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2025-10-23
Askatasuna evolve in lazzaretto: «C’è un focolaio di tubercolosi»
La sede del centro sociale Askatasuna a Torino (Ansa)
Tubercolosi a Torino. Sarebbero tra sei e otto i casi conclamati di tbc, due minorenni, all’interno della ex scuola Neruda, edificio da tempo occupato da circa 200 persone non censite, famiglie in difficoltà, extracomunitari, attivisti e antagonisti, tutti vicini al centro sociale Askatasuna di corso Regina Margherita. Pare che il primo caso sia in estate ma soltanto nei giorni scorsi si sarebbe sviluppato un focolaio, tanto che alcuni occupanti si sarebbero rivolti all’Asl chiedendo aiuto. E benché l’azienda sanitaria parli di «situazione sotto controllo», ieri ha depositato presso la Procura di Torino un esposto per epidemia colposa. Per il momento il Comune nega di aver ricevuto comunicazioni: «Non è arrivato alcuna informazione ufficiale dall’Asl».
La tubercolosi è una malattia contagiosa potenzialmente grave, provocata da un batterio che attacca i polmoni e - nonostante i progressi della medicina - resta una delle principali cause di morte a livello globale, soprattutto nelle aree sottosviluppate di Africa e Asia. Ogni anno colpisce circa 2 milioni di persone e, secondo l’Oms, un terzo della popolazione mondiale risulta infettato dal batterio della tbc. In Italia l’incidenza è bassa, (meno di 10 casi ogni 100.000 abitanti) e viene costantemente monitorata dalle autorità sanitarie.
Il centro sociale Askatasuna di Torino da tempo è al centro di polemiche, soprattutto perché oggetto di richieste di sgombero, con la Lega che ne chiede l’immediato sequestro e il Comune che sta valutando un piano. Lo scorso febbraio il sindaco Stefano Lo Russo aveva dichiarato di avere un piano progressivo per riportare legalità, precisando comunque che la situazione non è paragonabile al Leoncavallo di Milano. La metamorfosi da centro sociale a «bene comune», come ipotizzato dalla giunta, è stata messa in dubbio dalle opposizioni di Fi e Fdi dopo gli episodi di violenza nei cortei pro Pal delle scorse settimane. Senza dimenticare le recenti e passate scorribande antagoniste No Tav contro i cantieri in Val Susa ma anche nel capoluogo, che hanno provocato danni - materiali e patrimoniali - per 6,8 milioni di euro: è il risarcimento chiesto dalla presidenza del Consiglio e dai ministeri di Interno e Difesa, costituiti parte civile, agli esponenti del centro sociale processati con l’accusa di associazione per delinquere.
E sempre all’inizio del 2025, un’indagine di Quarta Repubblica portò alla luce atti di violenza senza precedenti all’interno del centro sociale. Per le botte prese, una donna che in quel momento era incinta abortì. Secondo gli inquirenti le proteste a favore dei diritti dei migranti, «sarebbero totalmente smentite dalla radicata indole razzista dei militanti di Askatasuna». L’inchiesta di Nicola Porro ha portato a processo 26 membri del centro sociale, di cui 16 anche per associazione a delinquere.
Attacca l’opposizione. Duro l’assessore regionale alle politiche sociali Maurizio Marrone di Fdi: «Se davvero nella clandestinità abusiva del Neruda occupato si è sviluppato un focolaio di tubercolosi, evidentemente la copertura politica del centrosinistra alla guida del Comune verso le occupazioni antagoniste è diventata ormai un’emergenza di salute pubblica, esponendo al contagio anche cittadini e per giunta bambini che non c’entrano niente. L’amministrazione comunale proprietaria dell’immobile è responsabile di cosa succede là dentro, a partire dalla diffusione di un’epidemia che andrebbe avanti da mesi senza alcun controllo. Prima che sia troppo tardi intervenga il sindaco Lo Russo perché non è giusto che siano i torinesi a pagare con la propria incolumità la tenuta della sua maggioranza e la recente radicalizzazione del Pd». Sulla stessa linea Fabrizio Ricca, capogruppo della Lega in Piemonte, che ha annunciato interrogazioni alla giunta regionale e al Comune: «Per anni quello stabile ha ospitato abusivi dei centri sociali, Askatasuna in testa. Adesso la misura è colma: non possiamo permettere che dall’illegalità, ormai dilagante a Torino complice una sinistra che strizza l’occhio ai centri sociali, nascano persino potenziali epidemie. Mi aspetto una risposta tempestiva dal sindaco Lo Russo».
Non manca la risposta dello Spazio Popolare Neruda: «Ci teniamo a precisare che la situazione dal punto di vista sanitario e del rischio contagio è sotto controllo. Quello che ci sembra invece fuori controllo sono le strumentalizzazioni politiche da parte della destra regionale. La tutela della salute pubblica non passa dallo sgombero di un’occupazione, ma dall’accesso libero e gratuito alla prevenzione».
Modena rossa è preda dei maranza
Sono ormai lontani i tempi del sindaco «sceriffo», Giancarlo Muzzarelli che, sia pure inveendo da buon democratico ogni giorno contro il governo, aveva fisso il pallino della sicurezza. Oggi, Modena, se la passa davvero male: un anno e poco più del nuovo sindaco Pd, Massimo Mezzetti, già assessore regionale alla Cultura e alla Legalità, e la città ha scalato la classifica di Welcome to Favelas (la pagina Facebook che pubblica il meglio in materia di degrado e criminalità). E lui? Tra soluzioni inefficaci e zone rosse chilometriche «giustifica» i maranza, spesso protagonisti delle aggressioni e delle violenze, parlando di «rabbia repressa» che cresce «nelle diseguaglianze sociali del benessere». L’occasione che ha portato la città di Pavarotti alla ribalta mediatica, grazie ad un video diventato virale, è stata una mega rissa scoppiata pochi giorni fa in una delle vie più tranquille del centro storico, quando due bande di giovani, piombate all’improvviso tra i tavolini della movida autunnale, si sono presi a sediate, cinghiate e bottigliate fino all’arrivo della polizia. Ma gli episodi, gravi, che fanno capire quanto la situazione sia sfuggita di mano al buonismo del Pd di area cattolica che governa la città dalle amministrative del giugno 2024, sono altri. Ecco un breve elenco. Il due ottobre scorso tre minorenni sono stati beccati mentre in pieno giorno alla fermata del bus pestavano a sangue un coetaneo. Sei giorni dopo una donna è stata aggredita, in pieno giorno, in un viale dello shopping da un trentunenne tunisino che l’ha afferrata per i capelli, spinta a terra e picchiata senza motivo. Lo stesso giorno un nigeriano di 35 anni ha aggredito a morsi un agente della Polfer, che gli aveva chiesto il biglietto. Il giorno 16 un ragazzino di 14 anni è stato massacrato di botte a scuola da una banda di coetanei. Alla fine di settembre i residenti di un quartiere erano stati ostaggio, per settimane, di una banda di giovanissimi che dopo aver sfondato i tetti dei garage, bruciato le siepi del parchetto e dato fuoco ai giochi dei bambini erano arrivati a fermare gli automobilisti di passaggio buttandosi in mezzo alla strada con urla e parolacce. A settembre, in soli 10 giorni, tre autisti di autobus erano stati aggrediti senza motivo e così così via, fino alla donna aggredita e violentata a fine agosto sulla ciclabile da un giovane straniero in pieno giorno. Soluzioni? Poche e inefficaci. Per contenere gli effetti nocivi della movida, per esempio, il sindaco ha deciso di prendersela con gli esercenti e ha emanato una ordinanza che li obbliga a spegnere la musica alle 23, dà la caccia ai dehors abusivi (quelli che mettono i tavolini fuori dagli spazi di pertinenza) e minaccia di chiudere i locali a mezzanotte se la situazione sicurezza non migliorerà in fretta. Nei giorni scorsi, chiamato a partecipare al Comitato ordine e sicurezza, sempre Mezzetti ha convenuto sull’opportunità di istituire una zona rossa, in città, per aumentare i controlli e allontanare le persone pericolose. Peccato che, proprio a causa della vastità del fenomeno, a furia di aggiungere aree e strade ad alto rischio, la zona rossa sia diventata un’area vastissima, che comprende diversi quartieri ed estesa per oltre otto chilometri. Con buona pace per la sua efficacia. Ma a cosa deve tanta violenza una città dove la qualità della vita fino a poco tempo fa era garantita? Non sarà che le correnti interne al Pd, con l’ansia di costruire un governo «in discontinuità» con quello del predecessore Muzzarelli, abbiano portato all’estremo opposto? Guardando le premesse sembrerebbe di sì: secondo il sindaco Mezzetti, infatti, all’origine di questa situazione non c’è l’incapacità di gestire l’aumento della violenza da parte della sua amministrazione, bensì, come ha dichiarato lo scorso maggio al Festival della Legalità, l’incapacità della società moderna di ascoltare «il sordo rumore della rabbia che cresce in strati della popolazione giovanile per l’aumento delle diseguaglianze e della forbice sociale».
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Nella scuola Neruda di Torino, occupata da attivisti del centro sociale, sono ormai una decina i casi di infezione alle vie respiratorie. Fdi: «Con la copertura della sinistra creata emergenza per la salute».Centro storico di Modena in balia di risse, rapine e violenze sessuali. La vecchia giunta dem puntava sulla sicurezza, il nuovo sindaco giustifica i balordi: «Provano rabbia».Lo speciale contiene due articoli. Tubercolosi a Torino. Sarebbero tra sei e otto i casi conclamati di tbc, due minorenni, all’interno della ex scuola Neruda, edificio da tempo occupato da circa 200 persone non censite, famiglie in difficoltà, extracomunitari, attivisti e antagonisti, tutti vicini al centro sociale Askatasuna di corso Regina Margherita. Pare che il primo caso sia in estate ma soltanto nei giorni scorsi si sarebbe sviluppato un focolaio, tanto che alcuni occupanti si sarebbero rivolti all’Asl chiedendo aiuto. E benché l’azienda sanitaria parli di «situazione sotto controllo», ieri ha depositato presso la Procura di Torino un esposto per epidemia colposa. Per il momento il Comune nega di aver ricevuto comunicazioni: «Non è arrivato alcuna informazione ufficiale dall’Asl».La tubercolosi è una malattia contagiosa potenzialmente grave, provocata da un batterio che attacca i polmoni e - nonostante i progressi della medicina - resta una delle principali cause di morte a livello globale, soprattutto nelle aree sottosviluppate di Africa e Asia. Ogni anno colpisce circa 2 milioni di persone e, secondo l’Oms, un terzo della popolazione mondiale risulta infettato dal batterio della tbc. In Italia l’incidenza è bassa, (meno di 10 casi ogni 100.000 abitanti) e viene costantemente monitorata dalle autorità sanitarie.Il centro sociale Askatasuna di Torino da tempo è al centro di polemiche, soprattutto perché oggetto di richieste di sgombero, con la Lega che ne chiede l’immediato sequestro e il Comune che sta valutando un piano. Lo scorso febbraio il sindaco Stefano Lo Russo aveva dichiarato di avere un piano progressivo per riportare legalità, precisando comunque che la situazione non è paragonabile al Leoncavallo di Milano. La metamorfosi da centro sociale a «bene comune», come ipotizzato dalla giunta, è stata messa in dubbio dalle opposizioni di Fi e Fdi dopo gli episodi di violenza nei cortei pro Pal delle scorse settimane. Senza dimenticare le recenti e passate scorribande antagoniste No Tav contro i cantieri in Val Susa ma anche nel capoluogo, che hanno provocato danni - materiali e patrimoniali - per 6,8 milioni di euro: è il risarcimento chiesto dalla presidenza del Consiglio e dai ministeri di Interno e Difesa, costituiti parte civile, agli esponenti del centro sociale processati con l’accusa di associazione per delinquere. E sempre all’inizio del 2025, un’indagine di Quarta Repubblica portò alla luce atti di violenza senza precedenti all’interno del centro sociale. Per le botte prese, una donna che in quel momento era incinta abortì. Secondo gli inquirenti le proteste a favore dei diritti dei migranti, «sarebbero totalmente smentite dalla radicata indole razzista dei militanti di Askatasuna». L’inchiesta di Nicola Porro ha portato a processo 26 membri del centro sociale, di cui 16 anche per associazione a delinquere.Attacca l’opposizione. Duro l’assessore regionale alle politiche sociali Maurizio Marrone di Fdi: «Se davvero nella clandestinità abusiva del Neruda occupato si è sviluppato un focolaio di tubercolosi, evidentemente la copertura politica del centrosinistra alla guida del Comune verso le occupazioni antagoniste è diventata ormai un’emergenza di salute pubblica, esponendo al contagio anche cittadini e per giunta bambini che non c’entrano niente. L’amministrazione comunale proprietaria dell’immobile è responsabile di cosa succede là dentro, a partire dalla diffusione di un’epidemia che andrebbe avanti da mesi senza alcun controllo. Prima che sia troppo tardi intervenga il sindaco Lo Russo perché non è giusto che siano i torinesi a pagare con la propria incolumità la tenuta della sua maggioranza e la recente radicalizzazione del Pd». Sulla stessa linea Fabrizio Ricca, capogruppo della Lega in Piemonte, che ha annunciato interrogazioni alla giunta regionale e al Comune: «Per anni quello stabile ha ospitato abusivi dei centri sociali, Askatasuna in testa. Adesso la misura è colma: non possiamo permettere che dall’illegalità, ormai dilagante a Torino complice una sinistra che strizza l’occhio ai centri sociali, nascano persino potenziali epidemie. Mi aspetto una risposta tempestiva dal sindaco Lo Russo».Non manca la risposta dello Spazio Popolare Neruda: «Ci teniamo a precisare che la situazione dal punto di vista sanitario e del rischio contagio è sotto controllo. Quello che ci sembra invece fuori controllo sono le strumentalizzazioni politiche da parte della destra regionale. La tutela della salute pubblica non passa dallo sgombero di un’occupazione, ma dall’accesso libero e gratuito alla prevenzione».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/askatasuna-tubercolosi-focolaio-2674224371.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="modena-rossa-e-preda-dei-maranza" data-post-id="2674224371" data-published-at="1761171115" data-use-pagination="False"> Modena rossa è preda dei maranza Sono ormai lontani i tempi del sindaco «sceriffo», Giancarlo Muzzarelli che, sia pure inveendo da buon democratico ogni giorno contro il governo, aveva fisso il pallino della sicurezza. Oggi, Modena, se la passa davvero male: un anno e poco più del nuovo sindaco Pd, Massimo Mezzetti, già assessore regionale alla Cultura e alla Legalità, e la città ha scalato la classifica di Welcome to Favelas (la pagina Facebook che pubblica il meglio in materia di degrado e criminalità). E lui? Tra soluzioni inefficaci e zone rosse chilometriche «giustifica» i maranza, spesso protagonisti delle aggressioni e delle violenze, parlando di «rabbia repressa» che cresce «nelle diseguaglianze sociali del benessere». L’occasione che ha portato la città di Pavarotti alla ribalta mediatica, grazie ad un video diventato virale, è stata una mega rissa scoppiata pochi giorni fa in una delle vie più tranquille del centro storico, quando due bande di giovani, piombate all’improvviso tra i tavolini della movida autunnale, si sono presi a sediate, cinghiate e bottigliate fino all’arrivo della polizia. Ma gli episodi, gravi, che fanno capire quanto la situazione sia sfuggita di mano al buonismo del Pd di area cattolica che governa la città dalle amministrative del giugno 2024, sono altri. Ecco un breve elenco. Il due ottobre scorso tre minorenni sono stati beccati mentre in pieno giorno alla fermata del bus pestavano a sangue un coetaneo. Sei giorni dopo una donna è stata aggredita, in pieno giorno, in un viale dello shopping da un trentunenne tunisino che l’ha afferrata per i capelli, spinta a terra e picchiata senza motivo. Lo stesso giorno un nigeriano di 35 anni ha aggredito a morsi un agente della Polfer, che gli aveva chiesto il biglietto. Il giorno 16 un ragazzino di 14 anni è stato massacrato di botte a scuola da una banda di coetanei. Alla fine di settembre i residenti di un quartiere erano stati ostaggio, per settimane, di una banda di giovanissimi che dopo aver sfondato i tetti dei garage, bruciato le siepi del parchetto e dato fuoco ai giochi dei bambini erano arrivati a fermare gli automobilisti di passaggio buttandosi in mezzo alla strada con urla e parolacce. A settembre, in soli 10 giorni, tre autisti di autobus erano stati aggrediti senza motivo e così così via, fino alla donna aggredita e violentata a fine agosto sulla ciclabile da un giovane straniero in pieno giorno. Soluzioni? Poche e inefficaci. Per contenere gli effetti nocivi della movida, per esempio, il sindaco ha deciso di prendersela con gli esercenti e ha emanato una ordinanza che li obbliga a spegnere la musica alle 23, dà la caccia ai dehors abusivi (quelli che mettono i tavolini fuori dagli spazi di pertinenza) e minaccia di chiudere i locali a mezzanotte se la situazione sicurezza non migliorerà in fretta. Nei giorni scorsi, chiamato a partecipare al Comitato ordine e sicurezza, sempre Mezzetti ha convenuto sull’opportunità di istituire una zona rossa, in città, per aumentare i controlli e allontanare le persone pericolose. Peccato che, proprio a causa della vastità del fenomeno, a furia di aggiungere aree e strade ad alto rischio, la zona rossa sia diventata un’area vastissima, che comprende diversi quartieri ed estesa per oltre otto chilometri. Con buona pace per la sua efficacia. Ma a cosa deve tanta violenza una città dove la qualità della vita fino a poco tempo fa era garantita? Non sarà che le correnti interne al Pd, con l’ansia di costruire un governo «in discontinuità» con quello del predecessore Muzzarelli, abbiano portato all’estremo opposto? Guardando le premesse sembrerebbe di sì: secondo il sindaco Mezzetti, infatti, all’origine di questa situazione non c’è l’incapacità di gestire l’aumento della violenza da parte della sua amministrazione, bensì, come ha dichiarato lo scorso maggio al Festival della Legalità, l’incapacità della società moderna di ascoltare «il sordo rumore della rabbia che cresce in strati della popolazione giovanile per l’aumento delle diseguaglianze e della forbice sociale».
Ansa
Eppure, fino a pochi giorni fa, per la banca più antica del mondo l’aria era diventata irrespirabile. Le indagini della Procura di Milano avevano spinto il titolo giù dal cavallo, facendogli perdere miliardi di capitalizzazione. Le prime pagine dei giornali finanziari tremavano all’unisono: «aggiotaggio», «ostacolo alla vigilanza», «patto occulto». Parole che in Borsa funzionano come il fumo negli alveari: tutti scappano, nessuno chiede perché. Poi, lunedì, il colpo di scena. Spunta la parola magica che fa battere il cuore agli investitori: Consob. L’Autorità di vigilanza, finora poco loquace, aveva già detto a settembre che di «concerto» nella scalata a Mediobanca non ne vedeva traccia. E a Piazza Affari questo basta. Non è certezza, è una sfumatura, un mezzo sorriso, un sopracciglio alzato: ma per i mercati è come una benedizione papale. La Procura, però, non sembra aver preso bene la posizione dell’Autorità. Così ha inviato nuove carte, intercettazioni comprese, convinta che tra Luigi Lovaglio, Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri ci fosse più di una semplice comunione d’intenti. Per i magistrati milanesi il trio avrebbe pianificato la conquista di Mps e poi la scalata a Mediobanca con la meticolosità di un architetto che disegna una cattedrale gotica.
Il punto è che dimostrarlo non è affatto semplice. Lo ha ricordato più volte lo stesso Paolo Savona, presidente della Consob, che sulla materia ha mostrato la cautela di un chirurgo: «Il concerto occulto è complesso da provare». Tradotto: puoi avere intercettazioni, sospetti, ricostruzioni, ma per far quadrare la tesi serve molto di più. E forse è questo che ha fatto scattare l’effetto molla sul titolo Mps: l’idea che la montagna giudiziaria rischi di partorire un topolino burocratico. Da qui in avanti il racconto assume i contorni della tragicommedia finanziaria. Milano manda documenti a Roma; Roma annuncia di valutarli. Gli investitori, che hanno il fiuto dei cani da caccia, interpretano la mossa come: «Sì, le carte le leggiamo, ma intanto non cambia nulla rispetto a settembre». E la banca di Siena - che ha passato negli ultimi dieci anni disastri che avrebbero fatto chiudere qualunque altro istituto occidentale - stavolta fiuta l’aria buona. Intanto gli analisti, quelli che il mercato lo guardano dall’alto del loro grafico preferito, si mostrano quasi papali: buy confermato, target price a 11 euro, fiducia intatta. Per loro la tempesta giudiziaria è un rumore di fondo. Una di quelle pioggerelline che fanno frusciare le foglie ma non cambiano le previsioni della vendemmia. Il paradosso è che anche Mediobanca, la presunta vittima designata del «concerto» inesistente, brinda. Alle 17 è a 16,48 euro, in rialzo dell’1,35%. Sembra quasi che il mercato si sia rassegnato a un’idea semplice: questa storia finirà in un grande nulla di fatto, come tante vicende finanziarie italiane in cui i protagonisti si guardano negli occhi e dicono: «Abbiamo scherzato». È un Paese curioso, l’Italia. Le accuse volano come coriandoli, i titoli crollano, la politica si indigna, i pm lavorano a pieno ritmo. Poi basta una riga in una relazione Consob - nemmeno una conclusione, solo un orientamento - e tutto si ribalta.
Il caso Mps dimostra ancora una volta che nel nostro mercato finanziario non c’è nulla di più potente della percezione. Non la verità processuale, non gli atti, non i faldoni. La percezione. Se la Consob solleva un sopracciglio, Mps vola. Se la magistratura invia nuove carte, il titolo magari trema per qualche ora, ma poi risale. È il teatro della finanza italiana: un luogo dove le istituzioni recitano, il pubblico interpreta e il mercato decide chi applaudirà. Intanto, a Siena, si festeggia. Non apertamente, perché la prudenza è d’obbligo. Ma nei corridoi, tra una planata di grafici e una riunione lampo, dev’essere tornato a circolare un pensiero che la banca aveva sepolto da tempo: forse stavolta siamo davvero usciti dal tunnel. Non è detto, perché le carte giudiziarie hanno vita propria e la Procura non ama essere smentita. Ma di certo lunedì è successo qualcosa. La banca più antica del mondo ha mostrato di avere ancora schiena, gambe e fiato. E soprattutto una cosa che da anni le mancava: fiducia. Il resto lo farà il tempo. E, naturalmente, la Consob. Che con un cenno, anche involontario, riesce ancora a muovere montagne. O almeno a far correre Mps come non succedeva da un pezzo.
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Il 43,8 % degli italiani ha detto di non ritenerla utile. «È una riflessione importante», osservava Ghisleri nel programma Realpolitik di Tommaso Labate su Rete 4, «perché vorrebbe dire che la legge sul consenso verrebbe utilizzata come deterrente, ma non sarebbe utile perché manca l’educazione». Ricordiamo che la legge, che introduce nel Codice penale il concetto di «consenso libero e attuale», è stata approvata all’unanimità alla Camera e presentata come un accordo bipartisan tra il premier Giorgia Meloni e il segretario del Pd, Elly Schlein. In commissione Giustizia, la coalizione di governo ha chiesto un nuovo passaggio, scatenando la reazione dell’opposizione che ha parlato di un «voltafaccia», di patto politico tradito. Ancor più singolare è che, nel sondaggio, sia stato il 37,6% delle donne a non ritenere la norma sullo stupro utile a scoraggiare o impedire la violenza sessuale, rispetto a un 38,8% convinto che serva. Perciò, se il 51,6% degli italiani interpellati crede che sia necessaria una legge che inasprisca il reato, ridefinendone le modalità (il ddl torna questa settimana in commissione a Palazzo Madama), la maggior parte di questo campione non lo considera un deterrente effettivo.
Inevitabile chiedersi il senso, allora, di una legge che complica all’inverosimile l’onere della prova di un consenso non «libero e attuale» (e il non poterlo provare può diventare equivalente all’aver commesso il reato), mentre poco inciderebbe nella protezione delle donne. Non la crede utile non solo l’elettorato di centrodestra (47,9% delle risposte, rispetto al 38,2% di «sì»), ma anche una bella fetta di coloro che votano a sinistra (34,3% i «no», 43,3 % i «sì»). E se può non sorprendere che il 53,6% degli elettori di Fratelli d’Italia abbia detto di con credere alla legge come prevenzione di episodi di violenza, è significativo che la pensi allo stesso modo il 38,5% di quanti votano Pd e che appena il 36,5% dei dem la consideri, invece, utile.
Quindi nei due partiti rappresentati da Giorgia Meloni e da Elly Schlein sono più forti le perplessità, circa l’approvazione del ddl come misura deterrente. Quanto all’impatto del reato di violenza sessuale riformato sulla base di un accordo Meloni-Schlein, restano sempre forti le riserve degli italiani. Non tanto perché non serva una legge dura (oltre il 53% sia a sinistra sia a destra si dice a favore), ma in quanto non risulta ben formulata. Non definisce che cosa costituisce consenso, anche nelle forme non verbali e nemmeno chiarisce quali elementi probatori possono dimostrarlo o escluderlo. «Si pensa che questi requisiti di libertà e attualità siano puntualizzati a tutela della donna e a vincolo e controllo per l’uomo: anche qui siamo di fronte a un ribaltamento concettuale e fisico della prova, spesso sono le donne che prendono l’iniziativa e non si può “pregiudizialmente” pensare al maschio come attaccante-persecutore, attizzatore di incendi passionali che si trasformano in atti di coercizione nel “fare” e nell’insistere», osservava due giorni fa su Startmag Francesco Provinciali, già giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano.
Fanno pensare, inoltre, gli esiti di un altro sondaggio che è stato riportato sempre da Ghisleri. «Abbiamo chiesto quali sono le paure più grandi (degli italiani, ndr), al primo posto ci sono le aggressioni e le minacce (22,7%), seguite da rapine in casa (20,5%), furti e rapine (19,4%), truffe e frodi (16,6%)». La violenza sessuale risultava solo al quinto posto (9,4%) come preoccupazione. Eppure, dai primi dati emersi dall’indagine 2025 sulla violenza contro le donne condotta dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio e l’Istat denominata «Sicurezza delle donne», risultano aumentate «dal 30,1% al 36,3% le vittime che considerano un reato la violenza subita dal partner e raddoppia la percentuale delle richieste di aiuto ai Centri antiviolenza e gli altri servizi specializzati (dal 4,4 del 2014 all’8,7% del 2025)».
Evidentemente, la certezza della pena non è un deterrente. Rispetto al passato, c’è una diversa sensibilità verso la violenza sessuale e i diversi contenuti giuridici che il reato ha assunto nel tempo, però occorrono strategie volte all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento della violenza, formando operatori (dalla scuola alla magistratura, passando per i servizi sociali). Serve rendere operativo ovunque il percorso di tutela per le donne che hanno subito violenza e perseguire chi l’ha provocata. Discutere di pertinenza e liceità all’interno della coppia, criminalizzando a priori, non argina la violenza sessuale.
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Quella al ladro, invece, è finita «grazie» all’intervento di quanti hanno braccato un albanese di 40 anni finito poi in ospedale con 30 giorni di prognosi. Il messaggio della questura è chiaro, «nessuna giustizia fai da te». Ma la corsa a identificare i residenti che hanno inseguito il ladro, alcuni forse armati di piccone tanto da provocargli una frattura al bacino, per la comunità è difficile da digerire. «In casa con me vivono mia moglie e i miei due bambini piccoli. Per fortuna, in quel momento non eravamo presenti. L’allarme è scattato ma le forze dell’ordine sono arrivate una decina di minuti dopo: il tempo sufficiente perché i ladri scappassero», scrive in una lettera al sito Aostasera.it un cittadino che vive in una delle case finite nel mirino dei ladri. «Non vuole essere un rimprovero ai carabinieri che sono intervenuti, ma il dato di fatto di un territorio in cui i tempi di reazione non sono adeguati alla pressione dei furti che subiamo da mesi». Addirittura cinque o sei i raid di furti verificatisi a partire dall’estate. Troppi per il paesino che ormai vive nell’angoscia.
Lo scorso venerdì erano passate da poco le 19 quando un massaggio da parte di un cittadino ha fatto scattare l’allarme: «Sono tornati i ladri». E di lì il tam tam da un telefonino all’altro: «Fate attenzione, chiudete le porte». Il rumore provocato dai ladri nel tentativo di aprire una cassaforte richiama l’attenzione dei cittadini che chiamano i carabinieri. In poco tempo, però, scatta il caos perché in molti si riversano in strada. Partono le urla, le segnalazioni, alcuni residenti sono armati di bastoni. Qualcuno parla di picconi ma i cittadini, oggi, negano. Uno dei malviventi scappa verso il bosco mentre l’altro viene individuato grazie all’utilizzo di una termocamera e fermato. Ha con sé la refurtiva, 5.000 euro, gli abitanti gli si scagliano contro e solo l’intervento dei carabinieri mette fine al linciaggio oggi duramente stigmatizzato dal questore Gian Maria Sertorio: «La deriva giustizialista è pericolosissima, le ronde non devono essere fatte in alcun modo, bisogna chiamare il 112 e aspettare le forze dell’ordine». Dello stesso avviso il comandante dei carabinieri della Valle d’Aosta, Livio Propato, che ribadisce un secco «no alle ronde e alla giustizia fai da te. Non bisogna lasciarsi prendere dalla violenza gratuita perché è un reato. E si passa dalla parte del torto. I controlli ci sono, i furti ci sono, ma noi tutti stiamo facendo ogni sforzo per uscire tutte le sere con più pattuglie e quella sera siamo subito intervenuti».
Già, peccato che, a quanto pare, tutto questo non basti. Negli ultimi mesi il Comune si era attrezzato di una cinquantina di telecamere per contrastare le incursioni dei ladri ma senza successo. «A livello psicologico è un periodo complicato», stempera il sindaco Alexandre Bertolin, «le forze dell’ordine fanno del loro meglio ma non si riesce a monitorare tutto. Abbiamo le telecamere ma al massimo riusciamo a vedere dopo il fatto come si sono mossi i ladri». E anche qualora si dovesse arrivare prima e si riuscisse a fermare il ladro, commentano i cittadini, tutto poi finisce in un nulla di fatto.
«Leggendo le cronache», si legge sempre nella lettera a Aostasera.it, «si apprende che il ladro fermato sarebbe incensurato. Temo che questo significhi pochi giorni di detenzione e una rapida scarcerazione. Tradotto: io resto l’unica vittima, con la casa a soqquadro, i ricordi rubati e la paura addosso; lui invece rischia di cavarsela con poco senza dover dire chi lo aiutava e dove sono finiti i nostri beni».
Un clima di esasperazione destinato ad aumentare ora che si scopre che nemmeno difendersi sarebbe legittimo. Intanto, per il ladro, accusato di furto e in carcere fino al processo che si terrà il 19 dicembre, la linea difensiva è già pronta . Quella di un cuoco con figli piccoli da mantenere e tanto bisogno di soldi. «Mi hanno mandato altri albanesi», dice. In attesa di vedere quale corso farà la giustizia, i cittadini ribadiscono che l’attesa inerme non funziona. «Quando la legge non riesce a proteggere chi subisce i reati, le persone, piaccia o no si organizzano da sole. Se vogliamo evitare che episodi come questo si ripetano non dovremmo essere stigmatizzati. Occorre dare alla comunità strumenti per sentirsi protette. Prima che la rabbia prenda il sopravvento». Non proprio la direzione in cui sembra andare ora l’Arma.
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«Little Disasters: L'errore di una madre» (Paramount+)
Sarah Vaughan è quella di Anatomia di uno scandalo, diventato poi miniserie Netflix. Ed è la stessa che pare averci preso gusto, con la narrazione televisiva. Giovedì 11 dicembre, tocca ad un altro romanzo della scrittrice debuttare come serie tv, non su Netflix, ma su Paramount+.
Little Disasters: L'errore di una madre non è un thriller e non ha granché delle vicissitudini, amorose e politiche, che hanno decretato il successo di Anatomia di uno scandalo. Il romanzo è riflessivo. Non pretende di spiegare, di inventare una storia che possa tenere chi legga con il fiato sospeso o indurlo a parteggiare per questa o quella parte, a indignarsi e commuoversi insieme ai suoi protagonisti. Little Disasters è la storia di un mestiere mai riconosciuto come tale, quello di madre. Non c'è retorica, però. Sarah Vaughan non sembra ambire a veder riconosciuto uno dei tanti sondaggi che alle madri del mondo assegnano uno stipendio, quantificando le ore spese nell'accudimento dei figli e della casa. Pare, piuttosto, intenzionata a sondare le profondità di un abisso che, spesso, rimane nascosto dietro sorrisi di facciata, dietro un contegno autoimposto, dietro una perfezione solo apparente.
Little Disastersè, dunque, la storia di Liz e di Jess, due amiche che sulla propria e personale concezione di maternità imbastiscono - loro malgrado - un conflitto insanabile. Jess, pediatra all'interno di un ospedale, è di turno al pronto soccorso, quando Liz si presenta con la sua bambina fra le braccia. Sembra non stare bene, per ragioni imperscrutabili ad occhio profano. Ma i primi esami rivelano altro: un'altra verità. La piccola ha una ferita alla testa, qualcosa che una madre non può non aver visto. Qualcosa che, forse, una madre può addirittura aver provocato. Così, sui referti di quella piccinina si apre la guerra, fatta di domande silenziose, di diffidenza, di dubbi. Jess comincia a pensare che, all'interno della famiglia di Liz, così bella a guardarla da fuori, possa nascondersi un mostro. Ipotizza che l'amica possa soffrire di depressione post partum, che la relazione tra lei e il marito possa essere violenta. Liz, da parte sua, non parla. Non dice. Non spiega come sia possibile non abbia visto quel bozzo sul crapino della bambina. E Little Disasters va avanti, con un finale piuttosto prevedibile, ma con la capacità altresì di raccontare la complessità della maternità, le difficoltà, i giudizi, la deprivazione del sonno, il peso di una solitudine che, a tratti, si rivela essere assordante.
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