2023-11-12
«L’ideologia applicata alla musica fa disastri»
Andrea Dulbecco (R.Cifarelli)
Il re del vibrafono jazz e d’avanguardia Andrea Dulbecco: «Per anni la sinistra ha bandito le opere contemporanee che avessero anche un minimo richiamo alla tonalità o alla tradizione, in quanto reazionarie. In nome della rivoluzione costante molti artisti non lavoravano più».Qual è il colmo per un musicista nato a Sanremo? Mettersi a suonare il vibrafono jazz e le opere d’avanguardia. In pratica gli unici generi che non vedranno mai il palco dell’Ariston, insieme ai «cori russi e al free jazz punk inglese» mal sopportati da Franco Battiato. D’altra parte, «ti piace vincere facile?» è la prima delle domande da non fare ad Andrea Dulbecco, caposcuola italiano degli improvvisatori con due bacchette per mano. Lo si capisce da alcuni passaggi chiave, «in direzione ostinata e contraria», della biografia non scritta di questo artista antidivo, classe 1963. Dulbecco, venuto su a pane e vinili jazz in una famiglia di musicisti e appassionati, muove i primi passi come batterista. A 15 anni si mette in testa di voler studiare percussioni al Conservatorio, per cui saluta mare, amici e parenti e salta sul «treno dei desideri» diretto nella Milano di fine anni Settanta. Dieci anni dopo è un percussionista dell’orchestra della Scala, con un cuore che ormai batte solo per il vibrafono. Lo step successivo porta in dono un’altra marea di chilometri da macinare. Sullo strumento il più grande in circolazione è David Friedman. Il fatto che viva a Berlino e che il Muro non sia ancora caduto sono dettagli. Per prendere lezione dall’artista newyorchese, senza perdere il posto in orchestra, Dulbecco farà il pendolare in treno... in giornata. Il prosieguo della storia è meglio lasciarlo raccontare al protagonista. Dopodiché non resta che ascoltarlo dal vivo. Chi lo desidera ed è nei paraggi può approfittarne già oggi, grazie al Padova jazz festival (che da qui al 19 novembre ha in serbo altre chicche: da Vanessa Tagliabue Yorke a Irene Grandi, da Fabrizio Bosso a Bill Frisell). La formazione è una delle preferite del musicista sanremese: il duo con il fedele chitarrista Bebo Ferra. Prima di percorrere i due binari paralleli della sua vita artistica - jazz e musica colta contemporanea - forse è necessario un accenno ai suoi compagni di viaggio e di lavoro. Oggi, ad esempio, al Caffè Pedrocchi di Padova, avrà a disposizione sia il vibrafono che la marimba.«Stiamo parlando di strumenti dalla storia millenaria, che hanno trovato la loro forma attuale da circa un secolo. La principale differenza tra i due riguarda il materiale e l’estensione. Il vibrafono ha delle barre di metallo disposte come i tasti di un pianoforte, con un’ampiezza di tre ottave. La marimba invece è in legno, perciò ha un timbro più caldo, e di ottave ne copre addirittura cinque. Lo xilofono - sempre per semplificare - è come una marimba, quindi in legno, ma più acuta». Il repertorio per un vibrafonista o per un marimbista non sembra sconfinato.«I primi grandi interpreti sono sicuramente i jazzisti. La musica colta invece, proprio perché la loro forma moderna è piuttosto recente, si accorge di questi strumenti più o meno da Alban Berg (1885-1935, ndr) in poi».Sembra un tecnicismo ma non lo è: due o quattro bacchette? «A rivoluzionare la tecnica ci ha pensato il jazzista Gary Burton. Prima di lui, musicisti come Milt Jackson e Lionel Hampton, facevano cantare il vibrafono e improvvisavano limitandosi a costruire melodie con due bacchette. Con l’impugnatura a quattro di Burton lo strumento cambia volto: acquista una dignità armonica, inizia a fare gli accordi, ad accompagnare. E diventa così un possibile sostituto della chitarra o del pianoforte nella sezione ritmica. Pensi che Burton non si era nemmeno reso conto di aver dato vita a una rivoluzione».Mi spieghi meglio.«I suoi primi passi sono quelli di un enfant prodige autodidatta dell’Indiana, nato in una famiglia di musicisti country. Poi da ragazzo, agli inizi degli anni Sessanta, va a New York per prendere lezione dai giganti. Appena Teddy Charles lo vede suonare a quattro mazzuole lo ferma e gli dice: “Forse non ci siamo capiti: sono io che devo imparare da te”. Burton era convinto che tutti facessero come lui, ma non era così» (ride). Quando lei arriva al Conservatorio di Milano, a fine anni Settanta, l’impostazione qual era?«Il mio maestro, Franco Campioni, era un percussionista fantastico, nonché timpanista dell’orchestra della Rai. Ma in Italia nessuno conosceva il Burton grip. Per imparare ho dovuto andare a Berlino da Friedman. David ovviamente non mi ha insegnato solo questo, è il classico mentore che con due frasi ogni volta ti apre un nuovo mondo».Quindi la rivoluzione di Burton in Italia l’ha portata lei?«Diciamo di sì, anche se c’erano già molti vibrafonisti validi. Alcuni ancora nel segno di Hampton e Jackson, altri magari più concentrati su altre percussioni. La mia marcia in più probabilmente è stata il diploma in pianoforte, che apre la mente a livello armonico. Arrivato a Milano avevo provato a farmi spazio nella scena jazzistica come batterista, con scarsi risultati. Poi un giorno ho tirato fuori il vibrafono e tutti volevano suonare con me» (ride).Sono gli anni del leggendario Capolinea?«Capolinea, Tangram, Scimmie, Isola Fiorita. La musica dal vivo era parte della città e contagiava anche i teatri. Non era difficile che dopo i concerti le star internazionali, come Pat Metheny o Dave Liebman, cercassero i club per unirsi alle jam session dei musicisti locali. Purtroppo negli anni ho assistito al declino costante della scena, arrivando al minimo storico di oggi: Milano non è una città per musicisti».L’incontro artistico con Bebo Ferra avviene nel periodo d’oro?«Suoniamo insieme da 30 anni. Per me Bebo non è solo un chitarrista straordinario, ma anche un amico fraterno. Vede, il duo per funzionare ha bisogno di una coesione assoluta. Quando ti accorgi che puoi lasciar scorrere la musica senza dover organizzare nulla è il massimo. Ed è un’esperienza rara. Oggi eseguiremo i brani del nostro primo album, Simul (etichetta Barnum, ndr), un’anticipazione del prossimo dedicato a Steve Swallow, qualche tributo a Lee Konitz, Jim Hall, Brad Mehldau. E degli intermezzi totalmente free».Quando lei parla di Bebo Ferra sembra di sentire Gary Burton che spiega il suo rapporto con Chick Corea. E, da fuori, una grande intesa si percepisce anche nel suo duo con un pianista raffinato come Antonio Zambrini. Dobbiamo però passare alla sua seconda vita in parallelo, quella di interprete di musica d’avanguardia e di docente di Conservatorio. Cosa ha visto accadere sull’altra faccia della luna?«All’inizio a Milano ho potuto fare molte esperienze in orchestra, ma soprattutto nelle formazioni di musica da camera di repertorio contemporaneo, come l’Ensemble Garbarino o Nuova consonanza. Poi ho avuto la possibilità di eseguire la musica di Luciano Berio, diretta da lui stesso. Il fermento insomma non mancava. A fine anni Novanta però un gruppo di amici ha sentito l’esigenza di fondare Sentieri selvaggi perché l’aria da tempo era diventata soffocante».In che senso?«La programmazione della musica contemporanea era stabilmente in mano alla sinistra. Da un lato, si potrebbe dire, per fortuna che ci ha pensato lei. Dall’altro l’approccio ideologico era pesantissimo e assolutamente limitante».Certi compositori non erano graditi?«Altroché, in pratica avevano diritto di essere eseguiti solo i postweberniani e pochi altri. Il difetto a mio avviso era proprio questo approccio monoestetico, figlio dell’ideologia della rivoluzione costante e del taglio netto con il passato e con la tradizione. Per intenderci, bastava un riferimento a una forma che era esistita prima, un accenno di tonalità, una pulsazione ritmica riconoscibile per essere banditi, in quanto reazionari».Addirittura? Mi può fare qualche nome? «Quelli che andavano per la maggiore erano Luciano Berio e Franco Donatoni, che per la loro grandezza se lo meritavano ampiamente. Altri però venivano sdoganati e celebrati solo perché partecipavano alla stessa estetica, anche se a mio parere erano molto meno interessanti. Penso a Giacomo Manzoni e Adriano Guarnieri. Chi invece usciva dal seminato non riusciva proprio a lavorare».Gli esclusi più eccellenti?«Tutto il cosiddetto neoromanticismo. Potrei citare il compositore tedesco Wolfgang Rihm, ma forse un altro esempio vale più di mille parole: nel 1985 ho partecipato all’esecuzione della prima di Sextet di Steve Reich. La sua musica girava il mondo da 20 anni, ma in Italia non era mai stata programmata. Essendo un compositore minimale, le sue opere venivano considerate robetta».Lo stesso clima si percepiva anche a livello accademico?«In Conservatorio questa impostazione era evidente, poi fortunatamente è andata scemando. Ho fatto in tempo comunque a percepire l’eco degli anni del “6 politico”, figlio dell’idea che chiunque dovesse essere ammesso, al di là delle sue reali capacità. Peccato che la musica sia selettiva per natura, visto che in questo campo conta anche il talento e il merito. Affermare una cosa del genere non è di certo fascismo».Dura la vita degli eretici di sinistra di Sentieri selvaggi?«Abbiamo solo tentato di colmare una mancanza, non volevamo decidere dall’alto cosa dovesse e cosa non dovesse ascoltare il pubblico. Anche perché non esiste solo Luigi Nono o Karlheinz Stockhausen, ma anche Reich, Philip Glass e molti altri. Le sale sempre più vuote poi non ci davano alcun compiacimento. Per fortuna negli anni alcune stupidaggini si sono rivelate tali. Sembra incredibile, ma c’è stata un’epoca in cui la tonalità era considerata di destra e l’atonalità di sinistra».
Nel riquadro la prima pagina della bozza notarile, datata 14 novembre 2000, dell’atto con cui Gianni Agnelli (nella foto insieme al figlio Edoardo in una foto d'archivio Ansa) cedeva in nuda proprietà il 25% della cassaforte del gruppo
Papa Leone XIV (Ansa)
«Ciò richiede impegno nel promuovere scelte a vari livelli in favore della famiglia, sostenendone gli sforzi, promuovendone i valori, tutelandone i bisogni e i diritti», ha detto Papa Leone nel suo discorso al Quirinale davanti al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. «Padre, madre, figlio, figlia, nonno, nonna sono, nella tradizione italiana, parole che esprimono e suscitano sentimenti di amore, rispetto e dedizione, a volte eroica, al bene della comunità domestica e dunque a quello di tutta la società. In particolare, vorrei sottolineare l'importanza di garantire a tutte le famiglie - è l'appello del Papa - il sostegno indispensabile di un lavoro dignitoso, in condizioni eque e con attenzione alle esigenze legate alla maternità e alla paternità».
Continua a leggereRiduci