cellino lo aveva portato per fargli riscoprire l'aria di casa, il profumo dell'adolescenza. Sperava, il presidente, di far risbocciare il Balotelli dell'Inter, quello che annichilì Francesco Totti scherzandolo in dribbling e facendolo uscire di senno per lesa maestà (fallaccio di frustrazione ed espulsione). O di rivedere sprazzi del Super Mario da Premier, finalmente pacificato e inserito nel contesto sociale della Brescia delle coccole. La partenza era stata confortante: «Quando ho detto a mamma Silvia che sarei tornato a casa, è scoppiata a piangere. Era felicissima e lo sarebbe stato anche mio papà, a vedermi giocare con la maglia della nostra città». Qualche cronista diffidente, il giorno della presentazione, la domandina avvelenata gliela fece. E incassò la consueta risposta: «Paure di fallimento? Zero. Di quelle ne avete più voi che io». Poi la stagione è andata così, una deriva lenta verso il nulla, il blues dell'insignificanza. Tre allenatori, Eugenio Corini, Fabio Grosso, Diego Lopez, e una sola sentenza: «Non ha più voglia di lavorare». Più facile lo smartworking con le dita sulla consolle. Con Diego Lopez ad aggiungere il punto esclamativo: «Fuori dal campo devo occuparmi dei miei tre figli, non di ragazzi adulti che dovrebbero sapere che i comportamenti hanno delle conseguenze». Fine della storia.Di lui rimangono due flash assoluti di grandezza e un'appendice furbesca da grottesco guru antirazzismo grazie alla quale sperava di coprire indolenze e limiti. Madrid, 2010, sera della Champions League dell'Inter: al fischio finale si abbracciano tutti, ma i raccattapalle della cantera del Real Madrid hanno occhi, sorriso e pacche per uno solo. È Balotelli, la forza della natura che non ha messo piede in campo ma che è già stato eletto numero uno di un'intera generazione. Varsavia, 2012, semifinale Italia-Germania agli Europei: segna due gol, annichilisce Manuel Neuer su assist di Antonio Cassano. Fratelli d'Italia nella follia e nel trionfo. L'incredibile Hulk piantato in mezzo all'area, possente e invincibile. Quell'anno si merita la copertina di Time, viene inserito fra le 100 persone più influenti del pianeta. Poi arriva anche la prima pagina di Sport Illustrated con la didascalia (delirante con il senno di poi): «Ecco l'uomo più interessante del mondo». C'è chi perde la testa per molto meno. È il 2013 e lui si crede un dio, invece è solo un Icaro che sta volando con le ali posticce verso il sole. Inutile perdere tempo con le balotellate (neologismo entrato nell'enciclopedia Treccani), le ha fatte tutte. Ha sfasciato auto, ha partecipato a risse, da giocatore dell'Inter ha indossato la maglia del Milan, ha tirato freccette dalla finestra ai ragazzi della Primavera, ha incendiato il bagno di casa con i fuochi d'artificio, si è visto ridurre la patente a coriandoli per eccesso di velocità. Un bambino viziato, fulminato da un ricordo surreale dall'allenatore Gigi Cagni: «Ai tempi del City gli parlai un attimo dopo l'allenamento. Gli chiesi contro chi giocava nel weekend e lui mi rispose che non lo sapeva. Un giocatore non può non sapere contro chi giocherà». Ecco, grazie alla dittatura del politicamente corretto qualche mese fa Lazy Mario stava per diventare Black Power Mario. La scritta della ribellione nera se l'è fatta tatuare anche sulla tempia. Sarebbe stato il delitto perfetto, riciclarsi come icona dell'antirazzismo approfittando dell'idiozia di dieci ultrà del Verona. Lui come LeBron James, come Lilian Thuram e prima Arthur Ashe. Roba da brividi, la degenerazione di un ideale. Quel giorno si svegliò discriminato e fermò la partita, simbolo dei diritti negati senza avere mai letto neppure La Capanna dello zio Tom. Molti esploratori dell'ovvio che frequentano le redazioni erano disposti a dargli corda, ma anche per essere una pantera nera serve quel minimo di adrenalina, di applicazione. Quello che faceva dire a Pablo Picasso: «L'ispirazione esiste ma quando arriva deve trovarti già al lavoro». Mario, che parolaccia.
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