2024-08-05
Aviazione europea, l'ora per cambiare
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Dopo cinque anni nei quali l'assemblea di Strasburgo si è concentrata prevalentemente su green, taxi volanti e difesa delle low cost, l'Europa dell'aviazione soffre di una gestione e organizzazione degli spazi aerei frammentata, di costi del carburante e procedure di certificazione disomogenee, ma anche di regolamenti commerciali fumosi.
Dopo cinque anni nei quali l'assemblea di Strasburgo si è concentrata prevalentemente su green, taxi volanti e difesa delle low cost, l'Europa dell'aviazione soffre di una gestione e organizzazione degli spazi aerei frammentata, di costi del carburante e procedure di certificazione disomogenee, ma anche di regolamenti commerciali fumosi.L'aviazione è stata una delle prime forme di trasporto che nell'Unione europea è stata uniformata. Leggi e regolamenti tecnici e operativi, licenze degli equipaggi di volo e dei titoli aeronautici, requisiti medici e molto altro sono gli stessi in tutte le nazioni aderenti all'autorità aeronautica comune che si chiama European aviation safety agency, in sigla, Easa. Un'istituzione della quale fanno parte anche nazioni che non adottano la moneta unica, come la Svizzera, e che regola quasi tutti gli aspetti aeronautici ricevendo dalla politica i mandati per scrivere le regole del settore. E anche quando essa delega i Paesi membri a operare direttamente, ognuno secondo le sue necessità e opportunità, Easa comunica comunque le principali linee guida da seguire. Il tutto da oltre vent'anni. Detto così sembrerebbe quindi che, almeno in fatto d'aviazione, l'Ue viaggi all'unisono, invece nel settore permangono molteplici problemi da risolvere, taluni di origine fiscale e normativa - i regimi e le normative tributarie sono spesso molto difformi tra i Paesi, e questo produce concorrenza sleale - altri di tipo tecnico, come il disegno e la gestione degli spazi aerei.La grande differenza con gli Stati Uniti, definiti The aviation nation è tutta lì: dall'altra parte dell'Oceano esiste una sola autorità aeronautica, la Faa, mentre da noi ogni stato ha posto una parte della sua autorità aeronautica nazionale dentro Easa ma mantenendo comunque esistente la propria entro i confini. Un sistema che ha portato alla duplicazione e all'interpretazione delle norme creando situazioni difformi e privilegiate per taluni a scapito di altri.Gli effetti di questa duplicazione sulle società che svolgono la funzione di controllo dello spazio aereo sono pessimi, e proprio per questo nel giugno scorso Ryanair ha chiesto alla Commissione europea uscente una riforma, in quanto gli enti che offrono il servizio (Ats) sono nazionali e anche uno sciopero locale finisce per creare disastri su larga scala. Dal punto di vista delle certificazioni di nuovi aeroplani, di nuove aziende oppure officine, come dei vettori aerei, permangono, principalmente per questioni culturali, grandi differenze tra l'interpretazione delle norme da parte di alcuni paesi rispetto ad altri. Ne è un esempio l'Italia, tra le più severe se paragonata a Romania e Albania, dove è più snello svolgere il percorso per aprire una nuova compagnia aerea.Sul piano fiscale l'Italia è un disastro: non ha mai cancellato le tasse sul lusso volute dal governo Monti ma ha sempre applicato quelle green approvate da Bruxelles durante il primo mandato della Commissione Ursula. Risultato: una vera fuga degli aeromobili dal Registro aeronautico nazionale verso quello di Paesi come Germania e Regno Unito, ma anche di piloti che trovano più rapido ed economico rinnovare licenze e pratiche a Cipro o a Malta, comunque nazioni facenti parte di Easa e che quindi emettono titoli validi in tutta l'Unione, rilasciandoli con meno burocrazia da parte dei candidati. Quanto agli aeroporti aperti al traffico aero-turistico, noi italiani abbiamo un record assoluto di cattiva reputazione e assistiamo a fenomeni del tutto incomprensibili all'estero, come la «chiusura per ferie» di talune piste (nello specifico quella dell'aeroporto Venanzi di Biella-Cerrione questo agosto), o la creazione di «filtri» con l'obbligo di prenotare il parcheggio anche se il piazzale è vuoto, per ragioni di pubblica sicurezza imposte dalle Prefetture. Alla faccia del trattato di Schengen, non si capisce perché, se in automobile è consentita la circolazione libera nell'Unione, in aeroplano essa debba essere controllata in anticipo e soltanto in Italia e, talvolta, in Francia.Insomma noi italiani non siamo ancora capaci di rendere il nostro Paese attrattivo per privati e aziende nel campo dell'aviazione tradizionale, però vogliamo essere protagonisti delle nuove forme di mobilità aerea e per questo facciamo ampio uso di fondi comunitari messi a disposizione dalla Ue, partecipiamo a progetti comuni, abbiamo ruoli di spicco in organizzazioni internazionali e programmi europei. Infine le regole per il volo commerciale: in Europa ai passeggeri vengono garantiti una serie di diritti e questi prevedono rimborsi e compensazioni per chi subisce un ritardo o disservizio, ma questi vengono sovente interpretati in modo molto elastico da una nazione all'altra. Ecco, allora, che proprio in sede europea sarebbe il caso di chiedere regolamenti unici per tutti, dal meccanismo di tassazione dei carburanti fino alle regole della navigazione dettate da Icao (in tutto il mondo), in modo da creare anche maggiore sicurezza ed evitare che, fatto molto frequente nei nostri cieli, piloti stranieri finiscano vittime di un'architettura dello spazio aereo molto - troppo - complessa rispetto a quella del loro Paese.Nel nostro abbiamo una serie di primati negativi come il fatto che circa un terzo del nostro territorio sia vietato al sorvolo a causa della presenza di parchi, proprio alle quote dove, per regole spesso discutibili, devono volare per i piccoli aeroplani. Che però sono quelli sui quali si formano i piloti destinati alle compagnie, o sono di proprietà di persone che tra Iva, tasse e accise (movimenti, hangaraggi, assicurazioni manutenzione, carburanti), all'estero sono considerati ottimi contribuenti mentre da noi dei «privilegiati» e per questo dei perseguitati fiscali.
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)