2020-09-24
Amy Barrett, la magistrata di Trump che spaventa i fan dei «nuovi diritti»
Amy Coney Barrett (Wikimedia Commons)
Cattolica, 5 figli di cui due adottati, la candidata preferita dal presidente per la Corte suprema è il terrore dei progressisti. Ma è una giurista impeccabile. Per questo l'attaccano sulla fede: «Il dogma vive in te».Amy Barrett. Tra i nomi circolati in questi giorni come possibile successore alla Corte Suprema Usa al posto di Ruth Bader Ginsburg il suo è ripetuto con insistenza. Brillante professoressa di diritto costituzionale presso la Law school dell'università di Notre Dame, da tre anni giudice presso la Corte d'appello del settimo circuito (negli Usa, sopra tutti sta la Corte suprema; subito sotto 13 Corti d'appello federali, organizzate in Circuiti), e le ultime due nomine di Donald Trump hanno attinto proprio a giudici di queste Corti.Si tratterebbe di una nomina giovane (48 anni), che inciderebbe a lungo nell'equilibrio della Corte suprema americana: i giudici sono come il papa, non scadono, restano a vita. Il nome fa tanto rumore: sarebbe un giudice forte e avversatissimo dai democratici che cavalcano i «nuovi diritti», perché Amy Barrett è l'esempio perfetto di come l'asettica oggettività del diritto sia una chimera: le vicende personali e professionali si intersecano nelle alte nomine anche e più di quelle dei politici.Amy Barrett ha studiato alla Notre Dame e si è laureata nel 1997. Ha poi servito come assistente del giudice Antonin Scalia, istituzione del costituzionalismo americano, amato, odiato, e venerato in tutti gli Stati Uniti. Come Scalia, è un'originalista, una studiosa che ritiene che la Costituzione vada capita nel suo tenore letterale e non interpretata alla luce di obiettivi politici e dell'evoluzione della società (ad esempio con ragionamenti del tipo: «Il poliamore una volta era un tabù, ma ormai lo fanno tutti e quindi…»). Si capisce che chi ha questa concezione del diritto non piaccia a tutti coloro che, fallita la rivoluzione con le armi o col voto, cercano di cambiare la società e l'uomo cambiandone le leggi con i giudici.Il precedente è troppo fresco per dimenticarlo: quando nel 2017 Donald Trump propose Amy Barrett al Senato americano come giudice presso il settimo circuito, quello di Chicago e dintorni, si scatenò una reazione violentissima. Uno dei protagonisti dell'attacco fu la senatrice democratica della California Dianne Feinstein, che la accusò: «Hai una lunga storia come una che crede che le proprie convinzioni religiose debbano prevalere. Il dogma vive apertamente in te». Il problema era (è?) che Amy Barrett è cattolica, e non una di quelle che «la Chiesa dice, ma io penso…». Una cattolica che va in chiesa, insegna in un'università cattolica, e cresce i figli mandandoli a catechismo. Poco importa che la Costituzione americana dica espressamente che la religione non può essere un discrimine nelle nomine pubbliche. La sua nomina era insostenibile, un po' come la vicenda Buttiglione alla Commissione europea: secondo alcuni ne andrebbe di tutto il progresso sin qua ottenuto, del diritto all'aborto, del matrimonio omosessuale, dei nuovi diritti. Dopo l'elezione di Trump, il clima nell'America liberal è questo: la misura è colma, giocando al gioco democratico le cose stanno andando male, è ora di protestare e urlare, perché qualsiasi cosa vada contro il mantra del «progresso» è da fermare a tutti i costi. Però Amy Barrett non ha mai scritto nulla contro questo o quel diritto, non ha mai detto «se un giorno andrò alla Corte suprema rovescerò tutto». Il problema è tutto lì: che le vicende personali e ideologiche, ormai, quando si parla di giudici in America, diventano un tutt'uno. E che cos'ha di così scandaloso la Barrett, per essere avversata? Va in chiesa la domenica, ha avuto 5 figli da suo marito, di cui uno con la sindrome di Down, e il quinto lo ha avuto dopo aver adottato ben due figli provenienti da Haiti. Già: c'era chi guardava il disastro del terremoto in tv e mandava messaggini con scritto «HAITI» e donando 2 euro, e chi prendeva l'aereo, vedeva degli orfani, e dava loro una famiglia. Tutto ciò probabilmente è scandaloso, soprattutto se la persona di chi si macchia di questi atteggiamenti «dubbi» proviene da una facoltà di diritto, a Notre Dame, dove molti docenti sono cresciuti professionalmente e nella fede insieme: non come monadi in cerca di fortuna, ma come un vero gruppo di amici dal pensiero libero e poco allineato, come Bellia, Snead e Carozza. Oltretutto ha una forte personalità: negli Usa, terra del merito e del confronto continuo, Amy Barrett è risultata per ben tre volte la professoressa più apprezzata dagli studenti: «Prof. of the Year». Intelligente, preparata, e pure con un grande carisma, tanto da essere amata anche dai ragazzi. Non dovremmo stupirci, quindi, se la vedremo al Senato per chiedere di essere confermata come giudice. Ha tutti i crismi per essere nominata, ha il cursus honorum, e anche se fino ad ora Trump è stato spesso protagonista di una politica ondivaga, nelle nomine è stato molto accurato.Fra i tanti giudici da lui già nominati nelle Corti d'appello spiccano tuttavia due nomi che potrebbero contendere il posto a Amy Barrett alla Corte suprema: Allison Rushing e Barbara Lagoa. In particolare la seconda potrebbe essere una nomina strategica: entrambi i genitori sono esuli cubani, è cresciuta in Florida (curiosamente: anch'essa è cattolica praticante). Potrebbe essere proposta nell'ottica di ingraziarsi il voto degli ispanici in Florida, uno stato le cui sorti sono sempre state decisive nella campagna presidenziale.
(Guardia di Finanza)
I peluches, originariamente disegnati da un artista di Hong Kong e venduti in tutto il mondo dal colosso nella produzione e vendita di giocattoli Pop Mart, sono diventati in poco tempo un vero trend, che ha generato una corsa frenetica all’acquisto dopo essere stati indossati sui social da star internazionali della musica e del cinema.
In particolare, i Baschi Verdi del Gruppo Pronto Impiego, attraverso un’analisi sulla distribuzione e vendita di giocattoli a Palermo nonché in virtù del costante monitoraggio dei profili social creati dagli operatori del settore, hanno individuato sette esercizi commerciali che disponevano anche degli iconici Labubu, focalizzando l’attenzione soprattutto sul prezzo di vendita, considerando che gli originali, a seconda della tipologia e della dimensione vengono venduti con un prezzo di partenza di circa 35 euro fino ad arrivare a diverse migliaia di euro per i pezzi meno diffusi o a tiratura limitata.
A seguito dei preliminari sopralluoghi effettuati all’interno dei negozi di giocattoli individuati, i finanzieri ne hanno selezionati sette, i quali, per prezzi praticati, fattura e packaging dei prodotti destavano particolari sospetti circa la loro originalità e provenienza.
I controlli eseguiti presso i sette esercizi commerciali hanno fatto emergere come nella quasi totalità dei casi i Labubu fossero imitazioni perfette degli originali, realizzati con materiali di qualità inferiore ma riprodotti con una cura tale da rendere difficile per un comune acquirente distinguere gli esemplari autentici da quelli falsi. I prodotti, acquistati senza fattura da canali non ufficiali o da piattaforme e-commerce, perlopiù facenti parte della grande distribuzione, venivano venduti a prezzi di poco inferiori a quelli praticati per gli originali e riportavano loghi, colori e confezioni del tutto simili a questi ultimi, spesso corredati da etichette e codici identificativi non conformi o totalmente falsificati.
Questi elementi, oltre al fatto che in alcuni casi i negozi che li ponevano in vendita fossero specializzati in giocattoli originali di ogni tipo e delle più note marche, potevano indurre il potenziale acquirente a pensare che si trattasse di prodotti originali venduti a prezzi concorrenziali.
In particolare, in un caso, l’intervento dei Baschi Verdi è stato effettuato in un negozio di giocattoli appartenente a una nota catena di distribuzione all’interno di un centro commerciale cittadino. Proprio in questo negozio è stato rinvenuto il maggior numero di pupazzetti falsi, ben 3.000 tra esercizio e magazzino, dove sono stati trovati molti cartoni pieni sia di Labubu imbustati che di scatole per il confezionamento, segno evidente che gli addetti al negozio provvedevano anche a creare i pacchetti sorpresa, diventati molto popolari proprio grazie alla loro distribuzione tramite blind box, ossia scatole a sorpresa, che hanno creato una vera e propria dipendenza dall’acquisto per i collezionisti di tutto il mondo. Tra gli esemplari sequestrati anche alcune copie più piccole di un modello, in teoria introvabile, venduto nel mese di giugno a un’asta di Pechino per 130.000 euro.
Soprattutto in questo caso la collocazione all’interno di un punto vendita regolare e inserito in un contesto commerciale di fiducia, unita alla cura nella realizzazione delle confezioni, avrebbe potuto facilmente indurre in errore i consumatori convinti di acquistare un prodotto ufficiale.
I sette titolari degli esercizi commerciali ispezionati e destinatari dei sequestri degli oltre 10.000 Labubu falsi che, se immessi sul mercato avrebbero potuto fruttare oltre 500.000 euro, sono stati denunciati all’Autorità Giudiziaria per vendita di prodotti recanti marchi contraffatti.
L’attività s’inquadra nel quotidiano contrasto delle Fiamme Gialle al dilagante fenomeno della contraffazione a tutela dei consumatori e delle aziende che si collocano sul mercato in maniera corretta e che, solo nell’ultimo anno, ha portato i Baschi Verdi del Gruppo P.I. di Palermo a denunciare 37 titolari di esercizi commerciali e a sequestrare oltre 500.000 articoli contraffatti, tra pelletteria, capi d’abbigliamento e profumi recanti marchi delle più note griffe italiane e internazionali.
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