2022-04-03
Giallo delle armi alla Colombia. Il broker di D’Alema rivela: «Lavoro con i servizi segreti»
L’ex paracadutista della Folgore, Gianpiero Spinelli, con «La Verità» smonta la versione di Emanuele Caruso: non ha collaborato con noi. La spy story del suocero dell’avvocato Usa Umberto Bonavita: secondo i carabinieri, era un agente sotto copertura della Cia in Italia.Massimo D’Alema in queste ore sta cercando di convincere i media che la vicenda della trattativa per la vendita di armamenti in Colombia sia il dito, mentre la Luna sarebbe il complotto ordito da chissà quali forze oscure ai suoi danni. In effetti in questa storia qualche passaggio poco chiaro c’è, che però più che da una spy story sembra uscito da un B-movie. Per capirlo basta rileggere le dichiarazioni che uno dei due broker, a cui lo stesso ex premier si era affidato per l’affare da 4 miliardi, ci ha rilasciato. Stiamo parlando del quarantaduenne salentino Emanuele Caruso, il quale, a suo dire, avrebbe fatto parte di una fantomatica «Difesa avanzata», una sorta di braccio operativo dei nostri 007. Ci aveva detto: «Io provengo dall’ambiente dell’area riservata italiana».Bum! A quel punto avevamo domandato se fosse alle dipendenze dei nostri servizi e lui ci aveva spiegato: «Non lo sono più perché io per varie vicissitudini, quando Costantino viene posto a riposo, io passo come esterno alla difesa avanzata interna». Quasi uno scioglilingua. Quindi domandiamo: Costantino chi? «L’ex comandante della Brigata Folgore che poi fu vice direttore Aise». In realtà Pietro Costantino non è mai stato vicedirettore dell’Aise, il nostro controspionaggio, ma capo reparto per circa 2 anni. Il racconto era proseguito: «Io a un certo punto vengo messo a fare le analisi alla Difesa avanzata questa sorta di lista italiana all’interno, all’Aisi». Altra informazione a cui non abbiamo trovato riscontro. A questo punto il discorso di Caruso si è fatto un po’ più circostanziato: «Io facevo praticamente il collaboratore Aise mediante la struttura Stam (società che si occupa di sicurezza, ndr), con il diploma al Criss (Consortium for research on intelligence and security services) con Elisabetta Trenta (ex ministro della Difesa, ndr), perché Enzo Scotti faceva il sottosegretario agli Interni (in realtà agli Esteri, ndr) e aveva lanciato questo progetto… era un progetto pubblico-privato. Vado in Marocco inviato da loro».Ieri Scotti non ci ha risposto, mentre la Trenta è stata netta nell’escludere di aver mai conosciuto Caruso, di cui ha prima visionato un video in Rete. Il broker ha anche affermato di aver avuto problemi a causa della «faccenda con la Sudgestaid, la questione libica, che seguivo personalmente».Qui la vicenda si fa ancora più interessante. Sudgestaid è una società consortile italiana, senza scopo di lucro, a controllo pubblico, che si occupa di progetti di sviluppo in Italia e nel mondo. Nel 2012 la Sudgestaid, di cui la Trenta era presidente, ingaggiò per una pericolosa missione in Libia (recupero di missili terra-aria e addestramento di ex miliziani) la Stam di Gianpiero Spinelli, il contractor noto alle cronache per aver arruolato, «legalmente» come ha stabilito una sentenza, Umberto Cupertino e Maurizio Agliana, rapiti in Iraq nel 2004 insieme con Fabrizio Quattrocchi.Con noi l’ex paracadutista non si nasconde e ammette di aver conosciuto Caruso. Ma dà alla storia tutt’altro taglio.«L’ho conosciuto tanti anni fa, saranno più di 10. Se ha collaborato con me? È una parola grossa… l’ho conosciuto perché facevo delle consulenze per un’azienda e mi pare che anche lui facesse la stessa cosa, ma è stata una conoscenza, come dire… (ride, ndr) anche perché io non faccio il broker, faccio altro nella vita […] mi occupo di sicurezza a un certo livello…».E come si chiamava questa azienda? «Sma Spa (Spinelli ce la descrive come un general contractor, ndr), una società pugliese molto grande. Caruso l’ho conosciuto lì, ci saremo visti due o tre volte, come capita all’interno di una grande azienda. Io avevo un’attività di partnership con Sma, non con lui, non so neanche di cosa si occupasse, forse di sinergie».Non è venuto in Libia con lei? «Sono andato in Libia con un contratto che il ministero degli Affari esteri italiano aveva affidato a un’altra azienda italiana in cui all’epoca c’era anche l’ex ministra Trenta. Le persone che sono venute con me sono la stessa Trenta, un suo collaboratore e due della sicurezza. I nostri sono registrati all’ambasciata di Tripoli. È facile verificare chi ci fosse e lui non c’era. Anche perché in Libia si muore. Lì porto chi deve garantirmi di poter tornare a casa. Noi siamo ex paracadutisti, io ho fatto 5 anni di America Latina, la Libia, sono stato in Israele. Figuriamoci se mi porto dietro un broker per fare sicurezza, al massimo posso scortarlo. Di che stiamo parlando?». Caruso ha conosciuto il generale Costantino? «Forse si sono visti in questa azienda, ma escludo che Pietro abbia avuto a che fare con lui. Il generale alla Sma sarà venuto una o due volte, ma non ha mai avuto un contratto». Per Spinelli le dichiarazioni di Caruso sono delle «cazzate»: «Lui non è mai stato un nostro collaboratore in Stam (la società inglese di Spinelli, ndr), non è mai stato in Aise. Mai. Anche se noi non siamo dell’Aise, per il lavoro che facciamo, di battitori liberi, in quel mondo conosciamo tut-ti. Non ha mai fatto parte del consorzio Criss, non ha mai fatto parte di Sudgestaid, non è mai stato con noi in nessuna missione, la nostra conoscenza è legata solo a quell’azienda».Ma a margine del Colombia-gate, emerge un’altra piccola piccola spy story che vede coinvolto un familiare di uno dei mediatori, l’avvocato di Miami Umberto Bonavita, dello studio Robert Allen Law, segnalato da D’Alema per la gestione ufficiale dell’affare. La moglie di Bonavita, Danielle, è infatti la figlia di John Costanzo, formalmente agente della Dea, l’antidroga statunitense. Una carriera lunga a livello internazionale, macchiata due anni fa da un contrattempo giudiziario, mentre era già fuori servizio. Secondo notizie riportate a inizio 2020 dai media statunitensi Costanzo risulterebbe coinvolto in un’inchiesta sulla presunta divulgazione di informazioni sensibili ad alcuni avvocati di sospetti narcos in affari con la Colombia. A mettere nei guai l’italo americano sarebbe stato un suo ex collega anche lui in pensione dal 2018, di cui su Internet viene citato solo il cognome, Recio. A Costanzo sarebbe stato controllato il contenuto del cellulare.Il suocero di Bonavita risulta aver prestato servizio nel nostro paese per anni, dove ha evidentemente messo radici. Costanzo infatti è socio, attraverso la Ebco di Miami (di cui Bonavita risulta «agent») della Austech Srl, attiva nel settore dei sistemi di sicurezza, con sede a Roma a pochi passi da viale Trastevere. Costanzo non ricopre più cariche societarie da circa un decennio, ma sul sito aziendale nella pagina del «management team» si descrive come un ex «agente speciale» dell’antidroga americana. Un ruolo che, però, secondo alcune informative del Ros depositate nell’inchiesta sulla strage di piazza Fontana sarebbe stato una mezza copertura. Nella sentenza/ordinanza del giudice istruttore Guido Salvini, una delle figure coinvolte nell’indagine «risultava in contatto, in Italia, con John Costanzo» definito «agente speciale della Dea americana», ma anche, grazie «a tale copertura», «funzionario della Cia in Italia». Secondo un’annotazione del Reparto eversione Ros «le attività investigative avevano effettivamente fatto notare alcune anomalie comportamentali del Costanzo suscettibili di essere sfruttate come copertura per attività di intelligence». I presunti contatti di Bonavita in Colombia sono riconducibili ai contatti del suocero con istituzioni o ex fonti del suocero? Il collega di Caruso, Francesco Amato, lo esclude totalmente: «Bonavita a Bogotá non conosceva nessuno».
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Giorgetti ha poi escluso la possibilità di una manovra correttiva: «Non c'è bisogno di correggere una rotta che già gli arbitri ci dicono essere quella rotta giusta» e sottolinea l'obiettivo di tutelare e andare incontro alle famiglie e ai lavoratori con uno sguardo alle famiglie numerose». Per quanto riguarda l'ipotesi di un intervento in manovra sulle banche ha detto: «Io penso che chiunque faccia l'amministratore pubblico debba valutare con attenzione ogni euro speso dalla pubblica amministrazione. Però queste sono valutazioni politiche, ribadisco che saranno fatte solo quando il quadro di priorità sarà definito e basta aspettare due settimane».
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Il direttore generale di Renexia Riccardo Toto e il direttore de La Verità Maurizio Belpietro
Toto ha presentato il progetto di eolico offshore galleggiante al largo delle coste siciliane, destinato a produrre circa 2,7 gigawatt di energia rinnovabile. Un’iniziativa che, secondo il direttore di Renexia, rappresenta un’opportunità concreta per creare nuova occupazione e una filiera industriale nazionale: «Stiamo avviando una fabbrica in Abruzzo che genererebbe 3.200 posti di lavoro. Le rinnovabili oggi sono un’occasione per far partire un mercato che può valere fino a 45 miliardi di euro di valore aggiunto per l’economia italiana».
L’intervento ha sottolineato l’importanza di integrare le rinnovabili nel mix energetico, senza prescindere dal gas, dalle batterie e in futuro anche dal nucleare: elementi essenziali non solo per la sicurezza energetica ma anche per garantire crescita e competitività. «Non esiste un’economia senza energia - ha detto Toto - È utopistico pensare di avere solo veicoli elettrici o di modificare il mercato per legge». Toto ha inoltre evidenziato la necessità di una decisione politica chiara per far partire l’eolico offshore, con un decreto che stabilisca regole precise su dove realizzare i progetti e investimenti da privilegiare sul territorio italiano, evitando l’importazione di componenti dall’estero. Sul decreto Fer 2, secondo Renexia, occorre ripensare i tempi e le modalità: «Non dovrebbe essere lanciato prima del 2032. Serve un piano che favorisca gli investimenti in Italia e la nascita di una filiera industriale completa». Infine, Toto ha affrontato il tema della transizione energetica e dei limiti imposti dalla legislazione internazionale: la fine dei motori a combustione nel 2035, ad esempio, appare secondo lui irrealistica senza un sistema energetico pronto. «Non si può pensare di arrivare negli Usa con aerei a idrogeno o di avere un sistema completamente elettrico senza basi logiche e infrastrutturali solide».
L’incontro ha così messo in luce le opportunità dell’eolico offshore come leva strategica per innovazione, lavoro e crescita economica, sottolineando l’urgenza di politiche coerenti e investimenti mirati per trasformare l’Italia in un hub energetico competitivo in Europa.
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Da sinistra, Leonardo Meoli (Group Head of Sustainability Business Integration), Marzia Ravanelli (direttrice Quality & Sustainability) di Bonifiche Feraresi, Giuliano Zulin (La Verità) e Nicola Perizzolo (project engineer)
Al panel su Made in Italy e sostenibilità, moderato da Giuliano Zulin, vicedirettore de La Verità, tre grandi realtà italiane si sono confrontate sul tema della transizione sostenibile: Bonifiche Ferraresi, la più grande azienda agricola italiana, Barilla, colosso del food, e Generali, tra i principali gruppi assicurativi europei. Tre prospettive diverse – la terra, l’industria alimentare e la finanza – che hanno mostrato come la sostenibilità, oggi, sia al centro delle strategie di sviluppo e soprattutto della valorizzazione del Made in Italy. «Non sono d’accordo che l’agricoltura sia sempre sostenibile – ha esordito Marzia Ravanelli, direttrice del Gruppo Quality & Sustainability di Bonifiche Ferraresi –. Per sfamare il pianeta servono produzioni consistenti, e per questo il tema della sostenibilità è diventato cruciale. Noi siamo partiti dalla terra, che è la nostra anima e la nostra base, e abbiamo cercato di portare avanti un modello di valorizzazione del Made in Italy e del prodotto agricolo, per poi arrivare anche al prodotto trasformato. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di farlo nel modo più sostenibile possibile».
Per Bf, quotata in Borsa e con oltre 11.000 ettari coltivati, la sostenibilità passa soprattutto dall’innovazione. «Attraverso l’agricoltura 4.0 – ha spiegato Ravanelli – siamo in grado di dare al terreno solo quello di cui ha bisogno, quando ne ha bisogno. Così riduciamo al minimo l’uso delle risorse: dall’acqua ai fitofarmaci. Questo approccio è un grande punto di svolta: per anni è stato sottovalutato, oggi è diventato centrale». Ma non si tratta solo di coltivare. L’azienda sta lavorando anche sull’energia: «Abbiamo dotato i nostri stabilimenti di impianti fotovoltaici e stiamo realizzando un impianto di biometano a Jolanda di Savoia, proprio dove si trova la maggior parte delle nostre superfici agricole. L’agricoltura, oltre a produrre cibo, può produrre energia, riducendo i costi e aumentando l’autonomia. È questa la sfida del futuro». Dall’agricoltura si passa all’industria alimentare.
Nicola Perizzolo, project engineer di Barilla, ha sottolineato come la sostenibilità non sia una moda, ma un percorso strutturale, con obiettivi chiari e risorse ingenti. «La proprietà, anni fa, ha preso una posizione netta: vogliamo essere un’azienda di un certo tipo e fare business in un certo modo. Oggi questo significa avere un board Esg che definisce la strategia e un piano concreto che ci porterà al 2030, con un investimento da 168 milioni di euro».Non è un impegno “di facciata”. Perizzolo ha raccontato un esempio pratico: «Quando valutiamo un investimento, per esempio l’acquisto di un nuovo forno per i biscotti, inseriamo nei costi anche il valore della CO₂ che verrà emessa. Questo cambia le scelte: non prendiamo più il forno standard, ma pretendiamo soluzioni innovative dai fornitori, anche se più complicate da gestire. Il risultato è che consumiamo meno energia, pur garantendo al consumatore lo stesso prodotto. È stato uno stimolo enorme, altrimenti avremmo continuato a fare quello che si è sempre fatto».
Secondo Perizzolo, la sostenibilità è anche una leva reputazionale e sociale: «Barilla è disposta ad accettare tempi di ritorno più lunghi sugli investimenti legati alla sostenibilità. Lo facciamo perché crediamo che ci siano benefici indiretti: la reputazione, l’attrattività verso i giovani, la fiducia dei consumatori. Gli ingegneri che partecipano alle selezioni ci chiedono se quello che dichiariamo è vero. Una volta entrati, verificano con mano che lo è davvero. Questo fa la differenza».
Se agricoltura e industria alimentare sono chiamate a garantire filiere più pulite e trasparenti, la finanza deve fare la sua parte nel sostenerle. Leonardo Meoli, Group Head of Sustainability Business Integration di Generali, ha ricordato come la compagnia assicurativa lavori da anni per integrare la sostenibilità nei modelli di business: «Ogni nostra attività viene valutata sia dal punto di vista economico, sia in termini di impatto ambientale e sociale. Abbiamo stanziato 12 miliardi di euro in tre anni per investimenti legati alla transizione energetica, e siamo molto focalizzati sul supporto alle imprese e agli individui nella resilienza e nella protezione dai rischi climatici». Il mercato, ha osservato Meoli, risponde positivamente: «Vediamo che i volumi dei prodotti assicurativi con caratteristiche ESG crescono, soprattutto in Europa e in Asia. Ma è chiaro che non basta dire che un prodotto è sostenibile: deve anche garantire un ritorno economico competitivo. Quando riusciamo a unire le due cose, il cliente risponde bene».
Dalle parole dei tre manager emerge una convinzione condivisa: la sostenibilità non è un costo da sopportare, ma un investimento che rafforza la competitività del Made in Italy. «Non si tratta solo di rispettare regole o rincorrere mode – ha sintetizzato Ravanelli –. Si tratta di creare un modello di sviluppo che tenga insieme produzione, ambiente e società. Solo così possiamo guardare al futuro».In questo incrocio tra agricoltura, industria e finanza, il Made in Italy trova la sua forza. Il marchio non è più soltanto sinonimo di qualità e tradizione, ma sempre di più di innovazione e responsabilità. Dalle campagne di Jolanda di Savoia ai forni di Mulino Bianco, fino alle grandi scelte di investimento globale, la transizione passa per la capacità delle imprese italiane di essere sostenibili senza smettere di essere competitive. È la sfida del presente, ma soprattutto del futuro.
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