
In Occidente dire «ti amo» è un'abitudine ed essere felici viene considerato un diritto. Forse però questa è un'idea americana. A Parma ci limitiamo a «ti voglio bene» e «sto bene». Cerchiamo la nostra Gerusalemme e se cambia ce ne facciamo una ragione.Scrivo questo articolo (quinto di una piccola serie che si propone di raccontare come la letteratura sia uno strumento per comprendere meglio i temi a noi contemporanei, la nostra attualità) in Islanda, a Reykjavik, e, visto che sono qua da qualche giorno, immerso in questa natura islandese e in questa civiltà islandese dove, per esempio, tutti quelli che entrano sono obbligati a fare il tampone e hanno il risultato entro 12 ore, e per questo il Covid non fa tanta paura, e la mascherina non è obbligatoria nemmeno nei luoghi chiusi, visto che sono qua da qualche giorno, dicevo, sono un po' a corto di temi contemporanei, e subito avrei voluto parlare di quel che mi succede quando parto per un viaggio, e che credo succeda anche a qualcuno altro, cioè che di solito, dopo qualche minuto che sono partito da casa, mi viene il dubbio di aver dimenticato a casa qualcosa allora controllo di avere con me: gli occhiali; la custodia degli occhiali; gli occhiali di riserva (nel caso che si rompano i primi occhiali); la custodia degli occhiali di riserva; lo straccetto per pulire gli occhiali (e, nel caso, per pulire gli occhiali di riserva); il telefono; il caricatore del telefono; il computer; il caricatore del computer; l'orologio; il caricatore dell'orologio; le cuffie (per le orecchie); il caricatore delle cuffie (per le orecchie); il caricatore portatile del telefono; il caricatore del caricatore portatile del telefono e del caricatore delle cuffie (per le orecchie); lo spazzolino elettronico; il caricatore dello spazzolino elettronico; il portafoglio; il portamonete; le chiavi; la cuffia (per la testa); l'agenda; il taccuino; l'astuccio; la borraccia. Più o meno. Solo che, con questo elenco, interessante, magari, la letteratura mi è sembrato non c'entrasse moltissimo allora ho ripiegato su un tema che mi sembra non venga dall'attualità, dalle prime pagine dei giornali, ma che credo sia comunque tipico della nostra contemporaneità. Se ci fosse qualcuno che avesse l'autorità di dettare i dieci comandamenti dell'epoca contemporanea, in Occidente, credo che il primo, o uno dei primi, sarebbe: «Siate felici». Siamo convinti, mi sembra, di avere diritto a essere felici ed è una cosa che io, devo dire, non riesco a capirla. È una parola, quella lì, «felicità», che io credo di non avere mai pronunciato, come altre parole molto diffuse che non riesco ad articolare, il verbo amare, per esempio, in tutte le sue coniugazioni. Io credo che, se dicessi a qualcuno, seriamente, «Ti amo», mi cadrebbe la faccia, dovrei raccogliere per terra pezzetti della mia faccia per ore, dopo.Per anni mi sono chiesto come mai, e una decina di anni fa mi sono accorto che queste idiosincrasie dipendono dal fatto che sono un parmigiano. E, a Parma, in dialetto parmigiano, la parola «felicità» non esiste. Non si dice, a Parma, «Sono stato felice», si dice «A son stè ben», sono stato bene: noi parmigiani la felicità non sappiamo neanche com'è pitturata. È proprio un concetto che noi non abbiamo e quando, qualche anno fa, ho letto un pezzo di Gianni Celati che diceva che la felicità era un concetto americano, ho pensato: «Ha ragione». Con il verbo «amare», la stessa cosa. Non si dice, a Parma, «Ti amo», si dice «At voj ben», «Ti voglio bene» e «A mor», in dialetto Parmigiano, non significa «Amore», significa «Io muoio». Che, come si capisce, è tutta un'altra cosa. Mi si potrà chiedere «Ma tu non sei madrelingua italiano?». Certo, sono madrelingua italiano, ma il mio è un italiano che affonda le radici nella lingua dei miei genitori e dei miei nonni, il dialetto parmigiano. La mia lingua, mi sono accorto una decina di anni fa, il pozzo delle mie emozioni, io l'ho scavato a Parma, e quando devo lavorare con loro, con le mie emozioni, devo usare le parole che ho sepolto a Parma, devo tornare a Parma e buttare giù il secchio in quel pozzo lì, non posso fare altrimenti. Tuttavia, anche se non abbiamo le stesse parole degli altri, anche noi parmigiani ci innamoriamo e aspiriamo anche noi, nel nostro piccolo, a migliorare. Non vogliamo, forse, essere felici, come tutti gli altri, ma tendiamo a qualcosa che potremmo chiamare, per intenderci, Gerusalemme.Questa Gerusalemme mi è entrata nella testa qualche anno fa dopo che ho letto un libro di uno straordinario scrittore russo che si chiama Viktor Šklovskij. La cosa che ho letto diceva che «I crociati, durante la prima crociata, tutte le città che trovavano le scambiavano per Gerusalemme. Poi guardavano meglio, e si accorgevano che non era, Gerusalemme. Allora facevano un pogrom. Perché erano offesi. Comunque», conclude Šklovskij, «Gerusalemme esiste». E io credo che esista, Gerusalemme, per tutti noi, anche per quelli che vengon da Parma, e che sia il nome che noi parmigiani potremmo dare a quella parola che non riusciamo a pronunciare, quella che comincia per F. E Gerusalemme, rispetto a quel concetto americano là, che è così vago che non sai di cosa riempirlo, ha il vantaggio di essere concreta e che puoi sceglierla tu, la tua Gerusalemme. Non è tirannica come la felicità, è più democratica. Se cambia, nel corso del tempo, va bene lo stesso. Io per esempio, tanti anni fa, ci tenevo molto a sembrare una persona intelligente ed ero molto fiero dei miei voti, quando facevo l'università, e il mio rendimento scolastico era una delle mie principali fonti di soddisfazione, e coltivavo le mie passioni e le mie idiosincrasie (come quella per il verbo amare o per la parola felicità) nella convinzione che fossero il segno di una personalità in qualche modo superiore o, quanto meno, singolare, originale, e interessante, molto. L'altro giorno, tanti anni dopo, in questo terribile 2020, dopo aver corso sul lungomare di Reykjavik stavo facendo gli allungamenti sul muretto del garage dell'albergo che mi ospita, un orologio appeso a un edificio mi diceva che erano le 6.18 del mattino e che c'erano 10 gradi, due ragazzi sono passati e mi hanno detto, tutti e due, «Good morning», e io gli ho risposto, a tutti e due, «Good morning». E mi è venuto in mente che, fino a pochi anni fa, io, se ero costretto a parlare in inglese, mi irritavo, avevo una specie di avversione per l'inglese che me la spiego col fatto che io, fino a pochi anni fa, ero un coglione. E ho pensato, due giorni, a Reykjavik, che quel che scopri, diventando vecchio, il principale mistero che ti si svela, che sei un coglione. E mi son detto che il mio obiettivo, la mia Gerusalemme, per i prossimi anni potrebbe cercare di accorgermi di tutte le volte che mi comporto come un coglione. E mi rendo conto che è un obiettivo ambizioso e che è difficilissimo, riuscirci. Ma è un po' il contrario di quello che mi premeva un tempo: dimostrare, allora, agli altri, di essere intelligente; accorgermi, adesso, io, di essere un coglione.(5. Continua)
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