2022-06-11
In questo Paese è ancora lecito criticare l’esecutivo?
Mario Draghi (Imagoeconomica)
In quest’Italia che dice di voler difendere la democrazia contro tutti gli autoritarismi, anche a prezzo di aggirare la Costituzione e inviare armi all’Ucraina, esiste ancora la libertà di esprimere le proprie opinioni oppure no? Le mie domande vi potranno sembrare oziose o addirittura stupide, ma dopo aver letto il famoso rapporto dei servizi segreti sulla «complessa e variegata rete» dei putiniani d’Italia (così la definì domenica scorsa il Corriere della Sera), gli interrogativi mi sembrano più che giustificati.Il documento, desegretato ieri dal Sottosegretario per la sicurezza della Repubblica, il prefetto Franco Gabrielli, dice molto dello stato della democrazia italiana. Infatti, ieri abbiamo scoperto che mandare in onda un’intervista a una delle parti in conflitto o pubblicare una critica al presidente del Consiglio può essere un’attività da segnalare con sospetto, perché ritenuta appartenente a un disegno di disinformazione che potrebbe perfino mettere a repentaglio la stabilità del nostro Paese. Eh sì, cari lettori: qui chi si permette di dire che Mario Draghi è un filino troppo atlantista, oppure che coltiva l’ambizioso progetto di diventare segretario della Nato, e per questo non si cura dell’aumento dei prezzi dei generi alimentari ed energetici, rischia di essere considerato una spia russa o, quanto meno, un influencer nelle mani del Cremlino. Basta un niente per finire nella lista degli opinionisti al servizio di Putin. È sufficiente parlare del malcontento e della sfiducia dei soldati ucraini prigionieri nei confronti del proprio esercito, oppure ritenere che gli Stati Uniti abbiano una responsabilità diretta nel conflitto in Ucraina, avendo portato Kiev dalla propria parte, o ancora, lasciar presagire un’imminente entrata in guerra dell’Alleanza Atlantica e il gioco è fatto. In automatico ci si ritrova presi nella «rete complessa e variegata» degli amici di Mosca. È scritto nel rapporto desegretato, non lo dico io. Il Dis, dipartimento delle informazioni per la sicurezza, organismo alle strette dipendenze di Palazzo Chigi, ha messo tutto nero su bianco: sette paginette in tutto in cui analizza la disinformazione nel conflitto russo-ucraino, con tanto di nomi e cognomi di chi, in tv o sui giornali, sulle piattaforme online o sui social network, racconta qualche cosa che non è ritenuto in linea con la narrazione che piace al governo. Ma quali sono le grandi operazioni di disinformazione della rete di putiniani d’Italia? «Tra i momenti più significativi», si legge nel rapporto del Dis «spicca l’intervista rilasciata dal ministro degli Esteri russo Lavrov a Zona Bianca». Ah, ecco: l’intervista a una delle parti in conflitto, magari per poi criticarla, contestarla o anche solo commentarla, sarebbe un’operazione di disinformazione. E poi? Beh, l’intervento di un economista al programma DiMartedì con citazione del numero di reporter uccisi negli ultimi otto anni in Ucraina rientrerebbe nel medesimo disegno. Per non parlare poi di un canale Telegram in cui sarebbe stato «fortemente criticato l’operato del senatore Alfonso Urso» (per descrivere l’accuratezza dell’elaborato segnalo che il presidente del Copasir si chiama Adolfo), e di un altro canale di un sito web che avrebbe «strumentalizzato le dichiarazioni del Pontefice in relazione alla presunta responsabilità del conflitto in capo all’Alleanza Atlantica». Tutto qui? Gli 007 del Dis hanno scoperto che in Italia qualcuno si permette di criticare l’operato del governo e magari anche di esponenti dell’opposizione, coinvolgendo perfino il Papa. Accidenti! Roba da far tremare i polsi e da indurre tutti gli italiani a un’attenta vigilanza democratica. Come si fa infatti a lasciar passare senza sussultare un post dell’ambasciata russa che ha definito un atto vandalico l’imbrattamento del cancello della propria sede con vernice rossa, senza dire che la vernice rappresenta il sangue versato in Ucraina? E che dire dell’intervista a Rosangela Mattei, nipote di Enrico Mattei, rilasciata il 25 aprile a La Verità? Secondo gli autori del rapporto è «analogamente rilevante nella narrativa anti-atlantista gravitante attorno alla figura del presidente del Consiglio», in quanto il premier Draghi viene descritto come «troppo amico degli americani». Non solo, sulla rete, cioè nel mare magno di internet, è emerso «un costante flusso di immagini di repertorio che ritraggono Draghi mentre indossa una spilla da giacca con l’emblema della Nato, ancora una volta strumentalizzate per giustificare una presunta aspirazione personale del premier a diventare segretario generale dell’Alleanza, per la quale porrebbe a rischio la sicurezza della sua stessa nazione». Una vicenda allarmante, che immaginiamo avrà indotto il Dis a predisporre immediate contromisure a tutela della sicurezza nazionale. Forse, come in certi Paesi, si potrebbero vietare le piccole critiche al presidente del Consiglio. O addirittura imporre un controllo preventivo sui giornali, magari prevedendo che un’intervista alla nipote del fondatore dell’Eni sia prima sottoposta al vaglio dell’autorità delegata. Oppure, per interrompere il flusso di disinformazione, si potrebbe fare come in Cina, cioè sospendere Internet e bloccare i canali social. Del resto, Facebook non si è già piegato a Xi Jinping? E allora che ci vuole ad adottare la mordacchia anche qui in Italia? In fondo, un fine democratico come l’ex premier Mario Monti lo aveva auspicato già ai tempi del Covid: se c’è la guerra servono leggi speciali. E anche bavagli speciali. Dis: dipartimento imbavagliamento speciale.Ps. Ma siamo sicuri che il famoso report svelato da Gabrielli sia l’unico? Non ce ne sono altri che sono ancora segretati? Anche perché il Corriere ha fatto nove nomi e nel rapporto rivelato ieri ne mancano un po’, Orsini compreso.
Un appuntamento che, nelle parole del governatore, non è solo sportivo ma anche simbolico: «Come Lombardia abbiamo fortemente voluto le Olimpiadi – ha detto – perché rappresentano una vetrina mondiale straordinaria, capace di lasciare al territorio eredità fondamentali in termini di infrastrutture, servizi e impatto culturale».
Fontana ha voluto sottolineare come l’esperienza olimpica incarni a pieno il “modello Lombardia”, fondato sulla collaborazione tra pubblico e privato e sulla capacità di trasformare le idee in progetti concreti. «I Giochi – ha spiegato – sono un esempio di questo modello di sviluppo, che parte dall’ascolto dei territori e si traduce in risultati tangibili, grazie al pragmatismo che da sempre contraddistingue la nostra regione».
Investimenti e connessioni per i territori
Secondo il presidente, l’evento rappresenta un volano per rafforzare processi già in corso: «Le Olimpiadi invernali sono l’occasione per accelerare investimenti che migliorano le connessioni con le aree montane e l’area metropolitana milanese».
Fontana ha ricordato che l’80% delle opere è già avviato, e che Milano-Cortina 2026 «sarà un laboratorio di metodo per programmare, investire e amministrare», con l’obiettivo di «rispondere ai bisogni delle comunità» e garantire «risultati duraturi e non temporanei».
Un’occasione per il turismo e il Made in Italy
Ampio spazio anche al tema dell’attrattività turistica. L’appuntamento olimpico, ha spiegato Fontana, sarà «un’occasione per mostrare al mondo le bellezze della Lombardia». Le stime parlano di 3 milioni di pernottamenti aggiuntivi nei mesi di febbraio e marzo 2026, un incremento del 50% rispetto ai livelli registrati nel biennio 2024-2025. Crescerà anche la quota di turisti stranieri, che dovrebbe passare dal 60 al 75% del totale.
Per il governatore, si tratta di una «straordinaria opportunità per le eccellenze del Made in Italy lombardo, che potranno presentarsi sulla scena internazionale in una vetrina irripetibile».
Una Smart Land per i cittadini
Fontana ha infine richiamato il valore dell’eredità olimpica, destinata a superare l’evento sportivo: «Questo percorso valorizza il dialogo tra istituzioni e la governance condivisa tra pubblico e privato, tra montagna e metropoli. La Lombardia è una Smart Land, capace di unire visione strategica e prossimità alle persone».
E ha concluso con una promessa: «Andiamo avanti nella sfida di progettare, coordinare e realizzare, sempre pensando al bene dei cittadini lombardi».
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Francesco Zambon (Getty Images)
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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