2019-11-22
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2025-12-08
Mario Mantovani: «Ho pagato le mie idee con un arresto ingiusto. Un giudice si è scusato»
Mario Mantovani (Imagoeconomica)
L’eurodeputato di Fdi: «Organizzai una contestazione davanti al tribunale di Milano, subito dopo scattarono le intercettazioni».
Mario Mantovani, eurodeputato di Fratelli d’Italia, adesso lei è ufficiosamente una vittima della malagiustizia. Cos’è successo?
«Durante un dibattito, il presidente del Tribunale di Milano, Fabio Roia, mi ha chiesto scusa».
«L’ho fatto per solidarietà umana verso una persona che ha ingiustamente sofferto una vicenda dalla quale poi è stato totalmente assolto», ha spiegato.
«Sono state parole importanti».
È sorpreso?
«Sì, non lo fa mai nessuno. Se chiedessero scusa tutti i magistrati che sbagliano, avremmo un’Italia migliore».
Lo considera un risarcimento morale?
«Anche quello economico non mi sarebbe dispiaciuto. L’avrei usato per fare del bene».
La sua carriera politica scorreva magnificamente.
«Fino al 13 ottobre 2015. Erano le sei di mattina. Dieci finanzieri suonarono il campanello. Sembrava la scena di un film sui narcos. In un attimo, la mia vita crollò. Uscii di casa. Fuori c’erano già i giornalisti e le telecamere».
Ex senatore e sottosegretario alle Infrastrutture, allora era vicepresidente della Lombardia. Le contestarono corruzione, concussione e turbativa d’asta.
«Non capivo. Non riuscivo a rendermi conto. Guardavo quel mandato d’arresto sbigottito: “Ma perché si sono inventati queste accuse?” dissi. E loro: “Faccia la borsa e ci segua”. Mi ritrovai a San Vittore».
Chi erano i suoi compagni di cella?
«Uno scontava cinque omicidi, l’altro una condanna per droga. Furono gentili. C’erano i letti i castello: mi chiesero se volevo dormire sopra o sotto».
Quarantuno giorni di reclusione.
«Li passai leggendo e rileggendo le quattrocento pagine dell’ordinanza, giorno e notte. Continuavo a interrogarmi su come avessero potuto interpretare con tanta malafede tutte quelle banali telefonate».
Quante?
«Trecentomila. Mi intercettavano ormai da quattro anni. Avevano cominciato mentre ero coordinatore regionale del Popolo delle libertà e organizzavo le manifestazioni in difesa di Berlusconi, su sua richiesta».
Con il megafono in mano, denunciava «l’uso strumentale della giustizia».
«Riuscivo a portare davanti al tribunale di Milano anche mille persone. Arrivavano pullman pieni di gente per protestare».
L’inchiesta le sembrò una rappresaglia?
«Le intercettazioni scattarono pochi giorni dopo la fine di quelle manifestazioni».
Non fu una coincidenza?
«Viene da pensar male. Di sicuro, la vicinanza a Berlusconi l’ho pagata cara».
Qual era il suo assillo in carcere?
«La famiglia. Per dieci giorni non ho potuto parlare con nessuno. Cosa pensavano mia moglie, i miei figli, i miei nipoti? Non avevo pace».
I giornali la chiamavano il «faraone di Arconate».
«Ero solo un sindaco amato e rispettato».
Veniva definito ricchissimo e spregiudicato.
«Vengo da una famiglia di contadini. Mia madre mi lavava nella stalla, la parte calda della casa. E usavo l’acqua per ultimo, visto che ero il più piccolo di quattro figli. Sono stato l’unico che ha avuto la possibilità di studiare: prima alle superiori, poi all’università. Ho insegnato per 24 anni, dopo ho avviato una piccola impresa e ho cominciato a fare politica».
Berlusconi commentò il suo arresto?
«Guardavamo la piccola televisione di un compagno di cella. Spuntò al telegiornale e disse: “Mantovani è una persona perbene”».
Dopo altri 142 giorni ai domiciliari, tornò in consiglio regionale. I 5 stelle, per protesta, occuparono l’aula.
«Vennero con i fischietti e le arance in mano. Urlavano come ossessi. Gente disumana. Me li ricordo tutti: nome, cognome, indirizzo».
E i suoi compagni di partito?
«Molti ne approfittarono per prendere le distanze. Fui abbandonato da Forza Italia. Solo Berlusconi mi chiese di ricandidarmi nel 2018. Ma ero sotto processo: rifiutai. Lui insistette: “Devi tornare a Roma. Ho bisogno di avere accanto amici che portano nella carne le ferite della malagiustizia”».
Alla fine, però, non venne candidato.
«Il suo cerchio magico non mi mise in lista. Fui escluso».
Nel 2019, in primo grado, prese cinque anni e sei mesi.
«Purtroppo, non fu una sorpresa. Il giudice era lo stesso che aveva condannato Berlusconi».
Seguì il processo?
«Con una rabbia indescrivibile. Vedevo i testimoni sfilare, seguivo gli interrogatori, ascoltavo le domande. L’obiettivo era evidente. E veniva pure palesato con disinvoltura. Mi ripetevo: “Perché interpretano falsamente cose che hanno spiegazioni tanto banali?”».
Ad esempio?
«L’intercettazione che veniva reputata la prova regina. Il mio architetto parlava con un suo amico: “Il capo mi sta girando due lavori, per la prima volta nella sua vita”, raccontava. Loro si convinsero che aveva detto “villa”, invece che “vita”».
Era l’accusa principale: una ristrutturazione privata in cambio di lavori pubblici.
«Che non ebbe mai, tra l’altro. Solo nel processo d’appello, finalmente, l’ennesima relazione tecnica rese ancora più lampante l’intercettazione. Ricordo ancora il giudice che, dopo avere riascoltato la telefonata in aula, si voltò verso il procuratore generale: “Ha sentito? Ha detto vita”».
Venne assolto nel 2022. Intanto, s’era iscritto a Fratelli d’Italia.
«Spero che la mia storia sia servita a far riflettere sulla cattiva giustizia».
Sente questa riforma anche un po’ sua?
«È di Giorgia Meloni. Posso aver dato un piccolo contributo, forse».
Avete parlato della vicenda?
«Mi è sempre stata molto vicina. È una donna di grande valore, sia politico che umano».
Si è ricandidato a Bruxelles, nel 2024.
«Ho ripreso i miei 40.000 voti, quelli di una volta. Sono un sopravvissuto».
Ha chiesto un risarcimento di mezzo milione di euro per ingiusta detenzione.
«Che motivo c’era di mettermi in carcere? Non esisteva pericolo di fuga e nemmeno di inquinamento delle prove. E come potevo reiterare ipotetici reati avvenuti dieci anni prima? Hanno fatto una cosa spaventosa. È stato un assassinio politico».
La Corte d’appello, in quella causa, ha citato il refuso che lei scovò nell’ordinanza mentre era detenuto.
«Alla fine di un taglia e incolla delle accuse c’era scritto, tra parentesi: “Vedi se modificare questa parte”».
Sarebbe stato un suggerimento del gip al pm?
«Il dubbio viene. Ma hanno chiarito che non era la sede opportuna per discuterne».
Comunque le hanno negato l’indennizzo, tacciandola anche di arroganza.
«Pur di non ammettere l’ingiusta detenzione, si sono appellati a quisquilie».
E adesso?
«Andrò avanti».
La riforma prevede l’Alta corte, al posto della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, per valutare i supposti illeciti dei magistrati.
«Bisognerà anche arrivare alla responsabilità civile. O quantomeno individuare provvedimenti disciplinari che non siano sanzioni ridicole: ad esempio, la perdita di qualche mese di anzianità. Chi ha sbagliato in maniera fragorosa, va mandato in archivio a ordinare fascicoli».
Come andrà il referendum?
«Vinceremo. Per la maggioranza degli italiani, la magistratura sbaglia. E spesso non si tratta di piccoli errori, ma di sbagli devastanti. Dietro ci sono famiglie distrutte, lacrime, vergogna, fallimenti e suicidi».
Ai tempi dell’inchiesta, veniva considerato un aspirante governatore. Vorrebbe ricandidarsi per il Pirellone?
«Deciderà Giorgia. Io sono a disposizione del partito».
Non si sottrae.
«Diciamo che sarei preparato. Conosco bene la regione. Questo lo sanno tutti. Ero il vicepresidente, ma allora fui costretto alle dimissioni».
La sua carriera politica è ripresa.
«Ho perso sette anni. Quelli non me li ridarà indietro nessuno».
Ha ricominciato a organizzare l’indimenticabile festa d’estate a Villa Clerici. La Russa e Santanchè non mancano mai.
«Assieme a tantissimi altri parlamentari. Ignazio e Daniela sono amici veri».
Cos’ha detto davanti ai politici accorsi?
«Che la vita continua. Spero che la mia storia dia un po’ di speranza a chi vive drammi del genere. Non bisogna abbattersi. Oppure, peggio ancora, patteggiare. Comunque, vale la pena di continuare a combattere. La libertà non è solo un diritto, ma un vessillo da sventolare sempre».
Riassuma l’insegnamento.
«Per la quarta volta, l’anno scorso sono stato rieletto sindaco di Arconate con la mia lista civica. Si chiama Forza e Coraggio».
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Torniamo sul Delitto di Garlasco e con il genetista Matteo Fabbri analizziamo la perizia Albani: sulle unghie di Chiara compare un DNA compatibile con la linea paterna di Andrea Sempio, e non con quella di Stasi. Un dato che non chiude il caso, ma che impone finalmente un confronto serio, lontano da pettegolezzi e semplificazioni.
Giorgio Starace (Ansa)
L’ex ambasciatore a Mosca: «Oggi Roma e il Vaticano sono le capitali morali d’Europa. Zelensky non cadrà perché ai Paesi Ue fa comodo. Le parole di Trump sono un’opportunità: ci vuol dare la leadership della Nato».
Stupore in Europa dopo la pubblicazione della «dottrina Trump», contenuta del documento della sicurezza nazionale americana che striglia il vecchio continente: «O si cambia, o scomparirete». Giorgio Starace, ex ambasciatore italiano a Mosca, è una rivoluzione?
«Non mi sorprenderei più di tanto. Già durante il suo primo mandato Trump ci aveva avvertito: le sue idee avrebbero preso corpo in una vera e propria “dottrina”, in un manifesto strategico. Che ha il pregio di essere oggi più chiaro che mai».
Chiaro ma terribile. Trump sta abbandonando l’Europa sul piano militare?
«Al contrario, la vedo come un’opportunità straordinaria. Gli Usa incoraggiano l’Europa ad assumere addirittura la leadership della Nato».
Appunto, le pare possibile che dal 2027 la difesa del continente sia solo in mano agli europei?
«Una sfida gigantesca, che oggi ci appare incredibile, un po’ come dare un Harley Davidson in mano a un ragazzino. Anche perché, soprattutto in Francia e Germania, oggi abbiamo a che fare con governi fragili e una classe dirigente non all’altezza. Ma una punta di speranza ce l’ho».
Speranza?
«Sì, spero che questa ultima mossa di Trump costituisca la scossa decisiva per varare quelle riforme che, colpevolmente, in Europa abbiamo sempre rimandato».
Vale a dire?
«Aggiornare il trattato di Maastricht, che ormai ha una certa età. Creare un direttorio europeo, cioè uno stretto collegamento tra i principali leader, per sfornare proposte da mettere sul tavolo dei grandi. Riformare finalmente il processo di decision making europeo».
In che modo?
«Fare in modo, insomma, che in questa Europa allargata si decida a maggioranza su tutte le questioni, perché l’alternativa è la palude. Insomma, diventare grandi, autorevoli, e avere fiducia in sé stessi. Una visione che in queste ore il premier Meloni ha saputo intuire con spregiudicato realismo».
E l’esercito europeo?
«Quella è un’utopia. Ma un coordinamento comune degli eserciti, in una Nato più europea, sarebbe certamente fattibile. In ogni caso, una partnership con gli Stati Uniti sarà comunque imprescindibile, soprattutto sul cyber e sulla tecnologia satellitare».
La Germania ha reagito malissimo al documento trumpiano: «Non ci servono consigli», ha detto Berlino rivolgendosi alla Casa Bianca.
«Questi arroccamenti non hanno molto senso. Non è con un tardivo orgoglio europeo che possiamo impostare un rapporto sano con gli Stati Uniti».
Sbaglia chi parla di un Trump che consegna gli Usa a un nuovo isolazionismo?
«Sbaglia di grosso. Unilateralismo non è sinonimo di isolazionismo. Tutte le iniziative portate avanti da Washington hanno come unico scopo quello di arginare la minaccia cinese. Dunque non è corretto dire che l’America si sta ritirando nel cortile di casa. È una proiezione globale, quella di Trump, nella consapevolezza che nel Pacifico si decide il destino del mondo».
L’Europa rischia di sparire entro 20 anni, come dice il presidente Usa?
«Quella è una dichiarazione di tipo ideologico che va oltre il tema sicurezza. Il modello Trump è poco esportabile, ma è chiaro che sul tema migratorio si stabilirà il futuro politico e sociale dell’Europa».
Anche Mario Draghi, recentemente, ha puntato il dito contro i passi falsi dell’Europa contro sé stessa.
«E ha ragione: gli auto-dazi, le costrizioni imposte alle aziende europee, sono proposte non in linea con i tempi, in questa fase geopolitica. Draghi però non ha fatto cenno al nanismo politico europeo: quando lui era a Palazzo Chigi, io ero a Mosca. Tutti i diplomatici attendevano proposte europee sull’Ucraina: non arrivarono. Né dall’Europa, né dal governo italiano».
Una paralisi?
«Non siamo stati in grado nemmeno di nominare un inviato speciale europeo in Ucraina, un gesto minimo di attenzione verso una crisi nel cuore dell’Europa».
Vladimir Putin rilancia le sue pretese sul Donbass. E si inaspriscono i bombardamenti. Siamo in alto mare con le trattative di pace?
«Gli Usa trattano separatamente con Kiev e Mosca, nella speranza di chiudere. Ma le posizioni sono ancora molto distanti, malgrado i grandi sforzi americani. Sulle questioni territoriali i russi sembrano inamovibili, rivendicano l’annessione delle zone russofone, e in sostanza vorrebbero un’Ucraina alla mercé di Mosca. L’altro tema è il congelamento dei fondi russi, che sarebbe disastroso per l’economia di Mosca. Per questo Putin alza il livello delle minacce».
Si riferisce alle frasi del presidente russo lanciate dall’India? «Nascerà un nuovo ordine mondiale».
«La visita di Putin a Modi rivela effettivamente questa preoccupazione. Le sanzioni indirette sull’India, grande importatore di greggio russo, fanno male al Cremlino».
Dunque?
«I russi si pongono sempre delle scadenze. La prossima data importante è il 9 maggio, il loro giorno della Vittoria. Putin per quella data desidera avere qualche risultato concreto da annunciare, che per adesso non ha».
Nel frattempo?
«Nel frattempo scava il solco tra Usa ed Europa, e ci intimidisce con la narrazione bellica. L’obiettivo è fiaccare la resistenza e ottenere in tempi brevi da Kiev ciò che necessita, sul campo, di tempi lunghi».
Dunque è semplicistico dire che gli Stati Uniti stanno scaricando l’Ucraina?
«È un azzardo. Certo, gli americani vorrebbero chiudere al più presto la vicenda. Ma un totale disengagement da Kiev è altamente improbabile: priverebbe Trump di un’arma di pressione nei confronti di Mosca, utile nella sfida finale con la Cina».
Tuttavia, il presidente francese Macron, da Pechino, dice che Trump potrebbe «tradire Kiev». Come legge queste uscite?
«Francia e Germania hanno un disperato bisogno di leadership. La Germania la cerca riarmandosi, Macron tenta invece di costruire un’immagine autorevole in vista del futuro negoziato».
Ci riuscirà?
«In realtà l’asse franco-tedesco, cioè l’alleanza politica che ha retto l’Europa per tanto tempo, sta visibilmente traballando. Forse subentrerà un altro asse, quello franco-britannico: un’alleanza non solo nucleare, ma strettamente politica».
E Zelensky? I suoi collaboratori sono stati colpiti da clamorose inchieste giudiziarie, e qualcuno ipotizza che sia giunto al capolinea.
«Non sparirà così in fretta. Una transizione caotica a Kiev non fa comodo a nessuno, soprattutto agli Stati europei che confinano con l’Ucraina, che oggi come ieri è un Paese cuscinetto di vitale importanza. Zelensky resterà un figura di rilievo, in questa partita».
L’Italia. Approva la posizione prudente del governo?
«Nonostante le divisioni a livello parlamentare circa il rapporto con la Russia, finora siamo riusciti a fare sintesi, con una apprezzabile continuità di indirizzo. Per il resto, siamo sotto attacco anche noi, come ha detto il ministro Crosetto. Ma non parlo solo di condizionamenti russi».
Cioè?
«L’inchiesta contro Mogherini e Sannino non mi convince. Di Sannino, mio collega, conosco la professionalità e l’onestà. Dietro l’indagine ci vedo un’iniziativa di forze europee contrarie alle politiche pro-Mediterraneo. Qualcuno vuole smontare gli impulsi europei a favore del Sud dell’Europa».
Una crociata anti-italiana? Anche all’estero, abbiamo a che fare con una magistratura sospettata di portare avanti interessi politici?
«Dico soltanto che certe “irregolarità”, a livello europeo, non arrivano solo dagli italiani. Mi rifiuto di pensarlo. Non dimentichiamo poi che tutta Europa è sotto attacco. Abbiamo assistito alle dure critiche di Trump e Putin all’edificio europeo e Elon Musk si è augurato la fine dell’Ue. Non escludo nemmeno la guerra ibrida. Colpire la burocrazia europea fa parte di un disegno più vasto per indebolire i già fragili centri decisionali di Bruxelles».
Chiudiamo con un pensiero sul Vaticano.
«Nella crisi ucraina, ci sono due uomini che dobbiamo ringraziare. Il primo è Papa Francesco».
Lei lo cita nel suo libro La Pace difficile, come una figura chiave.
«È stato il primo a gettare il sasso nello stagno dell’immobilismo europeo. Il primo a ricordare che quando c’è una guerra, si negozia non solo con l’agnello, ma anche con il lupo. Trump, in buona sostanza, ha seguito lo schema di Bergoglio».
E poi?
«E poi Papa Leone, che ha avuto il merito di appoggiare, con discrezione e pragmatismo, il piano americano sull’Ucraina. Anche questo pontefice ha compreso che è meglio portare avanti una piattaforma imperfetta, piuttosto che restare “perfettamente” fermi. Il risultato è che il piano americano ha portato in ogni caso delle utilità, tra cui quella di suscitare qualche proposta europea, per reazione, sul piano diplomatico».
Insomma, nel caos mondiale, Roma torna protagonista?
«Roma e il Vaticano, per buon senso e autorevolezza, tornano le capitali morali d’Europa, in questi tempi smarriti».
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Con Maastricht aggirarono i popoli contrari alla Costituzione comune. Poi il declino.
Le critiche di Donald Trump nei confronti dell’Europa sono ciniche ma nascondono quella verità che ci ostiniamo a non voler vedere: noi non contiamo più nulla ma continuiamo ad atteggiarci come se la forza e la bellezza di un tempo fossero rifiorite per effetto di una strana chirurgia estetica: i Trattati europei, tutti, da Maastricht a Lisbona.
Le dichiarazioni dei leader del Vecchio continente seguono il solito copione di indignazione e di fermo orgoglio, come se davvero ce lo potessimo permettere. Dalla Germania alla Francia è tutto un ribollir di rabbia per lo sfregio; eppure non siamo lontani dall’atteggiamento con cui il presidente americano aveva convocato la presidente della Commissione Ue in Scozia, in un golf club, per la pratica dazi. Una umiliazione messa agli atti e accettata per paura di altre ritorsioni.
Quando le cancellerie si incontrano, si pesano: quanto pesa la Von der Leyen? L’altro giorno sul Corriere della Sera Anne Applebaum - autrice del libro Autocrazie - ha criticato la Casa Bianca per l’atteggiamento di supremazia verso l’Unione europea. «Washington dichiara che non ha alleati, ma solo interessi economici». Come lei la pensano altri commentatori, indignati per la traslazione della politica al business. Beh, forse qualcuno dovrebbe ricordare che l’Unione europea è nata col forcipe della moneta unica e per mano dei mercati: ce lo siamo dimenticati?
Fu proprio per superare lo stallo politico (e per paura della Germania nuovamente unita) che si decise di adottare la moneta unica come acceleratore, ma anche in quel caso l’architettura della Bce non era affatto in linea con le banche centrali degli Stati sovrani. L’Unione europea si illuse di poter vivere in un ecosistema nuovo, dove contava la globalizzazione finanziaria (progressivamente nelle mani cinesi, ma non lo capimmo né noi né gli americani) e non gli Stati, i quali avrebbero progressivamente ceduto il passo a sovrastrutture. Invece la Storia non era affatto arrivata al capolinea, e anzi si stava riappropriando di vecchi lemmi: confini, eserciti, dazi, identità… Tutte parole che a Bruxelles consideravano superate.
Nei trattati di Maastricht, tanto per dire, le persone erano equiparate alle merci sotto la voce libera circolazione: come se bastasse per fare una comunità. Ricordiamolo: l’Europa non ha una Costituzione perché le radici e le identità diventarono un problema così grosso da far impantanare i lavori di quella specie di assemblea costituente che si chiamava Convenzione europea, affidata a Giscard d’Estaing. Tutto andava uniformato nel credo europeista; ecco perché non è un caso che Bruxelles esponga una natività dove alle figure di Maria, di Giuseppe e di Gesù bambino vengono sottratti i tratti somatici: tutto dev’essere senza tratti, senza fisionomia, senza identità. Come la bandiera europea, una bandiera che nessuno durante il Covid ha esposto: sui balconi c’era il tricolore.
Oggi le solite élite riaffermano la forza di quella bandiera che però non ha dietro il popolo, perché il popolo è stato estromesso dalla fase ascendente, di edificazione. Trump ha ragione anche quando parla di declino dell’Europa, un declino che non è solo economico ma dovuto alla più «profonda prospettiva di cancellazione della civiltà». Se non c’è civiltà, se non c’è popolo, se non c’è il rispetto della democrazia (e non c’è!), non si crea alcuna potenza in grado di competere nella ridefinizione dell’ordine globale con Usa, Cina, Russia.
Avevamo inseguito le logiche di mercato anche quando cercavamo i migliori accordi energetici con Putin, il quale con gas e petrolio aveva ingegnato il suo cavallo di Troia. Ma andava bene a tutti, Germania in testa.
Ora lo stesso gioco lo fa l’America, con un peso decisamente diverso perché gli Stati Uniti contano, la Ue no. Non c’è più uno spazio dove l’Europa possa competere hic et nunc.
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