2019-01-10
Anche i lombrichi cacciano nei guai Macron
Christophe Gatineau, agronomo accusa il capo dell'Eliseo di non rispettare il patto per la salvaguardia di vermi, necessari per limitare l'impoverimento dei terreni. Ma l'allarme per il rischio estinzione sale in tutto il mondo. Colpa dei pesticidi e dell'eccessivo calpestamento del suolo.A guastare il sonno di Macron ci si è messo anche un verme. Christophe Gatineau, agronomo in carne e ossa, non l'immaginario Florent-Claude Labrouste protagonista del romanzo Serotonina di Michel Houellebecq, libro profetico della rivolta della Francia in crisi, dalle pagine del quotidiano Le Monde ha lanciato un intenso appello: «Signor presidente, il tempo stringe, i lombrichi stanno scomparendo e con loro i terreni nutrienti». Specializzato in agricoltura innovativa e autore di diversi libri, l'ultimo dei quali è un Éloge du ver de terre, come i francesi chiamano l'anellide tanto caro a Darwin, l'agronomo accusa il capo dell'Eliseo di investire milioni di euro per riabilitare l'orso e il lupo ma non un solo centesimo per il progetto chiamato Salva il lombrico. In questo modo, gli rimprovera Gatineau, tradisce la volontà dei francesi che sul sito del ministero della Transizione ecologica hanno indicato il progetto come priorità assoluta da perseguire «nella riconquista delle biodiversità». Cita anche il noto astrofisico Hubert Reeves, che avrebbe affermato: «La scomparsa del lombrico è un fenomeno più preoccupante del ghiaccio che si scioglie». Davvero dovremo pentirci della mancanza di questo verme della terra, che si alimenta di tutto ciò che marcisce? «Innanzitutto bisogna parlare di lombrichi perché ne esistono specie differenti, 93 quelle presenti nel nostro Paese», puntualizza Maurizio Guido Paoletti, 72 anni, entomologo specialista di ecologia del suolo. «Lavorano tutti in modo instancabile ma gli epigei vivono in superficie, gli endogei scavano a media profondità, gli anecici sono di grandi dimensioni e fanno gallerie profonde come il lumbricus terrestris studiato da Charles Darwin, descritto nel suo ultimo libro del 1881 come la specie che rimuove maggiormente gli strati del suolo. È il lombrico più importante per la formazione del terreno, lo si può definire un ingegnere del suolo perché ne ottimizza struttura e fertilità attraverso il rapporto con batteri e funghi». Purtroppo, però, da vigneti e campi sono in gran parte scomparsi questi piccoli e operosi animali che trascinano in profondità materia organica, prezioso fertilizzante naturale. Eliminati da pesticidi o dall'eccessivo calpestamento del suolo, gli umili e intelligenti lombrichi non riescono più a svilupparsi. Ignorando che con i loro movimenti deambulatori migliorano la permeabilità e l'areazione del terreno, spesso vengono allontanati solo perché le deiezioni in superficie danno fastidio e sporcano, come accade sui capi da golf. E i lombrichi allevati nei compost per raccogliere l'humus, il fertile composto derivato dalla decomposizione dei residui vegetali e animali e dall'attività di sintesi di questi microrganismi, non sopravvivono nei campi. «Bisogna farli tornare a vivere nei terreni, mettendo da parte l'avversione ingiustificata che abbiamo. Oggi, se vai a una conferenza e parli di lombrichi il pubblico storce il naso», commenta il professore, che ai vermi di terra ha dedicato numerosi scritti pubblicati su riviste internazionali. Due anni fa, uno studio condotto dal suo gruppo di ricerca dell'Università di Padova e pubblicato su Plos One rivelò l'esistenza di una nuova specie, battezzata Eophila crodabepis, che negli oltre 750 chilometri quadrati del Veneto dove cresce il vitigno Glera, uva del Prosecco, ha avuto un ruolo chiave nella formazione del suolo. Il terroir del vino sarebbe garantito da questo enorme, variopinto lombrico scavatore. «Eppure non si spende una lira per fare ricerca e approfondire l'argomento o per migliorare le tecniche di coltivazione del terreno», osserva l'entomologo. «Altre due specie endemiche, l'Octodrilus tergestinus e l'Octodrilus mimus, hanno un'importanza fondamentale per i vini dei Colli Orientali del Friuli, ma nessuno ha voglia di approfondire». Pochi giorni fa, l'imprenditore del caffè Riccardo Illy raccontava al Corriere della Sera che vive a Trieste perché «qui si coltivava la Glera già al tempo dei romani» e che il suo sogno sarebbe un «Prosecco triestino». Chissà, forse potrebbe prendersi a cuore il ripopolamento dei lombrichi perché migliorino le condizioni di campi e vigneti. Per quanto utile, infatti, la lombricoltura che commercializza sia i lombrichi sia il loro l'humus e che è tornata a diffondersi negli ultimi anni, non riesce a risolvere l'impoverimento dei terreni. Le specie che vengono allevate, soprattutto l'Eisenia fetida impropriamente chiamata verme rosso californiano, vivono solo nei compost. E con l'humus prodotto nell'azienda agricola Conitalo, l'allevamento di lombrichi più grande d'Italia con 11.000 metri quadrati di lettiere a Venaria Reale (Piemonte) e altri 5.000 a Turi, in provincia di Bari, non si soddisferebbe nemmeno l'1% del fabbisogno di concime organico dell'agricoltura biologica. La domanda supera di gran lunga l'offerta. «In Italia siamo solo quattro realtà a livello professionale. Fare il calcolo di quanti ne alleviamo a Conitalo è complicato, circa 8.000 lombrichi per metro quadrato, più di 128 milioni di vermi», spiega Fabio Barone, 31 anni, amministratore della società fondata da Luigi Compagnoni. «Questi animali vivono quasi tre anni e continuano a riprodursi, in 12 mesi si quadruplicano. Mangiano erba, letame bovino, rifiuti umidi. Un metro quadrato di lombrichi smaltisce una tonnellata di organico l'anno». Clienti di Conitalo sono aziende agricole che acquistano lettiere di lombrichi per riciclare letame (pagandole dai 100 ai 150 euro a metro quadrato) o comprano humus, il concime biologico prodotto dai vermi (dai 50 ai 150 euro al quintale), prezioso per i terreni impoveriti e che non brucia le piante. «La scorsa estate siamo stati chiamati da Al Bano nelle tue tenute a Cellino San Marco, circa 300 ettari tra uliveti e agrumeti. Solo rifornire di humus i suoi terreni assorbirebbe l'80% della nostra produzione», racconta Barone. «Ci vogliono dieci mesi per ottenere 3,5 quintali di concime, ottenuti dallo smaltimento di una tonnellata di letame consumato dai lombrichi. Molte amministrazioni locali chiedono il nostro aiuto anche per eliminare grazie ai lombrichi tutto il verde pubblico che viene tagliato». I problemi più grossi sono gli scarsi incentivi all'allevamento: «Il vermicompost non è contemplato tra le attività agricole e si viene super tassati. I lombrichi sono animali “non definiti". Abbiamo chiesto la collaborazione del dipartimento di scienze agrarie, forestali e alimentari dell'Università di Torino per certificare l'importanza della lombricoltura, speriamo che qualche effetto produca», si augura Fabio Barone.