2021-01-08
Se paghi i partigiani puoi fare pasta «fascista»
Andrea Ronchini/NurPhoto via Getty Images
La Molisana mette in vendita le «Abissine». Ma i partigiani perdonano l'azienda perché «ha finanziato le feste dell'Unità».In pratica siamo arrivati alla compravendita delle indulgenze. Un po' come avveniva nei cosiddetti «secoli bui», oggi per ottenere il perdono di tutti i peccati basta versare l'obolo. È cambiato soltanto il tribunale: un tempo bisognava ungere gli ingranaggi della macchina ecclesiastica, ora bisogna mostrarsi generosi con i supremi giudici della correttezza politica. Cioè le associazioni, i politici, i giornali e i commentatori che attribuiscono la patente di presentabilità alle idee, promuovendo quelle «buone» e «democratiche» e censurando quelle «cattive» e «destrorse».Il caso di studio ha davvero dell'incredibile. Riguarda un'azienda produttrice di pasta, La Molisana, finita al centro di un'allucinante polemica che però, stranamente, si è placata in brevissimo tempo. La prima parte di questa vicenda è piuttosto nota ai più, la seconda un po' meno. Vediamo di ricostruire i fatti. Pare che tutto sia cominciato dal post risalente al 4 gennaio del fotografo Nicola Bertasi. Al supermercato, si è imbattuto in una confezione di pasta: le Abissine rigate della Molisana. Bertasi ha subito avvertito il profumo «coloniale» e «fascista» del nome, così ha fatto una ricerca su Internet per scoprire da dove venisse. Ha cliccato sul sito ufficiale della Molisana e ha trovato la pagina promozionale delle Abissine. Il testo di presentazione suonava così: «Negli anni Trenta l'Italia celebra la stagione del colonialismo con nuovi formati di pasta: Tripoline, Bengasine, Assabesi e Abissine. La pasta di semola diventa elemento aggregante? Perché no! […] Di sicuro sapore littorio, il nome delle Abissine Rigate all'estero si trasforma in “shells", ovvero conchiglie». A quel punto, ogni dubbio era fugato: la pasta era senz'altro fascistissima. In effetti, i toni della pagina ufficiale facevano trapelare un certo entusiasmo, in particolare la frase sulla semola che diventa «elemento aggregante» (notare l'esclamazione: «Perché no!»). Insomma, c'erano tutti gli elementi perché il tribunale dell'antifascismo entrasse in funzione. E infatti, a strettissimo giro, sono scesi in campo tutti i custodi dell'ortodossia politicamente corretta. Paolo Berizzi, firma di Repubblica, sprizzava sdegno: «Il problema non è solo la cosa in sé, e cioè l'infelice marketing della Molisana che ammicca al tragico colonialismo razzista», ha scritto. «Derubricare a folklore vuol dire normalizzare una schifezza infilandola nella banalità». I social si sono infiammati, le armate antifa internettiane si sono mobilitate in massa. E l'azienda di Campobasso è stata investita da una slavina di accuse. Fin qui, tutto normale. Succede sempre in questo modo: un attivista nota qualcosa che non gli piace, parte la campagna moralizzatrice e il bersaglio dell'attacco viene costretto a chiedere perdono alla Nuova Inquisizione. Così ha fatto pure Rossella Ferro, responsabile marketing della Molisana. Parlando con Repubblica ha compiuto l'autodafé: «Non abbiamo alcun intento celebrativo quando parliamo di questi formati storici, nati negli anni Trenta. E infatti abbiamo appena provveduto a cambiare le schede descrittive dei prodotti. [...] Ribadisco che per noi non c'è alcun sentimento di celebrare quel periodo storico». Per bocca dell'immancabile Laura Boldrini, il tribunale dello spirito ha accolto la dichiarazione di colpevolezza: «Si è resa conto La Molisana che non si può alludere giocosamente al fascismo e alla sua espressione coloniale, usandoli per il marketing». Ma ecco l'aspetto strano della faccenda. Normalmente, infatti, le scuse non bastano a levarsi di dosso la patacca di «fascisti». È emblematico, in questo senso, il caso Barilla. Nel 2013, Guido Barilla pronunciò una frase decisa: «Non faremo pubblicità con omosessuali perché a noi piace la famiglia tradizionale. Se i gay non sono d'accordo, possono sempre mangiare la pasta di un'altra marca». Scoppiò la polemica, arrivarono insulti e attacchi di ogni genere. L'azienda si scusò, ma non fu sufficiente. Seguì una vera e propria rieducazione: corsi per il rispetto delle diversità, campagne promozionali affidate ad artisti Lgbt... Ora Barilla è un'azienda «arcobaleno». Con La Molisana, tuttavia, non è accaduto niente del genere. Anzi, sin dall'inizio sono comparsi articoli difensivi dell'azienda, ad esempio sul Gambero Rosso. Curioso: come mai una parte dell'intellighenzia non si è accanita sui nemici del popolo? La spiegazione si trova in una dichiarazione di Michele Petraroia dell'Anpi Molise. «Per chi conosce la storia della famiglia titolare della Molisana», ha detto all'Ansa, «non possono sorgere incomprensioni su un tema così delicato. I nazifascisti ritirandosi da Campobasso distrussero la loro azienda e il capostipite della famiglia Ferro partecipava alle sottoscrizioni della Festa de L'Unità». Capito? I gestori del pastificio sono di provata fede sinistra, tanto che in passato ha finanziato le feste dell'Unità. Persino l'Anpi, che di solito non si fa scrupoli a infierire su chi sia anche solo sospettato di simpatie destrorse, ha concesso il perdono. E il baillame si è concluso. Che sarebbe successo se i capi dell'azienda non avessero finanziato il partito? Probabilmente il linciaggio sarebbe durato giorni. Ma una volta appurato che si trattava di «compagni che sbagliano», tutto è finito. Agli amici dell'Anpi, a quanto pare, si abbuonano pure gli svarioni fascistoidi.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)