2020-04-12
Anche nel Lazio è strage nelle residenze per anziani: «Trattati come bestie»
Focolaio al Nomentana hospital, dove sono arrivati i pazienti positivi da una casa di riposo della zona rossa di Nerola: «Scaricati mezzi nudi, di notte, senza dignità».Giuseppe Calicchio è accusato di epidemia e omicidio colposi. La tragedia in realtà riguarda tutta Italia. Ma questo caso viene strumentalizzato per attaccare il governatore Fontana. E di conseguenza la Lega.Lo speciale contiene due articoliPer capire quale sia l'impatto del coronavirus sulla sanità laziale non basta fermarsi davanti all'imponente facciata dell'istituto Spallanzani, una delle eccellenze italiane nel campo dell'infettivologia. Nonostante in Lazio siano stati curati i primi malati di Covid-19 sbarcati in Italia (due turisti cinesi), la lezione non è bastata e, come vedremo, persino dopo la trasformazione del Paese in una gigantesca zona rossa, si sono formati dei focolai paragonabili al cluster di Alzano Lombardo (in provincia di Bergamo). Per fortuna gli spostamenti degli italiani erano già stati congelati. I principali problemi si sono registrati nelle residenze sanitarie assistenziali (più di 100 con 6.000 pazienti) e nelle case di riposo (centinaia - non esiste un vero censimento - con circa 15.000 ospiti), i vecchi ospizi, più o meno regolari, spesso gestite da istituzioni religiose e che si sono trasformate in bombe biologiche. Questa filiera si occupa di oltre 20.000 anziani che come vedremo non sono stati protetti adeguatamente. Nella sfortuna, a rendere meno drammatica la situazione è stato il fatto che in Lazio non esistono strutture grandi come il Trivulzio A Milano.Nella regione, a partire da marzo, sono state istituite quattro zone rosse: Nerola (in provincia di Roma, colpita la casa di riposo Maria Immacolata), Fondi (vicino a Latina: il contagio è iniziato con una festa in un centro anziani) Celleno (Viterbo), con quasi 40 infettati nella casa di riposo di Villa Noemi (29 ospiti su 34, più una decina di operatori), e, in parte Contigliano (Rieti): qui 50 anziani e una ventina di operatori positivi nella struttura Alcim. Ma se il contenimento sembra funzionare, le Asl hanno fatto non pochi errori e mostrato pecche. Su Facebook, un ginecologo e professore universitario ucciso dal Covid, Edoardo Valli, prima di morire aveva lasciato questo messaggio: «Vedi, fanno tampone a Zingaretti (Nicola, governatore del Lazio e segretario del Pd, ndr), Porro (Nicola, giornalista, ndr), Sileri (Pierpaolo, viceministro della Sanità, ndr) io ho febbre da tre giorni, stasera 38,7, ma, chiamato il numero regionale, mi dicono che con questi sintomi non è necessario: “Stai a casa" (grazie) e se peggioro di chiamare il 118!». I medici di famiglia, invece, tra i più esposti, ricevono un kit anti virus composto da cuffia, camice e sovra scarpe in tessuto non tessuto, più una mascherina Ffp2 senza filtro: «Ce ne danno uno solo per ogni gruppo di lavoro (che può comprendere da quattro a nove dottori, ndr). Per questo molti di noi non vanno nemmeno a ritirarlo», ci ha spiegato Giuseppe Rocca, medico di base della provincia di Roma.Torniamo ai contagi nelle strutture per anziani. Gli ultimi casi di focolai si sono registrati in una casa di riposo di Acilia gestita dalle suore cappuccine (23 anziane positive e sette suore, tutte trasferite in ospedale) e nel Selam palace di Roma, dove dal 2006 vivono circa 600 rifugiati del Corno d'Africa: sono al momento 18 i casi positivi e una dozzina di sospetti. Ma in Lazio ci sono due vicende che, più delle altre, raccontano come la Regione sia stata presa alla sprovvista. Si tratta della Rsa Madonna del Rosario di Civitavecchia e della casa di riposo Maria Immacolata di Nerola. Nella casa di riposo del paesino della Sabina sono stati infettati 56 residenti (su 63) e 16 dipendenti (su 25). Ma a Nerola di quell'epidemia resta solo il check point all'ingresso del paese e la tensostruttura messa in piedi dalla Protezione civile in cui sono entrati 700 abitanti su 1.900 per fare il tampone (sette i positivi). Il vero problema è diventato il Nomentana hospital, clinica specializzata nella riabilitazione, con due Rsa e un «hospice», dove sono stati trasferiti in massa gli ospiti provenienti da Nerola: oggi nella struttura risultano positivi più di 30 operatori sanitari e 85 pazienti (ma il picco è stato di 129 casi).Su una chat a cui sono iscritti circa metà dei 500 dipendenti (infermieri e fisioterapisti) è stata pubblicata una lettera di «lavoratori» che vogliono «fare luce sulla realtà drammatica che si è venuta a creare in questa struttura». Il documento racconta quanto successo, in particolare la notte del «drammatico arrivo» degli anziani di Nerola. Era il 25 marzo. «Uno scempio preconfezionato dalla Asl» si legge, e apparecchiato dalla direzione sanitaria con l'avallo della proprietà del Nomentana hospital. «Il trasporto di questi poveri pazienti è avvenuto in maniera forsennata e incivile. Le ambulanze che si susseguivano all'interno della struttura, scaricavano gruppi di sei-otto persone, in stato confusionale, in situazioni igienico-sanitarie lesive della loro dignità visto che la maggior parte era coperta e non vestita, senza alcuna mascherina sebbene positivi». Immaginate la scena: decine di anziani colpiti dal Covid trasferiti seminudi (i vecchi vestiti erano considerati a rischio contaminazione) e in stato confusionale su ambulanze stracolme. «Purtroppo una paziente è deceduta durante il trasporto e il direttore sanitario ne ha dovuto constatare il decesso non appena arrivata in struttura». Non solo: «Una volta scaricati con modalità barbare al Nomentana hospital, tali pazienti sono stati destinati al terzo piano, al Dsr 11 e in parte al Dsr12, reparto dove si sono registrati i primi casi di coronavirus all'interno del Nomentana hospital». Ed è così che l'epidemia si è estesa. Prima dell'arrivo dei nonnini, il virus era già «prolificato in fretta fino a contagiare più di 30 persone tra pazienti e lavoratori» e «l'equipe di medici non ha messo in atto le giuste procedure e le opportune precauzioni, bensì ha sottovalutato un focolaio che fatalmente è esploso». Nella lettera si parla anche di «pressapochismo» che «a distanza di pochi giorni ha causato la positività di molti pazienti e qualche operatore». Al Nomentana hospital «iniziano giorni di fuoco per il personale infermieristico dell'azienda», che ha dovuto sopportare «un carico di lavoro disumano» all'insegna dell'«improvvisazione», che avrebbe causato «attacchi di panico, ira e crisi isteriche e di pianto». Risultato: «un clima di tensione che ha facilitato il proliferare del contagio». Ma la denuncia non si ferma qui: ad aumentate «esponenzialmente il numero di contagiati, di piretici e sintomatici in tutti i reparti» avrebbero contribuito anche la struttura della clinica, che mal si adatta all'isolamento degli ambienti, e l'assenza di uno spogliatoio ad hoc per i lavoratori della zona Covid. Il contagio si è esteso così ai reparti dei lungodegenti «ove si sono utilizzati dispositivi di protezione non congrui». Tanto che in quest'area su 80 pazienti più di 60 sono risultati positivi, e si sono infettati 15 operatori su 30. Per questo, alla fine della loro lettera, i lavoratori scrivono: «Siamo indignati, impauriti e preoccupati per i nostri affetti più cari. Il nostro è un accorato grido di dolore al fine di fare luce su questa clinica e aiutarci a uscire da questo incubo».Uno degli oltre 30 dipendenti finiti in quarantena aggiunge importanti particolari: «I pazienti di Nerola hanno iniziato ad arrivare nel pomeriggio e l'ultimo trasferimento è avvenuto alle 4 di notte, come se si trattasse di una rapina». Nell'ospedale c'erano già più di 20 contagiati e il terzo piano era stato adibito a Covid hospital. «Peccato che nessuno avesse formato il personale per questa evenienza. Prima di aprire un reparto del genere e accettare i pazienti, bisognerebbe organizzarsi, realizzare un percorso “pulito" e uno “sporco" e invece chi vi lavorava si cambiava con tutto l'altro personale». Per l'uomo «tutti sapevano che girava il virus, ma facevano finta di nulla» e per due o tre settimane chi non era nella zona rossa al terzo piano, ha usato solo mascherine chirurgiche. Il contagio è diventato inevitabile: «Verso metà marzo avevamo diversi pazienti febbricitanti e noi chiedevamo che fossero sottoposti a tampone, ma non ci ha ascoltato nessuno. Così l'epidemia è esplosa in maniera tragica ai primi di aprile». Il virus è sceso velocemente dal terzo piano (quello dedicato al Corona) al secondo e al primo. «All'inizio venivano nascosti i casi e siamo stati a contatto con pazienti positivi senza saperlo». Uno dopo l'altro gli infermieri sono andati a casa: «E chi rimaneva al lavoro, come me, ha dovuto fare doppi turni anche da 17 ore complessive». Nella struttura di Fonte Nuova c'è stato, come detto, anche un grave problema nel rifornimento delle protezioni: «Per le prime due o tre settimane di emergenza abbiamo utilizzato solo mascherine chirurgiche e camici non idrorepellenti. Quando ha preso in mano la situazione la Asl, a inizio aprile, le cose sono cambiate». Ma non del tutto: «All'inizio avevamo a disposizione lo scafandro completo, quello con il cappuccio, poi ci hanno detto che era saltata una commessa da 1.500 pezzi e allora ci hanno dato camici idrorepellenti che arrivavano solo sino al ginocchio, una cuffia di “carta velina" e occhialini. Su alcuni camici abbiamo provato a spruzzare dei prodotti e filtravano. Anche nel reparto Covid hanno lavorato in condizioni pessime, senza personale sufficiente, effettuando straordinari su straordinari. Ci hanno mandato al massacro e io sono incazzato nero, perché oltre ad ammalarci noi abbiamo messo a rischio la salute delle nostre famiglie».Civitavecchia è diventata l'epicentro della crisi in Lazio (165 positivi e 18 deceduti). Qui c'è uno dei più importanti forni crematori, a cui si rivolgono anche regioni del Nord. Ma c'è pure il porto con le sue navi, che hanno fatto sbarcare croceristi e marittimi infetti. La pandemia ha colpito anche l'ospedale San Paolo, con decine di contagi (65, di cui 45 tra il personale sanitario) e sembra che a innescarli sia stata l'Rsa Madonna del Rosario (della società Giomi spa e sotto il controllo della Asl Roma 4) con i suoi 55 ospiti.Antonio Burattini, 58 anni, ex dipendente dell'Enel, nell'istituto ha ricoverato la mamma ottantottenne: «Dal giorno 5 marzo io e gli altri parenti abbiamo contato 17 decessi tra i 42 anziani risultati positivi al virus, una lista di contagiati a cui bisogna aggiungere anche 16 operatori». Da quasi un mese la struttura è diventata centro Covid. Ma i famigliari, di fronte allo stillicidio di morti, hanno presentato diversi esposti in Procura «per capire che cosa sia davvero successo». Per esempio uno degli ospiti, Ivo, dopo essere risultato negativo al tampone, è stato isolato in una stanza con altri due compagni «sani». Salvo morire giovedì scorso proprio di Covid al Policlinico Gemelli.Nella Spoon River di Civitavecchia ci ha colpito la storia di Pasquale, un ex pugile dal fisico possente, che è stato ricoverato nella Rsa il 5 marzo, quando la struttura era già stata interdetta agli esterni. È entrato con le proprie gambe e da allora i familiari non l'hanno più visto. L'11 marzo è morto il primo ospite a causa del virus e il 16 marzo i responsabili della casa di cura hanno avvertito i parenti che anche Pasquale stava male e che era stato ricoverato a Roma. Dopo cinque giorni la figlia è stata ricontattata: «Suo padre è morto». Così, senza neanche avere la possibilità di un ultimo saluto, di un abbraccio. A questo punto la donna intraprende una pietosa battaglia per riportare il genitore a Civitavecchia e per farlo cremare vicino a casa, ma dal cimitero Flaminio di Roma respingono la richiesta e la informano che la prima data utile per la cremazione nella Capitale sarebbe stata il 24 aprile. La signora si ribella, non vuole che il padre resti «parcheggiato» lontano dalla famiglia per tutti quei giorni e poi il 24 aprile è anche il compleanno della madre e lei, la figlia, non ha cuore di farle come regalo il funerale del marito. Si attacca al telefono e ottiene che il padre venga cremato il 9 aprile a Civitavecchia. Ma quando la via crucis sembra conclusa, la signora scopre che Pasquale era già stato cremato il 2 aprile, a sua insaputa: «Nessuno mi ha detto niente», ha ripetuto con un filo di voce la donna.Gli era rimasto solo Gianni, l'amico di sempre. Augusto Di Bartolomeo, originario della provincia di Chieti, aveva compiuto 76 anni lo scorso 17 febbraio e sino alla fine del secolo scorso, da laico, si era occupato di marketing. Nel 2002 aveva deciso di diventare monaco benedettino e dopo pochi anni si era fatto ordinare sacerdote. «Era amato dai suoi fedeli, era una persona brillante con la passione per la filosofia e la teologia», ricorda Gianni che con Augusto ha condiviso quasi mezzo secolo di profonda amicizia. Dopo tre lustri con indosso la tonaca, l'esistenza del sacerdote era stata nuovamente sconvolta. Questa volta non dalla fede, ma da una delle malattie più subdole, l'Alzheimer. Don Augusto era entrato nella struttura nel luglio del 2019. «L'ultima volta l'ho visto il 3 marzo, poi non mi hanno fatto più entrare». ricorda Gianni, che è un ex infermiere, «Augusto era un paziente molto delicato. Io chiamavo tutti i giorni per informarmi sul suo stato di salute. Andavo nella struttura tre volte a settimana, gli tagliavo barba e capelli, lo aiutavo a mangiare, lo facevo passeggiare in giardino. L'ultima volta che ho parlato con lui è stato una decina di giorni prima del trasferimento. Non era di molte parole, mi aveva solo detto: “Quando vieni a trovarmi? Mi sento solo"». La commozione incrina la voce di Gianni. Dopo qualche secondo di silenzio, l'uomo si riprende e continua il racconto: «Augusto è risultato negativo ai due primi tamponi, insieme ad altre sei persone. Per questo è stato deciso il loro trasferimento in un'altra Rsa della stessa proprietà, a Morlupo». Oggi l'ex infermiere si interroga: «L'ambulanza, che credo sia utilizzata da entrambe le strutture, era stata sanificata? Perché circa due giorni dopo, il 27 marzo, Augusto ha un attacco febbrile e viene messo in isolamento. Secondo il medico quella condizione poteva essere stata causata dallo spostamento. La sera del 31 marzo, però, la situazione precipita. L'infermiera di turno sostiene che alle 20 Augusto “stava bene". Alle 21, invece, le “sembrava strano". Quando gli controlla la temperatura, questa è schizzata a 39. A questo punto gli dà l'ossigeno, perché ha difficoltà respiratorie, e chiama un'ambulanza per trasferirlo in un'altra struttura, ma non fa in tempo: verso le 23 Augusto muore per arresto cardiocircolatorio». La mattina successiva Gianni fa all'amico una videochiamata, ma non riceve risposta: «Sono stato avvertito di quanto era successo solo nel pomeriggio. L'infermiera si è scusata dicendo che della morte dovevano avvisarmi i medici. Nella videochiamata avrei voluto dirgli: “Ciao, non ti abbiamo abbandonato"».Enzo Junior Palazzini ci racconta la sua esperienza con la madre di 72 anni, entrata nella struttura il 3 marzo. «Il 4, io e altri cinque parenti abbiamo festeggiato il suo compleanno là dentro. Il 5 sono state interrotte tutte le visite». Da quel momento, per circa una settimana, Renzo non è riuscito a parlare con i responsabili: «Sono arrivati a dirmi che non c'era una linea telefonica nella stanza del direttore sanitario». Ma questa non è l'unica doglianza: «Ho scoperto che di notte c'erano solo due addetti per gestire 55 ospiti distribuiti su tre piani e che anche quando è iniziata l'emergenza facevano mangiare mia madre insieme con gli altri pazienti nelle sale comuni. “Non si preoccupi tutti tengono la distanza di sicurezza", mi ha tranquillizzato la dottoressa. Peccato che mia madre sia entrata là dentro da negativa e adesso sia positiva». Con l'Adnkronos la direttrice Rosalba Padroni respinge le accuse e rivendica di essersi prodigata per i suoi ospiti: «Abbiamo fatto di tutto, quando abbiamo visto che c'era bisogno li abbiamo mandati in ospedale, ma anche lì non si è riusciti a evitare l'inevitabile».
Nel riquadro Roberto Catalucci. Sullo sfondo il Centro Federale Tennis Brallo
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