2024-12-30
Anselmo Lipari: «Il monaco del villaggio globale non può più fuggire dal mondo»
Anselmo Lipari (Facebook)
Il benedettino: «Anche su una montagna, se apri il computer sei in comunione con tutti. La vocazione? Solo se sai lavorare con le mani. Eco diede di noi una versione distorta».Anselmo Lipari è divenuto famoso grazie a Le ricette del convento in onda su Food Network. Ma le sue competenze si allargano ben oltre la buona tavola. Monaco dell’abbazia di San Martino delle Scale a Monreale, è stato per decenni professore di Teologia alla Facoltà teologica di Sicilia. Con Piemme ha appena pubblicato il libro I misteri dei monaci. Iniziamo da una domanda dopo tutto non così banale. Che cos’è un monaco? «Il monaco è un cristiano che accoglie l’invito di Dio a vivere in un’abbazia, in un monastero, che è impegnato nella lode di Dio, nella ricerca del Cristo, e impegnato nel suo lavoro». Per voi monaci fondamentale è la preghiera ma anche il lavoro manuale, fisico. «Sì, le due realtà vanno sempre insieme. La preghiera deve occupare sicuramente il primo posto - come del resto Dio deve occupare il primo posto - ma sempre unitamente al lavoro. Addirittura in alcuni monasteri americani - si faceva fino a qualche tempo fa, ma forse anche adesso - chiedono al giovane che domanda di entrare in monastero che attività lavorativa abbia svolto in precedenza. Se la risposta non è chiara, allora l’abate, il priore o il monaco che lo accoglie gli dicono: guardi, questa vita non fa per lei. Può sembrare un’immagine un po’ pragmatista però coglie un aspetto molto importante». Cioè?«San Benedetto nella sua Regola, capitolo 48, che cosa dice? Che sono veri monaci quando operano, lavorano e si guadagnano di che vivere con le proprie mani, così come hanno fatto gli apostoli e i padri del monachesimo». Oggi un monaco come si guadagna da vivere? «Attualmente le possibilità di lavoro sono infinite, possiamo dire così, perché ci può essere lavoro intellettuale e ci può essere lavoro manuale. A proposito del lavoro intellettuale posso citare me stesso: non si dovrebbe fare ma una volta almeno forse ci è concesso... Ho insegnato teologia alla Facoltà teologica che ha sede a Palermo per 50 anni e quindi ho fatto sempre il professore. Ho scritto qualche libro e ho predicato tanti corsi di esercizi spirituali in tutta Italia e questo evidentemente è un lavoro molto importante. Che però deve continuamente armonizzarsi con un lavoro manuale, perché è prassi comune nelle abbazie che i monaci si occupino anche della pulizia, dell’ordine».Pregare e lavorare...«Sì. Recentemente poi le abbazie benedettine nel mondo si sono impegnate alla produzione, molto interessante, di pane, dolci, di carne, formaggio, di tisane... E ovviamente ci sono le grandi eccellenze: vino, birra, cioccolato...». Oggi si tende a considerare la Chiesa come una grande agenzia di forniture umanitarie o qualcosa di simile... Voi monaci fate qualcosa di radicalmente diverso: in qualche modo state al di fuori del mondo...«Per certi aspetti sì, questo è vero, stiamo al di fuori. Ma per certi altri aspetti non è così. La realtà costitutiva di una comunità benedettina, di una abbazia, è quella della preghiera, come San Benedetto ricorda nella regola: sette volte al giorno ti ho dato lode e la notte mi alzavo ugualmente a benedirti». Si prega sette volte al giorno. «Nella nostra abbazia abbiamo alle 6.30 il mattutino e le lodi, dopodiché abbiamo l’ora di terza alle 9, l’ora di sesta alle 13. Poi alle 16 l’ora di nona e poi alle 19 i vespri e alle 21 la compieta».Che cosa sono le ore?«Sono dei momenti in cui la comunità si raduna e celebra attraverso un inno o dei salmi». La preghiera al centro dunque. Ma esiste anche un aspetto sociale? «Le abbazie per tradizione si sono sempre occupate di realtà sociale, accogliendo le persone, soprattutto i poveri, i bisognosi. Mi pare ci sia poco di più “sociale” di accogliere una famiglia e garantirle una dignità attraverso il lavoro. Io non metterei però in contrapposizione il discorso della preghiera con il discorso del sociale, perché le due realtà possono e devono armonicamente essere composte. Dove c’è un’azione a vantaggio dell’uomo, c’è un’azione sicuramente meritoria... Naturalmente è necessario un certo equilibrio tra le due realtà. Le abbazie per secoli sono state impegnate anche a favore degli altri, però sempre un po’ alla lontana, perché hanno costruito tutto sulla fuga mundi».Già, la fuga dal mondo. «Oggi però tutto questo discorso non regge più. Perché il monaco, come qualunque altra persona, appena apre o il computer o il telefonino ritrova tutto il mondo nella sua stanza. Costruire la spiritualità sulla fuga mundi, l’abbandono del mondo, non significa più nulla. Qualche anno fa ho scritto un libro intitolato Il monaco del villaggio globale. Anche se un monaco dovesse vivere in alto, sulla vetta di una montagna, appena apre il suo computer è in comunione con tutto il mondo. E a questo mondo il monaco deve voler bene, naturalmente, perché è stato tutto creato da Dio. E nel libro della Genesi è scritto che tutto quello che è stato fatto è buono». Sembra però che ci sia una certa attenzione, anche mediatica, attorno ai monaci, forse proprio perché tanti sognano di fuggire da questo mondo moderno, caotico e feroce. «Non possiamo partire assolutamente dalla visione un po’ strana che tanti hanno acquisito dopo aver letto Il nome della rosa o dopo aver visto il film... Vi si tratteggia una immagine molto discutibile, che non conduce a una visione chiara del monachesimo». E quale è la visione chiara?«In quel libro viene mostrato un aspetto piuttosto oscuro del monachesimo. Che non è nulla di tutto questo, perché il monachesimo da sempre costruisce su una realtà gioiosa, una realtà di luce. L’antropologia professata dal monachesimo è un’antropologia che si rifà alla creazione di Dio e alla redenzione del Cristo Gesù. Cristo che è luce, luce del mondo, luce dell’umanità, di tutti i nostri fratelli, di tutte le nostre sorelle. Non possiamo assolutamente edificare nulla su una visione distorta, scabrosa, oscura... E qui entriamo proprio nel cuore stesso del libro: il grande mistero dei monaci parte proprio dalla loro vocazione».Cioè? «Nel prologo alla Regola di San Benedetto leggiamo che Dio sceglie, chiama il suo operaio tra la moltitudine, e lo invia proprio tra le mura del monastero, dell’abbazia. Benedetto non vuole costruire una comunità di eremiti, quanto piuttosto una comunità di cenobiti, cioè di persone che vivono insieme». Quale è il grande mistero?«Ritrovarsi insieme in una comunità con le persone più diverse. Ci può essere il monaco che ha fatto il generale nella sua vita e si ritrova accanto a un operaio, oppure il muratore che si ritrova accanto al professore, oppure il politico che si ritrova accanto al carpentiere, l’ingegnere che sta insieme al netturbino, oppure il grande professore dell’università...».Oggi che genere di vocazioni avete? Chi sceglie di fare il monaco? «Proprio adesso abbiamo tre vocazioni molto interessanti. La prima di un giovane che ha fatto l’alberghiero. La seconda vocazione di un altro giovane che ha fatto il liceo musicale. E un altro invece che era distributore di prodotti alimentari. Quindi tre persone diverse che però poi in comunità formano una sola realtà».Sembra che abbiate un grande interesse per il cibo. Perché è così importante per voi? «Partiamo dalla nostra cultura, la nostra tradizione. Per San Benedetto il cibo, la mensa è il culto: non sono cose separate ma stanno sempre insieme, si ritrovano in una relazione molto molto forte. Perché nell’ambito del monastero nulla vi è di profano, non c’è nulla di mondano perché tutto è sacro. Allora, si potrebbe dire, con un’iperbole, che come è sacro il coro per la preghiera, così è sacro il refettorio per il cibo. E comunque le due realtà vivono sempre insieme. La comunità monastica è sempre alimentata attraverso la convivialità, è una realtà spirituale che cresce insieme, e che arriva al culmine nella celebrazione eucaristica».Che differenza c’è tra un benedettino, o comunque un monaco cristiano, e un monaco orientale? «Ci sono sicuramente delle realtà in comune, soprattutto gli aspetti relativi all’ascesi: questo accomuna un po’ tutta la realtà monastica globalmente intesa. È invitato all’ascesi un monaco buddista, è invitato all’ascesi e la pratica un monaco benedettino, basiliano eccetera. Oriente e Occidente sotto questo profilo vanno insieme e d’accordo. Lo stesso vale per il primato da dare continuamente a Dio: è una realtà comune sia per il monachesimo cristiano sia per il monachesimo non cristiano, perché nella gerarchia dei valori è chiaro che Dio non può non occupare il primo posto per il monaco. Poi ci sono enormi differenze relative alla realtà stessa dell’articolazione cristiana o dell’articolazione musulmana o del Tibet...». Lei fino adesso ha presentato una realtà molto gioiosa, però c’è un aspetto che soprattutto i padri del deserto hanno indagato: la lotta, il combattimento. Il monaco in qualche modo è un combattente. «Sì, effettivamente è così. D’altra parte la regola di Benedetto parla sempre dei monaci come persone impegnate a togliere dalla propria vita il male e acquisire continuamente e costantemente il bene. Ma questo è sempre frutto di lotta, di una certa dialettica, di un superamento di tutto ciò che è negativo, egoistico, per acquisire il dono dello Spirito, i doni dello Spirito, per vivere secondo il criterio della fede, della speranza e della carità e assumere i parametri dell’Evangelo, i parametri di Cristo stesso. Quindi l’aspetto dell’ascesi, l’aspetto della lotta, l’aspetto del combattimento è fondamentale per tutti i monaci».
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.