2019-07-17
Arrestato in Norvegia il mullah «rifugiato» che guidava un gruppo terrorista a Merano
Najmuddin Faraj Ahmad, meglio noto come Krekar, è stato fermato poche ore dopo la sentenza che gli ha inflitto 12 anni in quanto «capo spirituale» di una cellula jihadista smantellata in Alto Adige. Tra i membri anche alcuni beneficiari di sussidi statali: si fingevano perseguitati dai fondamentalisti.Condannato lunedì scorso in Italia dalla Corte d'assise di Bolzano a dodici anni di reclusione, dopo poche ore Najmuddin Faraj Ahmad, meglio noto come il mullah Krekar, è stato arrestato in Norvegia. Il sessantunenne curdo iracheno è accusato di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale. Fondatore nel 2001 del gruppo islamico Ansar al Islam, aveva ottenuto asilo politico in Norvegia perché si riteneva perseguitato da Saddam Hussein. Condannato più volte per istigazione all'odio e alla violenza, era tornato in carcere nel febbraio 2015 per aver elogiato gli assalitori della redazione del giornale satirico francese Charlie Hebdo. Krekar è considerato anche il capo spirituale di Rawthi Shax, cellula terroristica internazionale nata in Europa. Doveva educare ad azioni armate di guerra e ad attentati suicidi. Si dedicava al reclutamento e alla radicalizzazione di militanti nei diversi Paesi europei, Krekar dal carcere norvegese teneva ben salde le fila dell'organizzazione comunicando con tutti gli associati attraverso messaggeria istantanea, Internet, web cam per evitare il più possibile intercettazioni. Le indagini che portarono alla rete di jihadisti erano partite dalla scoperta del sito internet jarchive.info, portale che diffondeva materiale riconducibile ad al Qaeda e ai gruppi ideologicamente affini. In Italia la cellula più attiva operava in Alto Adige, a Merano. Sgominata nel 2015 dai carabinieri del Ros di Trento nell'ambito dell'operazione Jweb coordinata a livello europeo, aveva portato all'arresto di numerosi presunti jihadisti attivi sul territorio. Lunedì, assieme a Krekar sono stati condannati pure Rahim Karim Twana e Hamasalih Wahab Awat (9 anni di reclusione), 7 anni e 6 mesi per Abdul Rahman Rahim Zana, Jalal Fatah Kamil e Hamad Bakr. Altre quattro persone erano state già condannati a Trento, in quanto componenti di una cellula jihadista che operava con finalità terroristiche e progettava attacchi in Europa. Presero quattro anni di reclusione il kosovaro Eldin Hodza e i due curdi Abdula Salih Ali Alisa e Hasan Saman Jalal, mentre sei anni erano stati inflitti ad Abdul Rahman Nauroz, il leader della cellula italiana (pene confermate lo scorso novembre dalla Corte d'appello di Bolzano perché si trattava di un gruppo «pronto ad agire»). Nel suo appartamento a Merano, una mansarda al civico 9 di via Castel Gatto, Abdul impartiva lezioni religiose e convinceva i suoi allievi a partecipare ad azioni armate di guerra. Organizzava riunioni segrete tra aspiranti terroristi suicidi a spese dello Stato italiano. Sì, perché in quanto richiedente asilo aveva ottenuto un contributo pubblico come persona minacciata in patria da terroristi islamici. Con il sussidio di protezione statale si pagava l'affitto di casa. Faceva credere di essere in pericolo perché nel mirino dei terroristi di Ansar al Islam in Iraq, ma lui stesso aveva messo in piedi una pericolosissima rete terroristica pianificando di «uccidere ebrei ed americani prima di avere pace», come intercettarono i carabinieri. Su Internet postava sue foto armato di pistola, ai vicini regalava copie del Corano in lingua tedesca, mostrava un volto gentile e si scusava perché «non festeggiava il Natale», dietro la porta di casa pianificava la partenza di aspiranti jihadisti verso campi di addestramento paramilitari. Come Eldin Hodza, 27 anni, spedito in Siria grazie al biglietto aereo di 780 euro acquistato con i soldi inviati da Seddek Kadir Karim, responsabile della cellula di Rawthi Shax in Finlandia, e da Sheda Sameer appartenente alla ramificazione svizzera. Partenza da Milano Malpensa, destinazione Istanbul e poi la Siria. Beneficiava dell'assistenza del nostro Paese anche un altro frequentatore del covo, crocevia di volontari per le zone di «guerra santa». Saman Jalal, padre di cinque figli, prendeva ogni mese un sussidio di 2.000 euro e pensava di «ricambiare» la generosità del mondo occidentale andando ad arruolarsi per fare fuori quanti più infedeli. «Dicevano che erano cosa buona e che era bello essere musulmani e uccidere dei non musulmani. Si doveva andare fieri di essere un attentatore suicida», rivelava il curdo Dedar Khalid Khader fermato nel giugno 2002 in Kurdistan. Nel verbale della magistratura norvegese trasmessa a quella italiana, il terrorista catturato raccontava che era Krekar il capo che cercava di convincerli a diventare attentatori suicidi. Il mullah non ha mai smesso la sua guerra santa e nella micidiale rete per reclutare soldati semplici e kamikaze, capaci di guidare camion bomba e utilizzare apparecchiature sofisticate, ha potuto contare anche sulla generosità del nostro Stato, che manteneva falsi rifugiati.
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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