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2024-12-04
«Produrre, nonostante tutto»: gli imprenditori italiani nell'Eritrea post coloniale
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Asmara nel 1955. Dall'alto: Guido De Nadai, Emma Melotti, Roberto Barattolo (Getty Images)
La mattina del 1° aprile 1941 cambierà la vita ai circa 80 mila italiani di Eritrea. Perduta l’ultima sanguinosa battaglia, quella di Cheren, le truppe britanniche occupavano la capitale Asmara. Tutto intorno, il mondo si allontanava da quella terra del Corno d’Africa, italiana già dal 1890. L’isolamento e l’occupazione dei vincitori oscuravano la vista sul mondo entrato nelle fasi più violente della guerra. Per la popolazione, non solo quella italiana, l’unico obiettivo da perseguire nel breve termine era la mera sopravvivenza. Per gli uomini che erano stati in armi si aprivano le porte dei campi di prigionia in Kenya o in Sudan, mentre le fabbriche costruite e gestite dagli italiani durante il mezzo secolo di colonizzazione languivano prive di rifornimenti e mano d’opera. Ad aggravare la situazione, l’inflazione creata dall’introduzione della valuta d'occupazione da parte degli Alleati che aggiungeva difficoltà alla già delicatissima situazione generale. Tuttavia, pur paralizzati dagli sviluppi del conflitto e dalle minacce di quella parte di popolazione eritrea ostile alla presenza italiana, l’industria del paese si era molto evoluta negli ultimi due decenni. In tutti i campi, dalla meccanica all’agricoltura, dal tessile ai manufatti, gli imprenditori italiani avevano contribuito a creare un sistema industriale e artigianale in grado di superare i confini della colonia primigenia non soltanto nell’export verso la madrepatria, ma avviando scambi commerciali importanti con i Paesi africani confinanti a anche con quelli della Penisola araba. Tra il 1941 e il 1945 la loro opera precedente al crollo dell’Africa Orientale Italiana fu vitale per la permanenza in Eritrea sotto l’Amministrazione militare britannica. Gli Inglesi, infatti, non mostrarono particolare ostilità verso i cittadini del Paese nemico in quanto in quella fase in cui i giochi in Africa non erano ancora decisi, avevano bisogno delle capacità industriali degli italiani. L’esercito britannico, nel momento dell’occupazione, mancava di adeguati rifornimenti, per cui fu importante per il comando militare inglese attingere alle scorte italiane, sia di materiali che di beni di prima necessità. La rete industriale italiana era troppo preziosa per essere annichilita o spogliata del tutto. Le aziende degli ex colonizzatori potevano servire per alimentare le truppe di sua Maestà, curarsi delle infrastrutture danneggiate dagli eventi bellici, procurare manufatti e riparare macchinari. D’altra parte, secondo quanto stabilito dalla convenzione de L’ Aia nel 1907, gli occupanti erano tenuti a mantenere la struttura amministrativa precedente (molti funzionari italiani rimasero ai loro impieghi anche dopo la caduta della colonia) ed era loro impedito di operare saccheggi o spoliazioni. Il periodo più difficile giunse però alla fine dell’anno 1941, quando le scorte italiane finirono e quando l’Etiopia nuovamente governata dal Negus Hailé Selassié, chiuse le frontiere con l’Eritrea, mentre il risentimento antiitaliano di parte della popolazione si fece più evidente e le fabbriche mancavano di personale per ripartire dopo le deportazioni nei campi di prigionia. Fu tra il 1942 e il 1945 che si sviluppò ai massimi livelli la capacità di resilienza che caratterizzò l’imprenditoria italiana, che seppe operare in quegli anni fortemente avversi un vero e proprio «miracolo». La provvidenza giunse dal mare, o meglio, dal porto di Massaua. Qui i tedeschi, prima della ritirata, avevano lasciato all’ancora 11 piroscafi pieni di merci e materiali vari. Fu dalle stive di quelle navi ex alleate dell’Asse che fu possibile per gli imprenditori italiani trarre almeno un po’di linfa per ripartire, sotto gli occhi indifferenti ma tuttavia tolleranti degli Inglesi. La scuola di sopravvivenza italiana, inoltre, era stata inconsapevolmente forgiata dal regime fascista con l’imposizione dell’autarchia seguita alla guerra d’Etiopia. Già prima della guerra mondiale, infatti, le aziende presenti in Eritrea avevano imparato a sfruttare materie e tecniche alternative per limitare la dipendenza dalle importazioni e ridurre il peso delle sanzioni. Un esempio su tutti fu la capacità di ricondizionamento degli pneumatici per i camion, praticato già prima della guerra dagli impianti eritrei della Pirelli. Dal 1941 le materie prime e i ricambi vennero a mancare, mentre i britannici batterono all’asta diversi macchinari installati negli anni della colonia italiana oppure li impiegarono altrove, per scopi bellici. Un esempio della parziale spoliazione fu l’asportazione dei motori della teleferica Massaua-Asmara, allora la più lunga del mondo con i suoi 75 km di linea. L’amministrazione militare britannica la considerò preda di guerra anche se fu sempre usata per scopi civili ed iniziò la rimozione delle parti meccaniche (motori diesel ed elettrici) troncando così un’importante arteria di scambio merci tra la capitale ed il porto di Massaua, un tempo strabordante di navi. A questa carenza di beni essenziali e di manodopera, all’opera degli Inglesi se non ostili quantomeno indifferenti alla sorte degli italiani d’Etiopia, gli imprenditori dell’ex colonia africana risposero con le braccia e con l’ingegno. Affrontando un progressivo spopolamento dovuto ai rimpatri, rischiando la vita a causa delle aggressioni degli Sciftà (i predoni spesso sobillati dalle fazioni anti-italiane) e isolati dal resto del mondo e dalla madrepatria che stava per affrontare il dramma della guerra civile e della divisione tra il Nord della Rsi e il Sud dove avanzavano gli Alleati, i lavoratori italiani si ingegnarono per sopravvivere. Vi fu chi produsse i chiodi e la minuteria fondendo rottami bellici come i fratelli Francesco e Teodoro Magnotti e chi produsse a mano, come Luigi Audisio e Giorgio Gintili i pezzi di ricambio degli autocarri Fiat 634, fondamentali per la movimentazione delle merci. Vincenzo Costa, imprenditore meccanico dal 1936, si occupò di costruire motopompe e macchine agricole dai residuati bellici. Mancavano anche i fiammiferi, ai quali pensò Agostino Borello, ricavando il fosforo dalla cottura delle ossa animali ed arrivando a produrre fino a 300.000 scatole che in parte vendette anche agli Inglesi. Lo stesso settore fu diviso con l’ex ingegnere Pirelli Aldo Maderni, che risalì alla formula chimica per la produzione delle teste dei fiammiferi ottenendo le materie prime dalle stive dei piroscafi tedeschi di Massaua. Per la produzione delle scatole usò le vecchie cartoline propagandistiche dell’Africa Orientale Italiana, soluzione che creò qualche problema con l’autorità militare inglese per sospetta apologia del fascismo e con la Chiesa a causa delle nudità delle «belle abissine» riprodotte sulle scatole dell’azienda da lui fondata, la Ifma (Industria fiammiferi Asmara). Nelle risorse naturali del Paese gli italiani trovarono linfa vitale, come nel caso dello sfruttamento della palma «dum» (Hyphaene thebaica) utilizzata interamente, dal legno ai frutti ai semi, per scopi diversi: dalla produzione di basi alcooliche ai tessuti fino all'utilizzo degli scarti della lavorazione per i mangimi destinati al prezioso bestiame da allevamento. Fu talmente fervida l’attività industriale italiana negli anni di guerra che nel 1943 gli imprenditori si riunirono organizzando la M.a.p.e., la Mostra delle Attività Produttive di Eritrea, generando ammirazione tra i comandi britannici. Gli anni che seguirono la fine della guerra furono invece i più difficili per gli imprenditori italiani: la fine del ruolo strategico militare dell’Eritrea nel teatro bellico e l’incertezza sul futuro del Paese stretto tra incognite che spaziavano da un’annessione all’Etiopia, ad una federazione con Addis Abeba o ad una amministrazione fiduciaria italiana generarono una paralisi politica ed economica. Da un punto di vista finanziario gli imprenditori italiani, non potendo contare sull’aiuto dell’Italia prostrata dalla guerra, subirono anche una stretta creditizia quando le banche italiane si ritirarono lasciando il posto al colosso Barclays, poco incline a concedere finanziamento agli ex colonizzatori. In quei difficili anni, la curva della popolazione italiana in Eritrea segnò l'inizio del declino. Ma i pochi che rimasero erano determinati a proseguire nelle proprie attività imprenditoriali in una terra nella quale avevano investito tutto.
Nel settore delle bevande alcoliche, in particolare della birra, dal 1942 nacque l’astro di Luigi Melotti. Ex ingegnere civile, si era occupato della rete stradale nel Corno d’Africa. Dopo la caduta di Asmara, Melotti sperimentò la fermentazione della birra che in breve tempo riuscì a produrre industrialmente, aprendo parallelamente una vetreria. La sua birra diventerà presto la più amata e bevuta di Eritrea e non solo, visto che la sviluppata capacità produttiva permetterà l’export negli Stati confinanti e nella penisola Arabica. La storia del birrificio Melotti (che oggi esiste ancora pur con il nuovo marchio di Birra Asmara ed un capitale misto pubblico e privato) è esemplare non solo da un punto di vista imprenditoriale, ma rende l’idea delle difficoltà estreme che gli italiani a capo delle aziende eritree tra gli anni ’40 e ’50 dovettero affrontare. Luigi Melotti moriva prematuramente nel 1946, senza aver indicato un successore. Fu così che le redini del birrificio e della vetreria furono prese dalla moglie Emma, una donna che fino a quel momento tragico aveva fatto parte della mondanità asmarina. Oltre all’oggettiva difficoltà di inserimento ai vertici dell’azienda, nel cui percorso fu fortunatamente aiutata da validi collaboratori del marito sia italiani che eritrei, Emma Melotti ebbe a sopportare un’ulteriore tragedia, non infrequente nella comunità italiana negli anni della distratta amministrazione militare britannica. Il 26 aprile 1951 il cognato di Emma, Rodolfo Melotti, cadeva in un’imboscata sciftà al confine con il Sudan lasciando la vedova del fratello Luigi completamente sola alla guida dell’azienda. Ritroveremo Emma Melotti nelle cronache due anni più tardi ancora saldamente al timone, intervistata per il Corriere della Sera da Indro Montanelli. Il grande giornalista ne descriveva il carattere schivo e quasi impacciato, ancora influenzata dal suo status di «signora» della borghesia industriale. Minuta e timida, Emma si trasformava una volta entrata nel ruolo di capitano di impresa, risultando autorevole e quasi aggressiva, come raccontò Montanelli che durante la visita al birrificio assistette ad una sua telefonata di lavoro. E l’esempio di Emma Melotti è paradigmatico per quanto riguardava l’elemento femminile nel mondo del lavoro nell’Eritrea post coloniale. Le donne, molto prima che nel mondo occidentale, presero parte alle attività produttive raggiungendo tra gli anni Cinquanta e Sessanta un livello di emancipazione in tanti casi superiore a quello europeo. Il birrificio Melotti fiorì negli anni della federazione tra Etiopia e Eritrea e in seguito anche dopo l’annessione sotto Hailé Selassié. L’azienda sarà nazionalizzata dopo il colpo di stato del Derg, guidato da Menghistu e riaperta soltanto nel 1991 dopo la riconquista dell’indipendenza eritrea. La famiglia Melotti, un’istituzione per decenni all’Asmara, rimase al centro della mondanità cittadina e la villa di proprietà, costruita nel 1964 su progetto di Luigi Vietti. La sontuosa proprietà, disegnata dall’architetto che creò la Costa Smeralda dell’Aga Khan, fu un punto di riferimento per diplomatici, politici e industriali italiani ed esteri. La storia della villa battezzata «Cyprea» seguirà le sorti politiche del Paese, venendo purtroppo distrutta nel 2006 sotto il regime di Isaias Afeworki.
Molte furono le imprese italiane nate e sviluppatesi nei cosiddetti anni d’oro dell’Eritrea, tra la fine dell’amministrazione militare britannica, la federazione con l’Etiopia e anche dopo l’annessione del 1962. Alcune di queste realtà industriali raggiunsero ragguardevoli dimensioni, nonostante l’assottigliamento progressivo della comunità italiana che alla metà degli anni ’60 arrivava a malapena a 7.000 persone, che tuttavia erano in grado di dare lavoro a circa 60.000 eritrei. Le realtà industriali di rilievo guidate da italiani erano alla metà degli anni Sessanta oltre 60. Tra le aziende maggiormente sviluppate, vi erano quelle legate ai prodotti della terra. Non solo alimentari, ma anche produttrici di materie prime per la trasformazione da parte dell’industria tessile. Esemplare in questo campo fu il cotonificio Barattolo, una realtà industriale nata dall’opera di Roberto Barattolo nel 1956. In Eritrea dal 1934, aprì inizialmente una piccola attività di commercio. Alla caduta della colonia fu fatto prigioniero dagli inglesi. Dopo la liberazione, riuscì abilmente a entrare in contatto con le autorità britanniche ed alcuni finanziatori statunitensi che gli permisero di realizzare importanti investimenti nella coltura estensiva del cotone e in seguito nel 1952 negli impianti tessili di Godaif, quartiere dell’Asmara. Nel decennio successivo l’azienda tessile ebbe uno sviluppo impressionante, arrivando ad impiegare migliaia di lavoratori e diffondendo in Africa Orientale milioni di capi colorati e accessori per il vestiario. La sorte del cotonificio seguì quella di molte altre aziende italiane quando il colpo di Stato del 1975 portò alla nazionalizzazione forzata e lo stesso fondatore Roberto Barattolo, privato della proprietà, fu costretto a rimanere come supervisore dopo avere avuto il passaporto ritirato dai militari filomarxisti di Menghistu. Oggi quello che fu il grande cotonificio rivive grazie alla guida di un altro italiano, Giancarlo Zambaiti. Nel 2004 rilevò per la cifra simbolica di un dollaro quel che rimaneva del cotonificio Barattolo. Dopo importanti investimenti, ha ripreso la produzione di capi di abbigliamento sotto il brand di Za.Er (Zambaiti Eritrea). Oggi la fabbrica offre una serie di benefit per i lavoratori e per i loro figli, come l’asilo nido ed è guidata da Pietro Zambaiti, figlio del fondatore.
Nel settore agroalimentare non si può dimenticare la storia industriale nata dal lavoro italiano nella zona di Elaberet, a Nord della capitale Asmara in direzione di Cheren. La terra fu sfruttata fin dai primi anni della colonia e sviluppata dalla famiglia di Pietro Casciani, e alla morte del fondatore nel 1942, dai due figli Felice e Filippo. Specializzati nell’agricoltura e nell’allevamento bovino, in particolare l’azienda si occupò della trasformazione delle fibre ottenute dall’agave per la realizzazione di cordame e tessuti. Alla fine degli anni Cinquanta, nel capitale entrò un altro tra gli italiani che ebbero un ruolo preminente nell’economia dell’Eritrea post coloniale, Guido De Nadai. Veneto di Cavaso del Tomba in provincia di Treviso, giunse in Etiopia alla metà degli anni ’30 come Casciani. Figlio di un commerciante di frutta e verdura, rilevò l’attività del padre scomparso assieme al fratello Ottorino, che stabilì a Udine la sede logistica. Ambizioso, a 24 anni Guido vide nelle colonie l’opportunità per allargare il giro di affari dell’azienda di famiglia e in Eritrea stabilì un centro di esportazione di frutta con l’Italia. Gli eventi bellici paralizzarono momentaneamente l’attività ma nel 1948, quando i traffici commerciali ripresero sotto l’amministrazione britannica, si dedicò all’export con la vicina penisola araba, potenziando l’attività con l’acquisto di celle frigo e di una nave. Nel 1956 la crisi di Suez interruppe per la seconda volta l’ascesa di De Nadai, come fu dopo la caduta della colonia del decennio precedente. Inarrestabile, l’imprenditore veneto mise allora gli occhi sulla tenuta di Elaberet gestita dai connazionali fratelli Casciani, con i quali entrò in società. L’impulso che diede il nuovo socio con i capitali disponibili fu impressionante. Opere idrauliche imponenti risolsero il problema della carenza d’acqua. L’agave non fu più la monocoltura di Elaberet. La frutta, gli ortaggi e l’allevamento presero piede assieme alla vite per la produzione del vino (la zona si trova a 1.550 m. sul livello del mare) e dal latte, De Nadai ricavò addirittura il formaggio Grana. Gli anni Sessanta rappresentarono il culmine della produzione, durante i quali l’imprenditore scampò a stento ad un attentato di predoni, prima che il nuovo decennio portasse nuove nubi cariche di tempesta su un’azienda che con l’indotto occupava 10 mila persone. Nel 1975 il regime del Derg imponeva la nazionalizzazione e De Nadai riusciva a mantenere il business spostandosi nei Paesi arabi suoi clienti di lunga data. Nel 1980 Siad Barre lo chiamava per un intervento nella grave crisi economica della Somalia, già colonia italiana. Nella nuova terra adottiva dopo una serie di grandi investimenti tecnologici la neonata Somalfruit fece impennare il settore agroalimentare nazionale fino ad una nuova crisi sfociata nella guerra civile somala alla fine del decennio. Come l’araba fenice, De Nadai non si fece cogliere impreparato e fu in grado di conquistare altri mercati in Cile e Sudafrica, diventando uno dei player mondiali del mercato della frutta. Oggi il gruppo Unifrutti, erede diretto della tenuta di Elaberet, ha sedi in ogni angolo del mondo.
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Uomini e donne alla guida delle aziende italiane in Eritrea dopo la caduta dell'Africa Orientale Italiana: una storia di sopravvivenza e resilienza durata dall'Amministrazione militare britannica alla dittatura di Menghistu.La mattina del 1° aprile 1941 cambierà la vita ai circa 80 mila italiani di Eritrea. Perduta l’ultima sanguinosa battaglia, quella di Cheren, le truppe britanniche occupavano la capitale Asmara. Tutto intorno, il mondo si allontanava da quella terra del Corno d’Africa, italiana già dal 1890. L’isolamento e l’occupazione dei vincitori oscuravano la vista sul mondo entrato nelle fasi più violente della guerra. Per la popolazione, non solo quella italiana, l’unico obiettivo da perseguire nel breve termine era la mera sopravvivenza. Per gli uomini che erano stati in armi si aprivano le porte dei campi di prigionia in Kenya o in Sudan, mentre le fabbriche costruite e gestite dagli italiani durante il mezzo secolo di colonizzazione languivano prive di rifornimenti e mano d’opera. Ad aggravare la situazione, l’inflazione creata dall’introduzione della valuta d'occupazione da parte degli Alleati che aggiungeva difficoltà alla già delicatissima situazione generale. Tuttavia, pur paralizzati dagli sviluppi del conflitto e dalle minacce di quella parte di popolazione eritrea ostile alla presenza italiana, l’industria del paese si era molto evoluta negli ultimi due decenni. In tutti i campi, dalla meccanica all’agricoltura, dal tessile ai manufatti, gli imprenditori italiani avevano contribuito a creare un sistema industriale e artigianale in grado di superare i confini della colonia primigenia non soltanto nell’export verso la madrepatria, ma avviando scambi commerciali importanti con i Paesi africani confinanti a anche con quelli della Penisola araba. Tra il 1941 e il 1945 la loro opera precedente al crollo dell’Africa Orientale Italiana fu vitale per la permanenza in Eritrea sotto l’Amministrazione militare britannica. Gli Inglesi, infatti, non mostrarono particolare ostilità verso i cittadini del Paese nemico in quanto in quella fase in cui i giochi in Africa non erano ancora decisi, avevano bisogno delle capacità industriali degli italiani. L’esercito britannico, nel momento dell’occupazione, mancava di adeguati rifornimenti, per cui fu importante per il comando militare inglese attingere alle scorte italiane, sia di materiali che di beni di prima necessità. La rete industriale italiana era troppo preziosa per essere annichilita o spogliata del tutto. Le aziende degli ex colonizzatori potevano servire per alimentare le truppe di sua Maestà, curarsi delle infrastrutture danneggiate dagli eventi bellici, procurare manufatti e riparare macchinari. D’altra parte, secondo quanto stabilito dalla convenzione de L’ Aia nel 1907, gli occupanti erano tenuti a mantenere la struttura amministrativa precedente (molti funzionari italiani rimasero ai loro impieghi anche dopo la caduta della colonia) ed era loro impedito di operare saccheggi o spoliazioni. Il periodo più difficile giunse però alla fine dell’anno 1941, quando le scorte italiane finirono e quando l’Etiopia nuovamente governata dal Negus Hailé Selassié, chiuse le frontiere con l’Eritrea, mentre il risentimento antiitaliano di parte della popolazione si fece più evidente e le fabbriche mancavano di personale per ripartire dopo le deportazioni nei campi di prigionia. Fu tra il 1942 e il 1945 che si sviluppò ai massimi livelli la capacità di resilienza che caratterizzò l’imprenditoria italiana, che seppe operare in quegli anni fortemente avversi un vero e proprio «miracolo». La provvidenza giunse dal mare, o meglio, dal porto di Massaua. Qui i tedeschi, prima della ritirata, avevano lasciato all’ancora 11 piroscafi pieni di merci e materiali vari. Fu dalle stive di quelle navi ex alleate dell’Asse che fu possibile per gli imprenditori italiani trarre almeno un po’di linfa per ripartire, sotto gli occhi indifferenti ma tuttavia tolleranti degli Inglesi. La scuola di sopravvivenza italiana, inoltre, era stata inconsapevolmente forgiata dal regime fascista con l’imposizione dell’autarchia seguita alla guerra d’Etiopia. Già prima della guerra mondiale, infatti, le aziende presenti in Eritrea avevano imparato a sfruttare materie e tecniche alternative per limitare la dipendenza dalle importazioni e ridurre il peso delle sanzioni. Un esempio su tutti fu la capacità di ricondizionamento degli pneumatici per i camion, praticato già prima della guerra dagli impianti eritrei della Pirelli. Dal 1941 le materie prime e i ricambi vennero a mancare, mentre i britannici batterono all’asta diversi macchinari installati negli anni della colonia italiana oppure li impiegarono altrove, per scopi bellici. Un esempio della parziale spoliazione fu l’asportazione dei motori della teleferica Massaua-Asmara, allora la più lunga del mondo con i suoi 75 km di linea. L’amministrazione militare britannica la considerò preda di guerra anche se fu sempre usata per scopi civili ed iniziò la rimozione delle parti meccaniche (motori diesel ed elettrici) troncando così un’importante arteria di scambio merci tra la capitale ed il porto di Massaua, un tempo strabordante di navi. A questa carenza di beni essenziali e di manodopera, all’opera degli Inglesi se non ostili quantomeno indifferenti alla sorte degli italiani d’Etiopia, gli imprenditori dell’ex colonia africana risposero con le braccia e con l’ingegno. Affrontando un progressivo spopolamento dovuto ai rimpatri, rischiando la vita a causa delle aggressioni degli Sciftà (i predoni spesso sobillati dalle fazioni anti-italiane) e isolati dal resto del mondo e dalla madrepatria che stava per affrontare il dramma della guerra civile e della divisione tra il Nord della Rsi e il Sud dove avanzavano gli Alleati, i lavoratori italiani si ingegnarono per sopravvivere. Vi fu chi produsse i chiodi e la minuteria fondendo rottami bellici come i fratelli Francesco e Teodoro Magnotti e chi produsse a mano, come Luigi Audisio e Giorgio Gintili i pezzi di ricambio degli autocarri Fiat 634, fondamentali per la movimentazione delle merci. Vincenzo Costa, imprenditore meccanico dal 1936, si occupò di costruire motopompe e macchine agricole dai residuati bellici. Mancavano anche i fiammiferi, ai quali pensò Agostino Borello, ricavando il fosforo dalla cottura delle ossa animali ed arrivando a produrre fino a 300.000 scatole che in parte vendette anche agli Inglesi. Lo stesso settore fu diviso con l’ex ingegnere Pirelli Aldo Maderni, che risalì alla formula chimica per la produzione delle teste dei fiammiferi ottenendo le materie prime dalle stive dei piroscafi tedeschi di Massaua. Per la produzione delle scatole usò le vecchie cartoline propagandistiche dell’Africa Orientale Italiana, soluzione che creò qualche problema con l’autorità militare inglese per sospetta apologia del fascismo e con la Chiesa a causa delle nudità delle «belle abissine» riprodotte sulle scatole dell’azienda da lui fondata, la Ifma (Industria fiammiferi Asmara). Nelle risorse naturali del Paese gli italiani trovarono linfa vitale, come nel caso dello sfruttamento della palma «dum» (Hyphaene thebaica) utilizzata interamente, dal legno ai frutti ai semi, per scopi diversi: dalla produzione di basi alcooliche ai tessuti fino all'utilizzo degli scarti della lavorazione per i mangimi destinati al prezioso bestiame da allevamento. Fu talmente fervida l’attività industriale italiana negli anni di guerra che nel 1943 gli imprenditori si riunirono organizzando la M.a.p.e., la Mostra delle Attività Produttive di Eritrea, generando ammirazione tra i comandi britannici. Gli anni che seguirono la fine della guerra furono invece i più difficili per gli imprenditori italiani: la fine del ruolo strategico militare dell’Eritrea nel teatro bellico e l’incertezza sul futuro del Paese stretto tra incognite che spaziavano da un’annessione all’Etiopia, ad una federazione con Addis Abeba o ad una amministrazione fiduciaria italiana generarono una paralisi politica ed economica. Da un punto di vista finanziario gli imprenditori italiani, non potendo contare sull’aiuto dell’Italia prostrata dalla guerra, subirono anche una stretta creditizia quando le banche italiane si ritirarono lasciando il posto al colosso Barclays, poco incline a concedere finanziamento agli ex colonizzatori. In quei difficili anni, la curva della popolazione italiana in Eritrea segnò l'inizio del declino. Ma i pochi che rimasero erano determinati a proseguire nelle proprie attività imprenditoriali in una terra nella quale avevano investito tutto.Nel settore delle bevande alcoliche, in particolare della birra, dal 1942 nacque l’astro di Luigi Melotti. Ex ingegnere civile, si era occupato della rete stradale nel Corno d’Africa. Dopo la caduta di Asmara, Melotti sperimentò la fermentazione della birra che in breve tempo riuscì a produrre industrialmente, aprendo parallelamente una vetreria. La sua birra diventerà presto la più amata e bevuta di Eritrea e non solo, visto che la sviluppata capacità produttiva permetterà l’export negli Stati confinanti e nella penisola Arabica. La storia del birrificio Melotti (che oggi esiste ancora pur con il nuovo marchio di Birra Asmara ed un capitale misto pubblico e privato) è esemplare non solo da un punto di vista imprenditoriale, ma rende l’idea delle difficoltà estreme che gli italiani a capo delle aziende eritree tra gli anni ’40 e ’50 dovettero affrontare. Luigi Melotti moriva prematuramente nel 1946, senza aver indicato un successore. Fu così che le redini del birrificio e della vetreria furono prese dalla moglie Emma, una donna che fino a quel momento tragico aveva fatto parte della mondanità asmarina. Oltre all’oggettiva difficoltà di inserimento ai vertici dell’azienda, nel cui percorso fu fortunatamente aiutata da validi collaboratori del marito sia italiani che eritrei, Emma Melotti ebbe a sopportare un’ulteriore tragedia, non infrequente nella comunità italiana negli anni della distratta amministrazione militare britannica. Il 26 aprile 1951 il cognato di Emma, Rodolfo Melotti, cadeva in un’imboscata sciftà al confine con il Sudan lasciando la vedova del fratello Luigi completamente sola alla guida dell’azienda. Ritroveremo Emma Melotti nelle cronache due anni più tardi ancora saldamente al timone, intervistata per il Corriere della Sera da Indro Montanelli. Il grande giornalista ne descriveva il carattere schivo e quasi impacciato, ancora influenzata dal suo status di «signora» della borghesia industriale. Minuta e timida, Emma si trasformava una volta entrata nel ruolo di capitano di impresa, risultando autorevole e quasi aggressiva, come raccontò Montanelli che durante la visita al birrificio assistette ad una sua telefonata di lavoro. E l’esempio di Emma Melotti è paradigmatico per quanto riguardava l’elemento femminile nel mondo del lavoro nell’Eritrea post coloniale. Le donne, molto prima che nel mondo occidentale, presero parte alle attività produttive raggiungendo tra gli anni Cinquanta e Sessanta un livello di emancipazione in tanti casi superiore a quello europeo. Il birrificio Melotti fiorì negli anni della federazione tra Etiopia e Eritrea e in seguito anche dopo l’annessione sotto Hailé Selassié. L’azienda sarà nazionalizzata dopo il colpo di stato del Derg, guidato da Menghistu e riaperta soltanto nel 1991 dopo la riconquista dell’indipendenza eritrea. La famiglia Melotti, un’istituzione per decenni all’Asmara, rimase al centro della mondanità cittadina e la villa di proprietà, costruita nel 1964 su progetto di Luigi Vietti. La sontuosa proprietà, disegnata dall’architetto che creò la Costa Smeralda dell’Aga Khan, fu un punto di riferimento per diplomatici, politici e industriali italiani ed esteri. La storia della villa battezzata «Cyprea» seguirà le sorti politiche del Paese, venendo purtroppo distrutta nel 2006 sotto il regime di Isaias Afeworki.Molte furono le imprese italiane nate e sviluppatesi nei cosiddetti anni d’oro dell’Eritrea, tra la fine dell’amministrazione militare britannica, la federazione con l’Etiopia e anche dopo l’annessione del 1962. Alcune di queste realtà industriali raggiunsero ragguardevoli dimensioni, nonostante l’assottigliamento progressivo della comunità italiana che alla metà degli anni ’60 arrivava a malapena a 7.000 persone, che tuttavia erano in grado di dare lavoro a circa 60.000 eritrei. Le realtà industriali di rilievo guidate da italiani erano alla metà degli anni Sessanta oltre 60. Tra le aziende maggiormente sviluppate, vi erano quelle legate ai prodotti della terra. Non solo alimentari, ma anche produttrici di materie prime per la trasformazione da parte dell’industria tessile. Esemplare in questo campo fu il cotonificio Barattolo, una realtà industriale nata dall’opera di Roberto Barattolo nel 1956. In Eritrea dal 1934, aprì inizialmente una piccola attività di commercio. Alla caduta della colonia fu fatto prigioniero dagli inglesi. Dopo la liberazione, riuscì abilmente a entrare in contatto con le autorità britanniche ed alcuni finanziatori statunitensi che gli permisero di realizzare importanti investimenti nella coltura estensiva del cotone e in seguito nel 1952 negli impianti tessili di Godaif, quartiere dell’Asmara. Nel decennio successivo l’azienda tessile ebbe uno sviluppo impressionante, arrivando ad impiegare migliaia di lavoratori e diffondendo in Africa Orientale milioni di capi colorati e accessori per il vestiario. La sorte del cotonificio seguì quella di molte altre aziende italiane quando il colpo di Stato del 1975 portò alla nazionalizzazione forzata e lo stesso fondatore Roberto Barattolo, privato della proprietà, fu costretto a rimanere come supervisore dopo avere avuto il passaporto ritirato dai militari filomarxisti di Menghistu. Oggi quello che fu il grande cotonificio rivive grazie alla guida di un altro italiano, Giancarlo Zambaiti. Nel 2004 rilevò per la cifra simbolica di un dollaro quel che rimaneva del cotonificio Barattolo. Dopo importanti investimenti, ha ripreso la produzione di capi di abbigliamento sotto il brand di Za.Er (Zambaiti Eritrea). Oggi la fabbrica offre una serie di benefit per i lavoratori e per i loro figli, come l’asilo nido ed è guidata da Pietro Zambaiti, figlio del fondatore.Nel settore agroalimentare non si può dimenticare la storia industriale nata dal lavoro italiano nella zona di Elaberet, a Nord della capitale Asmara in direzione di Cheren. La terra fu sfruttata fin dai primi anni della colonia e sviluppata dalla famiglia di Pietro Casciani, e alla morte del fondatore nel 1942, dai due figli Felice e Filippo. Specializzati nell’agricoltura e nell’allevamento bovino, in particolare l’azienda si occupò della trasformazione delle fibre ottenute dall’agave per la realizzazione di cordame e tessuti. Alla fine degli anni Cinquanta, nel capitale entrò un altro tra gli italiani che ebbero un ruolo preminente nell’economia dell’Eritrea post coloniale, Guido De Nadai. Veneto di Cavaso del Tomba in provincia di Treviso, giunse in Etiopia alla metà degli anni ’30 come Casciani. Figlio di un commerciante di frutta e verdura, rilevò l’attività del padre scomparso assieme al fratello Ottorino, che stabilì a Udine la sede logistica. Ambizioso, a 24 anni Guido vide nelle colonie l’opportunità per allargare il giro di affari dell’azienda di famiglia e in Eritrea stabilì un centro di esportazione di frutta con l’Italia. Gli eventi bellici paralizzarono momentaneamente l’attività ma nel 1948, quando i traffici commerciali ripresero sotto l’amministrazione britannica, si dedicò all’export con la vicina penisola araba, potenziando l’attività con l’acquisto di celle frigo e di una nave. Nel 1956 la crisi di Suez interruppe per la seconda volta l’ascesa di De Nadai, come fu dopo la caduta della colonia del decennio precedente. Inarrestabile, l’imprenditore veneto mise allora gli occhi sulla tenuta di Elaberet gestita dai connazionali fratelli Casciani, con i quali entrò in società. L’impulso che diede il nuovo socio con i capitali disponibili fu impressionante. Opere idrauliche imponenti risolsero il problema della carenza d’acqua. L’agave non fu più la monocoltura di Elaberet. La frutta, gli ortaggi e l’allevamento presero piede assieme alla vite per la produzione del vino (la zona si trova a 1.550 m. sul livello del mare) e dal latte, De Nadai ricavò addirittura il formaggio Grana. Gli anni Sessanta rappresentarono il culmine della produzione, durante i quali l’imprenditore scampò a stento ad un attentato di predoni, prima che il nuovo decennio portasse nuove nubi cariche di tempesta su un’azienda che con l’indotto occupava 10 mila persone. Nel 1975 il regime del Derg imponeva la nazionalizzazione e De Nadai riusciva a mantenere il business spostandosi nei Paesi arabi suoi clienti di lunga data. Nel 1980 Siad Barre lo chiamava per un intervento nella grave crisi economica della Somalia, già colonia italiana. Nella nuova terra adottiva dopo una serie di grandi investimenti tecnologici la neonata Somalfruit fece impennare il settore agroalimentare nazionale fino ad una nuova crisi sfociata nella guerra civile somala alla fine del decennio. Come l’araba fenice, De Nadai non si fece cogliere impreparato e fu in grado di conquistare altri mercati in Cile e Sudafrica, diventando uno dei player mondiali del mercato della frutta. Oggi il gruppo Unifrutti, erede diretto della tenuta di Elaberet, ha sedi in ogni angolo del mondo.
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La reazione di tanti è però ambigua, come è nella natura degli italiani, scaltri e navigati, e di chi ha uso di mondo. Bello in via di principio ma in pratica come si fa? Tecnicamente si può davvero lasciare loro lo smartphone ma col «parental control» che inibisce alcuni social, o ci saranno sotterfugi, scappatoie, nasceranno simil-social selvatici e dunque ancora più pericolosi, e saremo punto e daccapo? Giusto il provvedimento, bravi gli australiani ma come li tieni poi i ragazzi e le loro reazioni? E se poi scappa il suicidio, l’atto disperato, o il parricidio, il matricidio, del ragazzo imbestialito e privato del suo super-Io in display; se i ragazzi che sono fragili vengono traumatizzati dal divieto, i governi, le autorità non cominceranno a fare retromarcia, a inventarsi improbabili soluzioni graduali, a cominciare coi primi distinguo che poi vanificano il provvedimento? E poi, botta finale: è facile concepire queste norme restrittive quando non si hanno ragazzini in casa, o pretendere di educare gli educatori quando si è ben lontani da quelle gabbie feroci che sono le aule scolastiche! Provate a mettervi nei nostri panni prima di fare i Catoni da remoto!
Avete ragione su tutto, ma alla fine se volete tentare di guidare un po’ il futuro, se volete aiutare davvero i ragazzi, se volete dare e non solo subire la direzione del mondo, dovete provare a non assecondarli, a non rifugiarvi dietro il comodo fatalismo dei processi irreversibili, e dunque il fatalismo dei sì, perché sono assai più facili dei no. Ma qualcosa bisogna fare per impedire l’istupidimento in tenera età e in via di formazione degli uomini di domani. Abbiamo una responsabilità civile e sociale, morale e culturale, abbiamo dei doveri, non possiamo rassegnarci al feticcio del fatto compiuto. Abbiamo criticato per anni il pigro conformismo delle società arcaiche che ripetevano i luoghi comuni e le pratiche di vita semplicemente perché «si è fatto sempre così». E ora dovremmo adottare il conformismo altrettanto pigro, e spesso nocivo, delle società moderne e postmoderne con la scusa che «lo fanno tutti oggi, e non si può tornare indietro». Di questa decisione australiana io condivido lo spirito e la legge; ho solo un’inevitabile allergia per i divieti, ma in questi casi va superata, e un’altrettanto comprensibile diffidenza sull’efficacia e la durata del provvedimento, perché anche in Australia, perfino in Australia, si troveranno alla fine i modi per aggirare il divieto o per sostituire gli accessi con altri. Figuratevi da noi, a Furbilandia. Ma sono due perplessità ineliminabili che non rendono vano il provvedimento che resta invece necessario; semmai andrebbe solo perfezionato.
Il problema è la dipendenza dai social, e la trasformazione degli accessi in eccessi: troppe ore sui social, e questo vale anche per gli adulti e per i vecchi, un po’ come già succedeva con la televisione sempre accesa ma con un grado virale di attenzione e di interattività che rende lo smartphone più nocivo del già noto istupidimento da overdose televisiva.
Si perde la realtà, la vita vera, le relazioni e le amicizie, le esperienze della vita, l’esercizio dell’intelligenza applicata ai fatti e ai rapporti umani, si sterilizzano i sentimenti, si favorisce l’allergia alle letture e alle altre forme socio-culturali. È un mondo piccolo, assai più piccolo di quello descritto così vivacemente da Giovannino Guareschi, che era però pieno di umanità, di natura, di forti passioni e di un rapporto duro e verace con la vita, senza mediazioni e fughe; ma anche con il Padreterno e con i misteri della fede. Quel mondo iscatolato in una teca di vetro di nove per sedici centimetri è davvero piccolo anche se ha l’apparenza di portarti in giro per il mondo, e in tutti i tempi. Sono ipnotizzati dallo Strumento, che diventa il tabernacolo e la fonte di ogni luce e di ogni sapere, di ogni relazione e di ogni rivelazione; bisogna spezzare l’incantesimo, bisogna riprendere a vivere e bisogna saper farne a meno, per alcune ore del giorno.
La stupida Europa che bandisce culti, culture e coltivazioni per imporre norme, algoritmi ed espianti, dovrebbe per una volta esercitarsi in una direttiva veramente educativa: impegnarsi a far passare la legge australiana anche da noi, magari più circostanziata e contestualizzata. L’Europa può farlo, perché non risponde a nessun demos sovrano, a nessuna elezione; i governi nazionali temono troppo l’impopolarità, le opposizioni e la ritorsione dei ragazzi e dei loro famigliari in loro soccorso o perché li preferiscono ipnotizzati sul video così non richiedono attenzioni e premure e non fanno danni. Invece bisogna pur giocare la partita con la tecnologia, favorendo ciò che giova e scoraggiando ciò che nuoce, con occhio limpido e mente lucida, senza terrore e senza euforia.
Mi auguro anzi che qualcuno in grado di mutare i destini dei popoli, possa concepire una visione strategica complessiva in cui saper dosare in via preliminare libertà e limiti, benefici e sacrifici, piaceri e doveri, che poi ciascuno strada facendo gestirà per conto suo. E se qualcuno dirà che questo è un compito da Stato etico, risponderemo che l’assenza di limiti e di interesse per il bene comune, rende gli Stati inutili o dannosi, perché al servizio dei guastatori e dei peggiori o vigliaccamente neutri rispetto a ciò che fa bene e ciò che fa male. È difficile trovare un punto di equilibrio tra diritti e doveri, tra libertà e responsabilità, ma se gli Stati si arrendono a priori, si rivelano solo inutili e ingombranti carcasse. Per evitare lo Stato etico fondano lo Stato ebete, facile preda dei peggiori.
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Ecco #DimmiLaVerità dell'11 dicembre 2025. Con il nostro Fabio Amendolara commentiamo gli ultimi sviluppi del caso Garlasco.
L'amministratore delegato di SIMEST Regina Corradini D’Arienzo (Imagoeconomica)
SIMEST e la Indian Chamber of Commerce hanno firmato un Memorandum of Understanding per favorire progetti congiunti, scambio di informazioni e nuovi investimenti tra imprese italiane e indiane. L'ad di Simest Regina Corradini D’Arienzo: «Mercato chiave per il Made in Italy, rafforziamo il supporto alle aziende».
Nel quadro del Business Forum Italia-India, in corso a Mumbai, SIMEST e Indian Chamber of Commerce (ICC) hanno firmato un Memorandum of Understanding per consolidare la cooperazione economica tra i due Paesi e facilitare nuove opportunità di investimento bilaterale. La firma è avvenuta alla presenza del ministro degli Esteri Antonio Tajani e del ministro indiano del Commercio e dell’Industria Piyush Goyal.
A sottoscrivere l’accordo sono stati l’amministratore delegato di SIMEST, Regina Corradini D’Arienzo, e il direttore generale della ICC, Rajeev Singh. L’intesa punta a mettere in rete le imprese italiane e indiane, sviluppare iniziative comuni e favorire l’accesso ai rispettivi mercati. Tra gli obiettivi: promuovere progetti congiunti, sostenere gli investimenti delle aziende di entrambi i Paesi anche grazie agli strumenti finanziari messi a disposizione da SIMEST, facilitare lo scambio di informazioni e creare un network stabile tra le comunità imprenditoriali.
«L’accordo conferma la volontà di SIMEST di supportare gli investimenti delle imprese italiane in un mercato chiave come quello indiano, sostenendole con strumenti finanziari e know-how dedicato», ha dichiarato Corradini D’Arienzo. L’ad ha ricordato che l’India è tra i Paesi prioritari del Piano d’Azione per l’export della Farnesina e che nel 2025 SIMEST ha aperto un ufficio a Delhi e attivato una misura dedicata per favorire gli investimenti italiani nel Paese. Un tassello, ha aggiunto, che rientra nell’azione coordinata del «Sistema Italia» guidato dalla Farnesina insieme a CDP, ICE e SACE.
SIMEST, società del Gruppo CDP, sostiene la crescita internazionale delle imprese italiane – in particolare le PMI – lungo tutto il ciclo di espansione all’estero, attraverso export credit, finanziamenti agevolati, partecipazioni al capitale e investimenti in equity.
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