2024-10-12
La resistenza agli antibiotici diventa la «nuova pandemia». E la cura è sempre il vaccino
Laboratorio di analisi molecolare (iStock)
L’Oms: con gli immunizzanti (alcuni ancora da commercializzare) ridurremo le vittime di patogeni refrattari ai farmaci. È il futuro della sanità: curare i sani, anziché i malati.Non sono ancora arrivati a proporceli come viatico per la pace nel mondo, ma poco ci manca. Intanto, li stanno spacciando per un rimedio alla solitudine. Non ci credete? Allora guardate l’ultima campagna per i vaccini contro il coronavirus di Moderna, che ancora punta sulla balla dei farmaci a mRna capaci di bloccare l’infezione: «Se ti ammali di Covid-19», recita uno degli slogan, «qualcuno si sentirà tutto solo». Dopodiché, ci sono problemi più seri delle «patatine fritte» che «a tua moglie mancherà rubarti» se finisci a letto con l’influenza. Ad esempio, l’antibiotico-resistenza, che ogni anno miete 5 milioni di vittime nel mondo. Pure al G7 Salute di Ancona se n’è discusso. Il ministro Orazio Schillaci l’ha definita la «nuova pandemia». L’Oms, comunque, una soluzione l’ha già trovata. Ed è la stessa applicata alla vecchia pandemia: i vaccini. Quelli adatti contro 24 agenti patogeni, spiega un nuovo report dell’agenzia Onu, potrebbero ridurre del 22% gli antibiotici necessari per contrastare le infezioni. Si tratta di 2,5 miliardi di dosi medie giornaliere all’anno a livello globale. Tutto questo, ça va sans dire, limiterebbe al contempo l’impatto della resistenza antimicrobica.Sgomberiamo subito il campo dalla fuffa di chi cerca capri espiatori no vax: qui non si tratta di opporsi alle vaccinazioni in quanto tali, men che meno di fingere che non stiano morendo troppe persone per le conseguenze dell’uso massiccio di antibiotici. Questa non è una questione di merito, bensì di metodo. O, se preferite, di filosofia. Dietro al riflesso pavloviano che spinge i padroni della sanità verso la fisima vaccinale, infatti, prima delle evidenze sperimentali c’è un’ideologia. E ci sono tanti interessi economici. Guarda caso, dei 44 medicinali candidati a eradicare 19 batteri, quattro virus e un parassita, segnala l’Oms, alcuni «dovrebbero essere sviluppati e immessi sul mercato il prima possibile». La domanda allora è lecita: viene prima l’uovo o la gallina? Viene prima la domanda o l’offerta? Viene prima la malattia o l’antidoto? Il report degli esperti di Tedros Adhanom insiste: puntando sui vaccini, risparmieremmo un terzo dei 730 miliardi di dollari l’anno che, sul pianeta, impieghiamo ogni anno per assistere chi viene colpito da patogeni resistenti. Benissimo: e quanto spenderemmo per comprare le dosi, conservarle e somministrarle? Per carità: se si tratta di salvare vite umane, non bisogna badare ai costi. Ma se prima ancora che un prodotto sia fabbricato c’è già una spasmodica attesa per procurarselo, il suo prezzo inevitabilmente salirà. Questi vaccini in via di sviluppo saranno tutti a buon mercato? E quanti affari faranno le aziende piazzando medicinali che potrebbero essere assunti dall’intera umanità?È proprio questa circostanza a determinare uno scivolamento filosofico, trainato dalle ragioni del business e capace di provocare un mutamento nel nostro modo di concepire la salute. Il vantaggio commerciale dei vaccini, infatti, è evidente: se l’obiettivo di un farmaco non è guarire una patologia, ma prevenirne l’insorgenza, il numero dei potenziali clienti si allarga a dismisura. Idealmente, a tutti. Beninteso: sarebbe assurdo contestare l’indubbio progresso che hanno portato le vaccinazioni, contribuendo in alcuni casi a far sparire, in altri a contenere parecchio la diffusione di gravi malattie, spesso mortali per i bambini. Anche tra le malattie, tuttavia, esiste una gerarchia. Per dire: un conto è il vaiolo, un conto è il Covid. E si può gridare all’emergenza morbillo, come accade in Italia, per 556 casi in sei mesi? Può darsi che i 44 vaccini individuati dall’Oms possano aiutarci a evitare dei morti. Fantastico. Il punto però è un altro. Ed è più generale. Se la logica dell’allarme prende piede, se ogni patologia viene trattata alla stregua di un morbo spaventoso dalle conseguenze devastanti, è scontato che poi la priorità divenga quella: il vaccino. Non più un farmaco; una panacea.E con ciò giungiamo al tema del cambio di mentalità. Quando la platea da sottoporre al trattamento sanitario diventa globale, lo scopo della medicina diventa curare i sani anziché i malati. Il che rende chiunque, di per sé, un malato. È l’effetto finale della medicalizzazione: se la novità della modernità politica, in Occidente, è consistita nel trasformare l’uomo in cittadino, la novità della postmodernità sarà trasformare il cittadino in paziente. In tale processo, la religione del vaccino porta un ulteriore fattore di rimescolamento delle categorie. Vaccinarsi, al di là degli obblighi di legge diretti o indiretti, è in ultima istanza un atto volontario. Sì: pure il malato è tenuto a esprimere un consenso alle terapie. Ma chi si sente male e finisce ricoverato è, nella sua condizione di debolezza, un soggetto passivo. Il «vaccinando», invece, in quanto individuo sano, formalmente sceglie in modo libero di sottoporsi all’inoculazione. Si reca con le sue gambe nel luogo in cui riceverà la puntura. Se non lo fa e - citiamo il famigerato adagio di Mario Draghi - si ammala e muore, è breve la strada che porta a considerarlo colpevole. Uno che se l’è cercata. È un ritorno al passato, alla posizione veterotestamentaria, per cui la malattia coincide con la manifestazione di una colpa morale. Bisogna rifletterci sopra: ricalibrare il senso comune renderebbe digeribile, o meno rilevante per chi guarda al malato come a un reprobo, la spoliazione dei sistemi sanitari pubblici, che è parte dell’agenda neoliberale. Sarebbe bello se di certe cose parlasse la sinistra. Peccato che, mollati falce e martello, abbia ormai impugnato provetta e siringa…